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Dopo la partenza di Mossadegh, lo scià Mohammad Reza Pahlavi consolidò il suo potere e divenne sempre più autoritario. Lo scià, sostenuto dagli Stati Uniti e da altre potenze occidentali, lanciò un ambizioso programma di modernizzazione e sviluppo in Iran. Questo programma, noto come "Rivoluzione Bianca", fu avviato nel 1963 e mirava a trasformare rapidamente l'Iran in una nazione moderna e industrializzata. Le riforme dello Scià comprendevano la ridistribuzione delle terre, una massiccia campagna di alfabetizzazione, la modernizzazione economica, l'industrializzazione e la concessione del diritto di voto alle donne. Queste riforme avrebbero dovuto rafforzare l'economia iraniana, ridurre la dipendenza dal petrolio e migliorare le condizioni di vita dei cittadini iraniani. Tuttavia, il regno dello Scià fu anche caratterizzato da un rigido controllo politico e dalla repressione del dissenso. La polizia segreta dello scià, il SAVAK, creata con l'aiuto di Stati Uniti e Israele, era nota per la sua brutalità e le sue tattiche repressive. La mancanza di libertà politiche, la corruzione e la crescente disuguaglianza sociale portarono a un diffuso malcontento tra la popolazione iraniana. Sebbene lo scià sia riuscito a compiere alcuni progressi in termini di modernizzazione e sviluppo, la mancanza di riforme politiche democratiche e la repressione delle voci di opposizione hanno contribuito all'alienazione di ampi segmenti della società iraniana. Questa situazione ha spianato la strada alla Rivoluzione iraniana del 1979, che ha rovesciato la monarchia e istituito la Repubblica islamica dell'Iran. | Dopo la partenza di Mossadegh, lo scià Mohammad Reza Pahlavi consolidò il suo potere e divenne sempre più autoritario. Lo scià, sostenuto dagli Stati Uniti e da altre potenze occidentali, lanciò un ambizioso programma di modernizzazione e sviluppo in Iran. Questo programma, noto come "Rivoluzione Bianca", fu avviato nel 1963 e mirava a trasformare rapidamente l'Iran in una nazione moderna e industrializzata. Le riforme dello Scià comprendevano la ridistribuzione delle terre, una massiccia campagna di alfabetizzazione, la modernizzazione economica, l'industrializzazione e la concessione del diritto di voto alle donne. Queste riforme avrebbero dovuto rafforzare l'economia iraniana, ridurre la dipendenza dal petrolio e migliorare le condizioni di vita dei cittadini iraniani. Tuttavia, il regno dello Scià fu anche caratterizzato da un rigido controllo politico e dalla repressione del dissenso. La polizia segreta dello scià, il SAVAK, creata con l'aiuto di Stati Uniti e Israele, era nota per la sua brutalità e le sue tattiche repressive. La mancanza di libertà politiche, la corruzione e la crescente disuguaglianza sociale portarono a un diffuso malcontento tra la popolazione iraniana. Sebbene lo scià sia riuscito a compiere alcuni progressi in termini di modernizzazione e sviluppo, la mancanza di riforme politiche democratiche e la repressione delle voci di opposizione hanno contribuito all'alienazione di ampi segmenti della società iraniana. Questa situazione ha spianato la strada alla Rivoluzione iraniana del 1979, che ha rovesciato la monarchia e istituito la Repubblica islamica dell'Iran. | ||
=== Dal 1955, sotto la guida dello scià Mohammad Reza Pahlavi, l'Iran ha cercato di rafforzare i suoi legami con l'Occidente, in particolare con gli Stati Uniti, nel contesto della guerra fredda. L'adesione dell'Iran al Patto di Baghdad nel 1955 è stato un elemento chiave di questo orientamento strategico. Questo patto, che comprendeva anche Iraq, Turchia, Pakistan e Regno Unito, era un'alleanza militare volta a contenere l'espansione del comunismo sovietico in Medio Oriente. Nell'ambito del suo riavvicinamento all'Occidente, lo Scià lanciò la "Rivoluzione Bianca", un insieme di riforme volte a modernizzare l'Iran. Queste riforme, largamente influenzate dal modello americano, includevano cambiamenti nei modelli di produzione e consumo, riforma agraria, campagna di alfabetizzazione e iniziative per promuovere l'industrializzazione e lo sviluppo economico. Lo stretto coinvolgimento degli Stati Uniti nel processo di modernizzazione dell'Iran era anche simboleggiato dalla presenza di esperti e consulenti americani sul territorio iraniano. Questi esperti godettero spesso di privilegi e immunità, che diedero origine a tensioni in vari settori della società iraniana, in particolare tra i circoli religiosi e i nazionalisti. | === Rafforzamento dei legami con l'Occidente e impatto sociale === | ||
Dal 1955, sotto la guida dello scià Mohammad Reza Pahlavi, l'Iran ha cercato di rafforzare i suoi legami con l'Occidente, in particolare con gli Stati Uniti, nel contesto della guerra fredda. L'adesione dell'Iran al Patto di Baghdad nel 1955 è stato un elemento chiave di questo orientamento strategico. Questo patto, che comprendeva anche Iraq, Turchia, Pakistan e Regno Unito, era un'alleanza militare volta a contenere l'espansione del comunismo sovietico in Medio Oriente. Nell'ambito del suo riavvicinamento all'Occidente, lo Scià lanciò la "Rivoluzione Bianca", un insieme di riforme volte a modernizzare l'Iran. Queste riforme, largamente influenzate dal modello americano, includevano cambiamenti nei modelli di produzione e consumo, riforma agraria, campagna di alfabetizzazione e iniziative per promuovere l'industrializzazione e lo sviluppo economico. Lo stretto coinvolgimento degli Stati Uniti nel processo di modernizzazione dell'Iran era anche simboleggiato dalla presenza di esperti e consulenti americani sul territorio iraniano. Questi esperti godettero spesso di privilegi e immunità, che diedero origine a tensioni in vari settori della società iraniana, in particolare tra i circoli religiosi e i nazionalisti. | |||
Le riforme dello scià, se da un lato hanno portato alla modernizzazione economica e sociale, dall'altro sono state percepite da molti come una forma di americanizzazione e un'erosione dei valori e delle tradizioni iraniane. Questa percezione era esacerbata dalla natura autoritaria del regime dello scià e dall'assenza di libertà politiche e di partecipazione popolare. La presenza e l'influenza americana in Iran, così come le riforme della "Rivoluzione Bianca", hanno alimentato un crescente risentimento, soprattutto negli ambienti religiosi. I leader religiosi, guidati dall'ayatollah Khomeini, hanno iniziato ad esprimere un'opposizione sempre più forte allo scià, criticandolo per la sua dipendenza dagli Stati Uniti e per il suo allontanamento dai valori islamici. Questa opposizione ebbe un ruolo fondamentale nella mobilitazione che portò alla Rivoluzione iraniana del 1979. | Le riforme dello scià, se da un lato hanno portato alla modernizzazione economica e sociale, dall'altro sono state percepite da molti come una forma di americanizzazione e un'erosione dei valori e delle tradizioni iraniane. Questa percezione era esacerbata dalla natura autoritaria del regime dello scià e dall'assenza di libertà politiche e di partecipazione popolare. La presenza e l'influenza americana in Iran, così come le riforme della "Rivoluzione Bianca", hanno alimentato un crescente risentimento, soprattutto negli ambienti religiosi. I leader religiosi, guidati dall'ayatollah Khomeini, hanno iniziato ad esprimere un'opposizione sempre più forte allo scià, criticandolo per la sua dipendenza dagli Stati Uniti e per il suo allontanamento dai valori islamici. Questa opposizione ebbe un ruolo fondamentale nella mobilitazione che portò alla Rivoluzione iraniana del 1979. | ||
Version du 21 décembre 2023 à 20:33
Basato su un corso di Yilmaz Özcan.[1][2]
Il Medio Oriente, culla di antiche civiltà e crocevia di scambi culturali e commerciali, ha svolto un ruolo centrale nella storia mondiale, in particolare durante il Medioevo. Questo periodo dinamico e diversificato ha visto l'ascesa e la caduta di numerosi imperi e Stati, ognuno dei quali ha lasciato un segno indelebile nel paesaggio politico, culturale e sociale della regione. Dall'espansione dei califfati islamici, con il loro apogeo culturale e scientifico, alla prolungata influenza dell'Impero bizantino, passando per le incursioni dei crociati e le conquiste mongole, il Medio Oriente medievale è stato un mosaico di poteri in costante evoluzione. Questo periodo non solo ha plasmato l'identità della regione, ma ha anche avuto un profondo impatto sullo sviluppo della storia mondiale, creando ponti tra Oriente e Occidente. Lo studio degli imperi e degli Stati mediorientali nel Medioevo offre quindi un'affascinante finestra su un periodo cruciale della storia umana, rivelando storie di conquista, resilienza, innovazione e interazione culturale.
L'impero ottomano
Fondazione ed espansione dell'Impero Ottomano
L'Impero Ottomano, fondato alla fine del XIII secolo, è un affascinante esempio di potenza imperiale che ha avuto un profondo effetto sulla storia di tre continenti: Asia, Africa ed Europa. La sua fondazione è generalmente attribuita a Osman I, capo di una tribù turca della regione dell'Anatolia. Il successo di questo impero risiedeva nella sua capacità di espandersi rapidamente e di stabilire un'amministrazione efficiente su un territorio immenso. Dalla metà del XIV secolo, gli Ottomani iniziarono a espandere il loro territorio in Europa, conquistando gradualmente parti dei Balcani. Questa espansione segnò una svolta importante negli equilibri di potere nel Mediterraneo e nell'Europa orientale. Tuttavia, contrariamente a quanto si crede, l'Impero Ottomano non distrusse Roma. Infatti, gli Ottomani assediarono Costantinopoli, la capitale dell'Impero bizantino, e la conquistarono nel 1453, ponendo fine all'impero. Questa conquista fu un grande evento storico, che segnò la fine del Medioevo e l'inizio dell'era moderna in Europa.
L'Impero ottomano è noto per la sua complessa struttura amministrativa e per la tolleranza religiosa, in particolare con il sistema del millet, che consentiva un certo grado di autonomia alle comunità non musulmane. Il suo periodo di massimo splendore si estese dal XV al XVII secolo, durante il quale esercitò una notevole influenza su commercio, cultura, scienza, arte e architettura. Gli Ottomani introdussero molte innovazioni e furono importanti mediatori tra Oriente e Occidente. Tuttavia, a partire dal XVIII secolo, l'Impero Ottomano iniziò a declinare di fronte all'ascesa delle potenze europee e ai problemi interni. Questo declino si accelerò nel XIX secolo, portando infine alla dissoluzione dell'impero dopo la Prima guerra mondiale. L'eredità dell'Impero Ottomano rimane profondamente radicata nelle regioni che ha governato, influenzando gli aspetti culturali, politici e sociali di quelle società fino ai giorni nostri.
L'Impero Ottomano, una straordinaria entità politica e militare fondata alla fine del XIII secolo da Osman I, ha avuto un profondo impatto sulla storia dell'Eurasia. Emerso in un contesto di frammentazione politica e di rivalità tra i beylicat dell'Anatolia, questo impero dimostrò rapidamente un'eccezionale capacità di estendere la propria influenza, posizionandosi come potenza dominante nella regione. La metà del XIV secolo rappresentò una svolta decisiva per l'Impero ottomano, in particolare con la conquista di Gallipoli nel 1354. Questa vittoria, lungi dall'essere una semplice impresa d'armi, segnò il primo insediamento permanente ottomano in Europa e aprì la strada a una serie di conquiste nei Balcani. Questi successi militari, combinati con un'abile diplomazia, permisero agli Ottomani di consolidare la loro presa su territori strategici e di interferire negli affari europei.
Sotto la guida di sovrani come Mehmed II, famoso per la conquista di Costantinopoli nel 1453, l'Impero Ottomano non solo ridisegnò il paesaggio politico del Mediterraneo orientale, ma diede anche inizio a un periodo di profonda trasformazione culturale ed economica. La conquista di Costantinopoli, che pose fine all'Impero bizantino, fu un momento cruciale della storia mondiale, segnando la fine del Medioevo e l'inizio dell'era moderna. L'impero eccelleva nell'arte della guerra, spesso grazie al suo esercito disciplinato e innovativo, ma anche grazie al suo approccio pragmatico alla governance, integrando diversi gruppi etnici e religiosi sotto un sistema amministrativo centralizzato. Questa diversità culturale, unita alla stabilità politica, favorì il fiorire delle arti, delle scienze e del commercio.
Conflitti e sfide militari dell'Impero Ottomano
L'Impero Ottomano, nel corso della sua storia, ha vissuto una serie di conquiste spettacolari e di battute d'arresto significative che hanno plasmato il suo destino e quello delle regioni che dominava. La loro espansione, segnata da importanti vittorie, fu anche costellata di fallimenti strategici. L'incursione ottomana nei Balcani fu uno dei primi passi della loro espansione europea. Questa conquista non solo estese il loro territorio, ma rafforzò anche la loro posizione di potenza dominante nella regione. La conquista di Istanbul nel 1453 da parte di Mehmed II, noto come Mehmed il Conquistatore, fu un grande evento storico. Questa vittoria non solo segnò la fine dell'Impero bizantino, ma simboleggiò anche l'indiscutibile ascesa dell'Impero ottomano come superpotenza. La loro espansione continuò con la conquista del Cairo nel 1517, un evento cruciale che segnò l'integrazione dell'Egitto nell'impero e la fine del califfato abbaside. Sotto Solimano il Magnifico, gli Ottomani conquistarono anche Baghdad nel 1533, estendendo la loro influenza sulle ricche e strategiche terre della Mesopotamia.
Tuttavia, l'espansione ottomana non fu priva di ostacoli. L'assedio di Vienna nel 1529, un ambizioso tentativo di estendere ulteriormente la loro influenza in Europa, si concluse con un fallimento. Anche un altro tentativo nel 1623 fallì, segnando i limiti dell'espansione ottomana in Europa centrale. Questi fallimenti furono momenti chiave, che illustrarono i limiti del potere militare e logistico dell'Impero Ottomano di fronte alle difese europee organizzate. Un'altra grande battuta d'arresto fu la sconfitta nella battaglia di Lepanto del 1571. Questa battaglia navale, in cui la flotta ottomana fu sconfitta da una coalizione di forze cristiane europee, segnò un punto di svolta nel controllo ottomano del Mediterraneo. Sebbene l'Impero Ottomano riuscì a riprendersi da questa sconfitta e a mantenere una forte presenza nella regione, Lepanto simboleggiò la fine della sua espansione incontrastata e segnò l'inizio di un periodo di rivalità marittime più equilibrate nel Mediterraneo. Nel loro insieme, questi eventi illustrano le dinamiche dell'espansione ottomana: una serie di conquiste impressionanti, intervallate da sfide e battute d'arresto significative. Evidenziano la complessità della gestione di un impero così vasto e la difficoltà di mantenere un'espansione costante di fronte ad avversari sempre più organizzati e resistenti.
Riforme e trasformazioni interne dell'Impero Ottomano
La guerra russo-ottomana del 1768-1774 fu un episodio cruciale nella storia dell'Impero Ottomano, che segnò non solo l'inizio delle sue significative perdite territoriali, ma anche un cambiamento nella sua struttura di legittimità politica e religiosa. La fine di questa guerra fu segnata dalla firma del Trattato di Küçük Kaynarca (o Kutchuk-Kaïnardji) nel 1774. Questo trattato ebbe conseguenze di vasta portata per l'Impero Ottomano. In primo luogo, comportò la cessione di territori significativi all'Impero russo, in particolare parti del Mar Nero e dei Balcani. Questa perdita non solo ridusse le dimensioni dell'Impero, ma indebolì anche la sua posizione strategica nell'Europa orientale e nella regione del Mar Nero. In secondo luogo, il trattato segnò una svolta nelle relazioni internazionali dell'epoca, indebolendo la posizione dell'Impero Ottomano sulla scena europea. L'Impero, che era stato un attore importante e spesso dominante negli affari regionali, cominciò a essere percepito come uno Stato in declino, vulnerabile alle pressioni e agli interventi delle potenze europee.
Infine, e forse soprattutto, la fine di questa guerra e il Trattato di Küçük Kaynarca ebbero un impatto significativo sulla struttura interna dell'Impero Ottomano. A fronte di queste sconfitte, l'Impero iniziò a porre maggiore enfasi sull'aspetto religioso del Califfato come fonte di legittimità. Il Sultano ottomano, già riconosciuto come leader politico dell'impero, iniziò a essere maggiormente valutato come Califfo, il leader religioso della comunità musulmana. Questo sviluppo rispondeva alla necessità di rafforzare l'autorità e la legittimità del Sultanato di fronte alle sfide interne ed esterne, affidandosi alla religione come forza unificante e fonte di potere. La guerra russo-ottomana e il conseguente trattato segnarono quindi un punto di svolta nella storia ottomana, simboleggiando sia un declino territoriale sia un cambiamento nella natura della legittimità imperiale.
Influenze esterne e relazioni internazionali
L'intervento in Egitto nel 1801, in cui le forze britanniche e ottomane si unirono per cacciare i francesi, segnò un importante punto di svolta nella storia dell'Egitto e dell'Impero ottomano. La nomina di Mehmet Ali, un ufficiale albanese, a pascià d'Egitto da parte degli Ottomani inaugurò un'epoca di profonda trasformazione e di semi-indipendenza dell'Egitto dall'Impero Ottomano. Mehmet Ali, spesso considerato il fondatore dell'Egitto moderno, avviò una serie di riforme radicali volte a modernizzare l'Egitto. Queste riforme interessarono vari aspetti, tra cui l'esercito, l'amministrazione e l'economia, e si ispirarono in parte ai modelli europei. Sotto la sua guida, l'Egitto conobbe un notevole sviluppo e Mehmet Ali cercò di estendere la sua influenza anche al di fuori dell'Egitto. In questo contesto, la Nahda, o Rinascimento arabo, acquisì un notevole slancio. Questo movimento culturale e intellettuale, che cercava di rivitalizzare la cultura araba e di adattarla alle sfide moderne, beneficiò del clima di riforma e di apertura avviato da Mehmet Ali.
Il figlio di Mehmet Ali, Ibrahim Pascià, ebbe un ruolo chiave nelle ambizioni espansionistiche dell'Egitto. Nel 1836 lanciò un'offensiva contro l'Impero Ottomano, allora indebolito e in declino. Il confronto culminò nel 1839, quando le forze di Ibrahim inflissero una grave sconfitta agli Ottomani. Tuttavia, l'intervento delle potenze europee, in particolare Gran Bretagna, Austria e Russia, impedì una vittoria egiziana totale. Sotto la pressione internazionale, fu firmato un trattato di pace che riconosceva l'autonomia de facto dell'Egitto sotto il governo di Mehmet Ali e dei suoi discendenti. Questo riconoscimento segnò un passo importante nella separazione dell'Egitto dall'Impero Ottomano, anche se l'Egitto rimase nominalmente sotto la sovranità ottomana. La posizione britannica fu particolarmente interessante. Inizialmente alleati con gli Ottomani per contenere l'influenza francese in Egitto, alla fine optarono per sostenere l'autonomia egiziana sotto Mehmet Ali, riconoscendo le mutevoli realtà politiche e strategiche della regione. Questa decisione rifletteva il desiderio britannico di stabilizzare la regione controllando al contempo le rotte commerciali vitali, in particolare quelle che conducevano all'India. L'episodio egiziano dei primi decenni del XIX secolo illustra non solo le complesse dinamiche di potere tra l'Impero Ottomano, l'Egitto e le potenze europee, ma anche i profondi cambiamenti che stavano avvenendo nell'ordine politico e sociale del Medio Oriente in quel periodo.
Modernizzazione e movimenti di riforma
La spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto nel 1798 fu un evento rivelatore per l'Impero Ottomano, che mise in luce il suo ritardo rispetto alle potenze europee in termini di modernizzazione e capacità militare. Questa consapevolezza fu un'importante forza trainante per una serie di riforme note come Tanzimat, lanciate nel 1839 per modernizzare l'impero e arrestarne il declino. Il Tanzimat, che in turco significa "riorganizzazione", segnò un periodo di profonda trasformazione dell'Impero Ottomano. Uno degli aspetti chiave di queste riforme fu la modernizzazione dell'organizzazione dei Dhimmis, i cittadini non musulmani dell'impero. Ciò includeva la creazione dei sistemi Millet, che offrivano alle varie comunità religiose un certo grado di autonomia culturale e amministrativa. L'obiettivo era quello di integrare più efficacemente queste comunità nella struttura dello Stato ottomano, preservando al contempo le loro identità distinte.
Una seconda ondata di riforme fu avviata nel tentativo di creare una forma di cittadinanza ottomana che trascendesse le divisioni religiose ed etniche. Tuttavia, questo tentativo fu spesso ostacolato dalla violenza intercomunitaria, che rifletteva le profonde tensioni all'interno dell'impero multietnico e multireligioso. Allo stesso tempo, queste riforme incontrarono una notevole resistenza all'interno di alcune fazioni dell'esercito, ostili ai cambiamenti che si ritenevano minacciare il loro status e i loro privilegi tradizionali. Questa resistenza portò a rivolte e instabilità interna, esacerbando le sfide che l'impero doveva affrontare.
In questo contesto tumultuoso, a metà del XIX secolo emerse un movimento politico e intellettuale noto come Giovani Ottomani. Questo gruppo cercò di conciliare gli ideali di modernizzazione e riforma con i principi dell'Islam e delle tradizioni ottomane. Sostenevano una costituzione, la sovranità nazionale e riforme politiche e sociali più inclusive. Gli sforzi del Tanzimat e gli ideali dei Giovani Ottomani furono tentativi significativi di rispondere alle sfide che l'Impero Ottomano doveva affrontare in un mondo in rapida evoluzione. Se da un lato questi sforzi portarono alcuni cambiamenti positivi, dall'altro rivelarono le profonde fratture e tensioni all'interno dell'impero, prefigurando le sfide ancora più grandi che sarebbero sorte negli ultimi decenni della sua esistenza.
Nel 1876, con l'ascesa al potere del sultano Abdülhamid II, che introdusse la prima costituzione monarchica dell'Impero ottomano, si raggiunse una fase cruciale del processo di Tanzimat. Questo periodo segnò una svolta significativa, tentando di conciliare i principi della modernizzazione con la struttura tradizionale dell'impero. La costituzione del 1876 rappresentò uno sforzo per modernizzare l'amministrazione dell'impero e per istituire un sistema legislativo e un parlamento, riflettendo gli ideali liberali e costituzionali in voga in Europa all'epoca. Tuttavia, il regno di Abdülhamid II fu anche segnato da una forte crescita del panislamismo, un'ideologia volta a rafforzare i legami tra i musulmani all'interno dell'impero e al di fuori di esso, in un contesto di crescente rivalità con le potenze occidentali.
Abdülhamid II utilizzò il panislamismo come strumento per consolidare il suo potere e contrastare le influenze esterne. Invitò leader e dignitari musulmani a Istanbul e offrì di educare i loro figli nella capitale ottomana, un'iniziativa volta a rafforzare i legami culturali e politici all'interno del mondo musulmano. Tuttavia, nel 1878, con una sorprendente inversione di rotta, Abdülhamid II sospese la costituzione e chiuse il parlamento, segnando un ritorno al governo autocratico. Questa decisione fu motivata in parte dal timore di un insufficiente controllo sul processo politico e dall'ascesa di movimenti nazionalisti all'interno dell'impero. Il Sultano ha così rafforzato il suo controllo diretto sul governo, continuando a promuovere il panislamismo come strumento di legittimazione.
In questo contesto, il salafismo, un movimento che mira a tornare alle pratiche dell'Islam di prima generazione, fu influenzato dagli ideali del panislamismo e della Nahda (Rinascimento arabo). Jamal al-Din al-Afghani, spesso considerato il precursore del moderno movimento salafita, ha svolto un ruolo chiave nella diffusione di queste idee. Al-Afghani sosteneva un ritorno ai principi originari dell'Islam, incoraggiando al contempo l'adozione di alcune forme di modernizzazione tecnologica e scientifica. Il periodo delle Tanzimat e il regno di Abdülhamid II illustrano quindi la complessità dei tentativi di riforma nell'Impero ottomano, combattuto tra le esigenze della modernizzazione e il mantenimento delle strutture e delle ideologie tradizionali. L'impatto di questo periodo si fece sentire ben oltre la caduta dell'Impero, influenzando i movimenti politici e religiosi in tutto il mondo musulmano moderno.
Declino e caduta dell'Impero Ottomano
La "questione orientale", termine utilizzato soprattutto nel XIX e all'inizio del XX secolo, si riferisce a un dibattito complesso e multidimensionale sul futuro del progressivo declino dell'Impero Ottomano. La questione è emersa in seguito alle successive perdite territoriali dell'Impero, all'emergere del nazionalismo turco e alla crescente separazione dai territori non musulmani, in particolare nei Balcani. Già nel 1830, con l'indipendenza della Grecia, l'Impero Ottomano iniziò a perdere i suoi territori europei. Questa tendenza continuò con le guerre balcaniche e si accelerò durante la Prima guerra mondiale, culminando nel Trattato di Sèvres del 1920 e nella fondazione della Repubblica di Turchia nel 1923 sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk. Queste perdite modificarono profondamente la geografia politica della regione.
In questo contesto, il nazionalismo turco prese slancio. Questo movimento cercò di ridefinire l'identità dell'impero attorno all'elemento turco, in contrasto con il modello multietnico e multireligioso che aveva prevalso fino ad allora. L'ascesa del nazionalismo fu una risposta diretta al graduale smantellamento dell'impero e alla necessità di forgiare una nuova identità nazionale. Allo stesso tempo, emerse l'idea di formare una sorta di "internazionale dell'Islam", in particolare sotto la spinta del sultano Abdülhamid II con il suo panislamismo. Questa idea prevedeva la creazione di un'unione o di una cooperazione tra le nazioni musulmane, ispirandosi ad alcune idee simili in Europa, dove l'internazionalismo cercava di unire i popoli al di là dei confini nazionali. L'obiettivo era quello di creare un fronte unito di popoli musulmani per resistere all'influenza e all'intervento delle potenze occidentali, preservando al contempo gli interessi e l'indipendenza dei territori musulmani.
Tuttavia, l'attuazione di tale idea si rivelò difficile a causa dei diversi interessi nazionali, delle rivalità regionali e della crescente influenza delle idee nazionaliste. Inoltre, gli sviluppi politici, in particolare la Prima guerra mondiale e l'ascesa dei movimenti nazionalisti in varie parti dell'Impero ottomano, resero la visione di una "internazionale dell'Islam" sempre più irrealizzabile. La Questione orientale nel suo complesso riflette quindi le profonde trasformazioni geopolitiche e ideologiche che hanno avuto luogo nella regione durante questo periodo, segnando la fine di un impero multietnico e la nascita di nuovi Stati nazionali con le proprie identità e aspirazioni nazionali.
La "Weltpolitik" o politica mondiale adottata dalla Germania tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo ha svolto un ruolo cruciale nelle dinamiche geopolitiche che hanno coinvolto l'Impero Ottomano. Questa politica, avviata sotto il regno del Kaiser Guglielmo II, mirava a estendere l'influenza e il prestigio della Germania sulla scena internazionale, in particolare attraverso l'espansione coloniale e le alleanze strategiche. L'Impero Ottomano, cercando di sottrarsi alle pressioni di Russia e Gran Bretagna, trovò nella Germania un alleato potenzialmente utile. Questa alleanza fu simboleggiata in particolare dal progetto di costruzione della ferrovia Berlino-Baghdad (BBB). Questa ferrovia, progettata per collegare Berlino a Baghdad via Bisanzio (Istanbul), aveva una notevole importanza strategica ed economica. Era destinata non solo a facilitare il commercio e le comunicazioni, ma anche a rafforzare l'influenza tedesca nella regione e a fornire un contrappeso agli interessi britannici e russi in Medio Oriente.
Per i panturchisti e i sostenitori dell'Impero Ottomano, l'alleanza con la Germania era vista con favore. I panturchi, che sostenevano l'unità e la solidarietà dei popoli di lingua turca, vedevano in questa alleanza un'opportunità per rafforzare la posizione dell'Impero Ottomano e contrastare le minacce esterne. L'alleanza con la Germania offriva un'alternativa alle pressioni di potenze tradizionali come la Russia e la Gran Bretagna, che da tempo influenzavano la politica e gli affari ottomani. Questa relazione tra l'Impero Ottomano e la Germania raggiunse il suo apice durante la Prima guerra mondiale, quando le due nazioni si trovarono alleate nelle Potenze Centrali. Questa alleanza ebbe conseguenze importanti per l'Impero Ottomano, sia dal punto di vista militare che politico, e giocò un ruolo negli eventi che alla fine portarono alla dissoluzione dell'Impero dopo la guerra. La Weltpolitik tedesca e il progetto ferroviario Berlino-Baghdad furono elementi chiave nella strategia dell'Impero Ottomano per preservare la propria integrità e indipendenza di fronte alle pressioni delle Grandi Potenze. Questo periodo segnò un momento significativo nella storia dell'Impero, illustrando la complessità delle alleanze e degli interessi geopolitici all'inizio del XX secolo.
Il 1908 segnò una svolta decisiva nella storia dell'Impero Ottomano con l'inizio del secondo periodo costituzionale, innescato dal movimento dei Giovani Turchi, rappresentato principalmente dal Comitato per l'Unione e il Progresso (CUP). Questo movimento, inizialmente formato da ufficiali e intellettuali ottomani riformisti, cercava di modernizzare l'Impero e di salvarlo dal collasso.
Sotto la pressione del CUP, il sultano Abdülhamid II fu costretto a ripristinare la costituzione del 1876, sospesa dal 1878, segnando l'inizio del secondo periodo costituzionale. Il ripristino della costituzione fu visto come un passo verso la modernizzazione e la democratizzazione dell'Impero, con la promessa di diritti civili e politici più ampi e l'istituzione di un governo parlamentare. Tuttavia, questo periodo di riforme si scontrò presto con grandi sfide. Nel 1909, gli ambienti conservatori e religiosi tradizionali, insoddisfatti delle riforme e della crescente influenza degli unionisti, tentarono un colpo di Stato per rovesciare il governo costituzionale e ristabilire l'autorità assoluta del Sultano. Questo tentativo era motivato dall'opposizione alla rapida modernizzazione e alle politiche laiche promosse dai Giovani Turchi, oltre che dal timore di una perdita di privilegi e influenza. Tuttavia, i Giovani Turchi, utilizzando questo episodio di controrivoluzione come pretesto, riuscirono a schiacciare la resistenza e a consolidare il loro potere. Questo periodo fu caratterizzato da una maggiore repressione contro gli oppositori e dall'accentramento del potere nelle mani della CUP.
Nel 1913, la situazione culminò con la presa del Parlamento da parte dei leader della CUP, un evento spesso descritto come un colpo di Stato. Ciò segnò la fine del breve esperimento costituzionale e parlamentare dell'Impero e l'instaurazione di un regime sempre più autoritario guidato dai Giovani Turchi. Sotto il loro governo, l'Impero Ottomano vide riforme sostanziali ma anche politiche più centralizzate e nazionaliste, ponendo le basi per gli eventi che si sarebbero svolti durante e dopo la Prima guerra mondiale. Questo periodo tumultuoso riflette le tensioni e le lotte interne all'Impero ottomano, diviso tra le forze del cambiamento e della tradizione, e pone le basi per le trasformazioni radicali che seguiranno negli ultimi anni dell'impero.
Nel 1915, durante la Prima guerra mondiale, l'Impero ottomano intraprese quello che oggi è ampiamente riconosciuto come il genocidio degli armeni, un episodio tragico e oscuro della storia. Questa politica prevedeva la deportazione sistematica, il massacro e la morte di massa della popolazione armena che viveva nell'Impero. La campagna contro gli armeni iniziò con arresti, esecuzioni e deportazioni di massa. Uomini, donne, bambini e anziani armeni furono costretti a lasciare le loro case e inviati in marce della morte attraverso il deserto siriano, dove molti morirono di fame, sete, malattie o violenze. Molte comunità armene, che avevano una lunga e ricca storia nella regione, furono distrutte.
Le stime del numero di vittime variano, ma generalmente si ritiene che durante questo periodo siano morti tra 800.000 e 1,5 milioni di armeni. Il genocidio ha avuto un impatto duraturo sulla comunità armena mondiale e rimane un argomento di grande sensibilità e controversia, anche a causa della negazione o della minimizzazione di questi eventi da parte di alcuni gruppi. Il genocidio armeno è spesso considerato uno dei primi genocidi moderni ed è stato un oscuro precursore di altre atrocità di massa nel corso del XX secolo. Ha anche giocato un ruolo chiave nella formazione dell'identità armena moderna, con la memoria del genocidio che continua a essere centrale nella coscienza armena. Il riconoscimento e la commemorazione di questi eventi continuano a essere una questione importante nelle relazioni internazionali, in particolare nelle discussioni sui diritti umani e sulla prevenzione del genocidio.
L'impero persiano
Le origini e il completamento dell'Impero persiano
La storia dell'Impero persiano, oggi conosciuto come Iran, è caratterizzata da un'impressionante continuità culturale e politica, nonostante i cambiamenti dinastici e le invasioni straniere. Questa continuità è un elemento chiave per comprendere l'evoluzione storica e culturale della regione.
L'impero dei Medi, fondato all'inizio del VII secolo a.C., è stato una delle prime grandi potenze della storia dell'Iran. Questo impero ha svolto un ruolo cruciale nel porre le basi della civiltà iraniana. Tuttavia, fu rovesciato da Ciro II di Persia, noto anche come Ciro il Grande, intorno al 550 a.C.. La conquista della Media da parte di Ciro segnò l'inizio dell'Impero achemenide, un periodo di grande espansione e influenza culturale. Gli achemenidi crearono un vasto impero che si estendeva dall'Indo alla Grecia e il loro regno fu caratterizzato da un'amministrazione efficiente e da una politica di tolleranza verso le diverse culture e religioni presenti nell'impero. La caduta dell'impero fu causata da Alessandro Magno nel 330 a.C., ma ciò non pose fine alla continuità culturale persiana.
Dopo un periodo di dominazione ellenistica e di frammentazione politica, nel 224 d.C. emerse la dinastia sassanide. Fondata da Ardashir I, segnò l'inizio di una nuova era per la regione, che durò fino al 624 d.C.. Sotto i Sassanidi, il Grande Iran conobbe un periodo di rinascita culturale e politica. La capitale, Ctesifonte, divenne un centro di potere e cultura, riflettendo la grandezza e l'influenza dell'impero. I Sassanidi svolsero un ruolo importante nello sviluppo dell'arte, dell'architettura, della letteratura e della religione nella regione. Sostennero lo zoroastrismo, che ebbe una profonda influenza sulla cultura e sull'identità persiana. Il loro impero fu segnato da continui conflitti con l'Impero Romano e successivamente con l'Impero Bizantino, culminati in costose guerre che indebolirono entrambi gli imperi. La caduta della dinastia sassanide avvenne in seguito alle conquiste musulmane del VII secolo, ma la cultura e le tradizioni persiane continuarono a influenzare la regione, anche nei successivi periodi islamici. Questa resilienza e la capacità di integrare nuovi elementi preservando un nucleo culturale distinto sono alla base della nozione di continuità nella storia persiana.
L'Iran sotto l'Islam: conquiste e trasformazioni
Dal 642 in poi, l'Iran entrò in una nuova era della sua storia con l'inizio del periodo islamico, in seguito alle conquiste musulmane. Questo periodo segnò una svolta significativa non solo nella storia politica della regione, ma anche nella sua struttura sociale, culturale e religiosa. La conquista dell'Iran da parte degli eserciti musulmani iniziò poco dopo la morte del profeta Maometto, nel 632. Nel 642, con la conquista della capitale sassanide Ctesifonte, l'Iran passò sotto il controllo del nascente Impero islamico. Questa transizione fu un processo complesso, che comportò sia conflitti militari che negoziati. Sotto il dominio musulmano, l'Iran subì profondi cambiamenti. L'Islam divenne gradualmente la religione dominante, sostituendo lo zoroastrismo, che era stato la religione di Stato sotto gli imperi precedenti. Tuttavia, questa transizione non avvenne da un giorno all'altro e ci fu un periodo di coesistenza e interazione tra le diverse tradizioni religiose.
La cultura e la società iraniane furono profondamente influenzate dall'Islam, ma esercitarono anche una notevole influenza sul mondo islamico. L'Iran divenne un importante centro di cultura e conoscenza islamica, con notevoli contributi in campi quali la filosofia, la poesia, la medicina e l'astronomia. Figure iconiche iraniane come il poeta Rumi e il filosofo Avicenna (Ibn Sina) svolsero un ruolo fondamentale nel patrimonio culturale e intellettuale islamico. Questo periodo è stato segnato anche dalle dinastie che si sono succedute, come gli Omayyadi, gli Abbasidi, i Saffaridi, i Samanidi, i Bouyidi e poi i Selgiuchidi, ognuna delle quali ha contribuito alla ricchezza e alla diversità della storia iraniana. Ognuna di queste dinastie ha apportato le proprie sfumature al governo, alla cultura e alla società della regione.
Emersione e influenza dei Sefevidi
Nel 1501, un evento importante nella storia dell'Iran e del Medio Oriente ebbe luogo quando lo scià Ismail I istituì l'Impero Sefevide in Azerbaigian. Questo evento segnò l'inizio di una nuova era non solo per l'Iran ma per l'intera regione, con l'introduzione dello sciismo duodecimano come religione di Stato, un cambiamento che influenzò profondamente l'identità religiosa e culturale dell'Iran. L'Impero Sefevide, che regnò fino al 1736, ebbe un ruolo cruciale nel consolidare l'Iran come entità politica e culturale distinta. Lo scià Ismail I, leader carismatico e poeta di talento, riuscì a unificare diverse regioni sotto il suo controllo, creando uno Stato centralizzato e potente. Una delle sue decisioni più significative fu quella di imporre lo sciismo duodecimano come religione ufficiale dell'impero, un atto che ebbe profonde implicazioni per il futuro dell'Iran e del Medio Oriente.
Questa "sciitizzazione" dell'Iran, che comportò la conversione forzata delle popolazioni sunnite e di altri gruppi religiosi allo sciismo, fu una strategia deliberata per differenziare l'Iran dai suoi vicini sunniti, in particolare l'Impero Ottomano, e per consolidare il potere dei Sefevidi. Questa politica ebbe anche l'effetto di rafforzare l'identità sciita dell'Iran, che è diventata un tratto distintivo della nazione iraniana fino ad oggi. Sotto i Sefevidi, l'Iran conobbe un periodo di rinascita culturale e artistica. La capitale, Isfahan, divenne uno dei più importanti centri di arte, architettura e cultura del mondo islamico. I Sefevidi incoraggiarono lo sviluppo delle arti, tra cui la pittura, la calligrafia, la poesia e l'architettura, creando un'eredità culturale ricca e duratura. Tuttavia, l'impero fu anche segnato da conflitti interni ed esterni, tra cui le guerre contro l'Impero Ottomano e gli Uzbeki. Questi conflitti, insieme alle sfide interne, contribuirono infine al declino dell'impero nel XVIII secolo.
La battaglia di Chaldiran, svoltasi nel 1514, è un evento significativo nella storia dell'Impero sefardita e dell'Impero ottomano, in quanto segna non solo una svolta militare ma anche la formazione di un'importante linea di demarcazione politica tra i due imperi. In questa battaglia, le forze sefevide, guidate dallo scià Ismail I, si scontrarono con l'esercito ottomano al comando del sultano Selim I. I Sefevidi, sebbene valorosi in battaglia, furono sconfitti dagli Ottomani, soprattutto a causa della superiorità tecnologica di questi ultimi, in particolare per l'uso efficace dell'artiglieria. Questa sconfitta ebbe conseguenze importanti per l'Impero sefardita. Uno dei risultati immediati della battaglia di Chaldiran fu la perdita di un territorio significativo per i Sefevidi. Gli Ottomani riuscirono a impadronirsi della metà orientale dell'Anatolia, riducendo notevolmente l'influenza sefevide nella regione. Questa sconfitta stabilì anche un confine politico duraturo tra i due imperi, che è diventato un importante marcatore geopolitico nella regione. La sconfitta dei Sefevidi ebbe ripercussioni anche sugli Aleviti, una comunità religiosa che sosteneva lo scià Ismail I e la sua politica di sciitizzazione. In seguito alla battaglia, molti aleviti furono perseguitati e massacrati nel decennio successivo, a causa della loro fedeltà allo scià sefevide e delle loro distinte credenze religiose, che erano in contrasto con le pratiche sunnite dominanti dell'Impero ottomano.
Dopo la vittoria a Chaldiran, il sultano Selim I continuò la sua espansione e nel 1517 conquistò il Cairo, ponendo fine al califfato abbaside. Questa conquista non solo estese l'Impero Ottomano fino all'Egitto, ma rafforzò anche la posizione del Sultano come influente leader musulmano, assumendo il titolo di Califfo, simbolo dell'autorità religiosa e politica sul mondo musulmano sunnita. La battaglia di Chaldiran e le sue conseguenze illustrano quindi l'intensa rivalità tra le due grandi potenze musulmane dell'epoca, plasmando in modo significativo la storia politica, religiosa e territoriale del Medio Oriente.
La dinastia Qajar e la modernizzazione dell'Iran
Nel 1796, l'Iran vide la nascita di una nuova dinastia regnante, la dinastia Qajar (o Kadjar), fondata da Agha Mohammad Khan Qajar. Di origine turkmena, questa dinastia sostituì la dinastia Zand e governò l'Iran fino all'inizio del XX secolo. Agha Mohammad Khan Qajar, dopo aver unificato varie fazioni e territori in Iran, si proclamò scià nel 1796, segnando l'inizio ufficiale del dominio Qajar. Questo periodo fu significativo per diversi motivi nella storia iraniana. Sotto i Qajar, l'Iran conobbe un periodo di centralizzazione del potere e di consolidamento territoriale dopo anni di tumulti e divisioni interne. La capitale fu trasferita da Shiraz a Teheran, che divenne il centro politico e culturale del Paese. Questo periodo fu segnato anche da complesse relazioni internazionali, in particolare con le potenze imperialiste dell'epoca, Russia e Gran Bretagna. I Qajar dovettero navigare in un ambiente internazionale difficile, con l'Iran spesso coinvolto nelle rivalità geopolitiche delle grandi potenze, in particolare nel "Grande Gioco" tra Russia e Gran Bretagna. Queste interazioni portarono spesso alla perdita di territori e a importanti concessioni economiche e politiche per l'Iran.
Dal punto di vista culturale, il periodo Qajar è noto per la sua arte distintiva, in particolare per la pittura, l'architettura e le arti decorative. La corte Qajar era un centro di mecenatismo artistico e questo periodo vide una miscela unica di stili tradizionali iraniani e influenze europee moderne. Tuttavia, la dinastia Qajar fu anche criticata per la sua incapacità di modernizzare efficacemente il Paese e di soddisfare le esigenze della popolazione. Questo fallimento portò al malcontento interno e gettò le basi per i movimenti di riforma e le rivoluzioni costituzionali che si verificarono all'inizio del XX secolo. La dinastia Qajar rappresenta un periodo importante della storia iraniana, caratterizzato da sforzi per centralizzare il potere, sfide diplomatiche e contributi culturali significativi, ma anche da lotte interne e pressioni esterne che hanno plasmato il successivo sviluppo del Paese.
L'Iran nel XX secolo: verso una monarchia costituzionale
Nel 1906, l'Iran ha vissuto un momento storico con l'inizio del periodo costituzionale, un passo importante nella modernizzazione politica del Paese e nella lotta per la democrazia. Questo sviluppo è stato ampiamente influenzato dai movimenti sociali e politici che chiedevano una limitazione del potere assoluto del monarca e una governance più rappresentativa e costituzionale. La rivoluzione costituzionale iraniana portò all'adozione della prima costituzione del Paese nel 1906, segnando la transizione dell'Iran verso una monarchia costituzionale. Questa costituzione prevedeva la creazione di un parlamento, o Majlis, e metteva in atto leggi e strutture per modernizzare e riformare la società e il governo iraniani. Tuttavia, questo periodo fu anche segnato da interferenze straniere e dalla divisione del Paese in sfere di influenza. L'Iran fu coinvolto nelle rivalità tra Gran Bretagna e Russia, ognuna delle quali cercava di estendere la propria influenza nella regione. Queste potenze stabilirono diversi "ordini internazionali" o zone di influenza, limitando la sovranità dell'Iran.
La scoperta del petrolio nel 1908-1909 aggiunse una nuova dimensione alla situazione iraniana. La scoperta, effettuata nella regione di Masjed Soleyman, attirò rapidamente l'attenzione delle potenze straniere, in particolare della Gran Bretagna, che cercavano di controllare le risorse petrolifere dell'Iran. Questa scoperta aumentò notevolmente l'importanza strategica dell'Iran sulla scena internazionale e complicò anche le dinamiche interne del Paese. Nonostante queste pressioni esterne e la posta in gioco associata alle risorse naturali, l'Iran mantenne una politica di neutralità, in particolare durante i conflitti globali come la Prima guerra mondiale. Questa neutralità era in parte un tentativo di preservare la propria autonomia e di resistere alle influenze straniere che cercavano di sfruttare le sue risorse e di controllare la sua politica. L'inizio del XX secolo è stato un periodo di cambiamenti e sfide per l'Iran, caratterizzato da sforzi di modernizzazione politica, dall'emergere di nuove sfide economiche con la scoperta del petrolio e dalla navigazione in un ambiente internazionale complesso.
L'Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale
Manovre diplomatiche e formazione di alleanze
L'ingresso dell'Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale nel 1914 fu preceduto da un periodo di complesse manovre diplomatiche e militari, che coinvolsero diverse grandi potenze, tra cui Gran Bretagna, Francia e Germania. Dopo aver esplorato potenziali alleanze con Gran Bretagna e Francia, l'Impero Ottomano optò infine per un'alleanza con la Germania. Questa decisione fu influenzata da diversi fattori, tra cui i legami militari ed economici preesistenti tra gli Ottomani e la Germania, nonché la percezione delle intenzioni delle altre grandi potenze europee.
Nonostante l'alleanza, gli Ottomani erano riluttanti a entrare direttamente nel conflitto, consapevoli delle loro difficoltà interne e dei loro limiti militari. Tuttavia, la situazione cambiò con l'incidente dei Dardanelli. Gli Ottomani utilizzarono navi da guerra (alcune delle quali acquistate dalla Germania) per bombardare i porti russi sul Mar Nero. Questa azione attirò l'Impero Ottomano nella guerra a fianco delle Potenze Centrali e contro gli Alleati, in particolare Russia, Francia e Gran Bretagna.
In risposta all'entrata in guerra dell'Impero Ottomano, i britannici lanciarono la Campagna dei Dardanelli nel 1915. L'obiettivo era quello di prendere il controllo dei Dardanelli e del Bosforo, aprendo una rotta marittima verso la Russia. Tuttavia, la campagna si risolse in un fallimento per le forze alleate e causò pesanti perdite da entrambe le parti. Allo stesso tempo, la Gran Bretagna formalizzò il suo controllo sull'Egitto, proclamando il Protettorato britannico d'Egitto nel 1914. Questa decisione aveva una motivazione strategica, soprattutto per garantire il Canale di Suez, un punto di passaggio vitale per le rotte marittime britanniche, in particolare per l'accesso alle colonie in Asia. Questi eventi illustrano la complessità della situazione geopolitica del Medio Oriente durante la Prima guerra mondiale. Le decisioni prese dall'Impero Ottomano ebbero importanti implicazioni non solo per il loro impero, ma anche per la configurazione del Medio Oriente nel dopoguerra.
La rivolta araba e il cambiamento delle dinamiche in Medio Oriente
Durante la Prima guerra mondiale, gli Alleati cercarono di indebolire l'Impero ottomano aprendo un nuovo fronte nel sud, che portò alla famosa rivolta araba del 1916. Questa rivolta fu un momento chiave nella storia del Medio Oriente e segnò l'inizio del movimento nazionalista arabo. Hussein ben Ali, lo sceriffo della Mecca, ebbe un ruolo centrale in questa rivolta. Sotto la sua guida e con l'incoraggiamento e il sostegno di figure come T.E. Lawrence, noto come Lawrence d'Arabia, gli arabi si sollevarono contro la dominazione ottomana nella speranza di creare uno Stato arabo unificato. Questa aspirazione all'indipendenza e all'unificazione era motivata dal desiderio di liberazione nazionale e dalla promessa di autonomia fatta dagli inglesi, in particolare dal generale Henry MacMahon.
La Rivolta araba ottenne diversi successi significativi. Nel giugno 1917, Faisal, figlio di Hussein ben Ali, vinse la Battaglia di Aqaba, un punto di svolta strategico nella rivolta. Questa vittoria aprì un fronte cruciale contro gli Ottomani e risollevò il morale delle forze arabe. Con l'aiuto di Lawrence d'Arabia e di altri ufficiali britannici, Faisal riuscì a unire diverse tribù arabe nell'Hijaz, portando alla liberazione di Damasco nel 1917. Nel 1920, Faisal si proclamò re di Siria, affermando l'aspirazione araba all'autodeterminazione e all'indipendenza. Tuttavia, le sue ambizioni si scontrarono con la realtà della politica internazionale. Gli accordi Sykes-Picot del 1916, un accordo segreto tra Gran Bretagna e Francia, avevano già diviso ampie zone del Medio Oriente in zone di influenza, minando le speranze di un grande regno arabo unificato. La Rivolta Araba fu un fattore decisivo per indebolire l'Impero Ottomano durante la guerra e gettò le basi del moderno nazionalismo arabo. Tuttavia, il dopoguerra ha visto la divisione del Medio Oriente in una serie di Stati nazionali sotto mandato europeo, rendendo molto lontana la realizzazione di uno Stato arabo unificato, come previsto da Hussein ben Ali e dai suoi sostenitori.
Sfide interne e genocidio armeno
La Prima guerra mondiale fu segnata da sviluppi complessi e dinamiche mutevoli, in particolare dal ritiro della Russia dal conflitto in seguito alla Rivoluzione russa del 1917. Questo ritiro ebbe implicazioni significative per il corso della guerra e per le altre potenze belligeranti. Il ritiro della Russia allentò la pressione sulle Potenze Centrali, in particolare sulla Germania, che ora poteva concentrare le sue forze sul fronte occidentale contro la Francia e i suoi alleati. Questo cambiamento preoccupò la Gran Bretagna e i suoi alleati, che cercavano un modo per mantenere l'equilibrio di potere.
Per quanto riguarda gli ebrei bolscevichi, è importante notare che le rivoluzioni russe del 1917 e l'ascesa del bolscevismo furono fenomeni complessi, influenzati da diversi fattori interni alla Russia. Sebbene ci fossero ebrei tra i bolscevichi, come in molti movimenti politici dell'epoca, la loro presenza non dovrebbe essere interpretata in modo eccessivo o utilizzata per promuovere narrazioni semplicistiche o antisemite. Per quanto riguarda l'Impero Ottomano, Enver Pascià, uno dei leader del movimento dei Giovani Turchi e Ministro della Guerra, ebbe un ruolo chiave nella conduzione della guerra. Nel 1914 lanciò una disastrosa offensiva contro i russi nel Caucaso, che si risolse in una grave sconfitta per gli Ottomani nella battaglia di Sarikamish.
La sconfitta di Enver Pascià ebbe conseguenze tragiche, tra cui lo scoppio del genocidio armeno. Alla ricerca di un capro espiatorio per spiegare la sconfitta, Enver Pascià e altri leader ottomani accusarono la minoranza armena dell'impero di collusione con i russi. Queste accuse alimentarono una campagna di deportazioni, massacri e stermini sistematici contro gli armeni, che culminò in quello che oggi è riconosciuto come il genocidio armeno. Questo genocidio rappresenta uno degli episodi più oscuri della Prima Guerra Mondiale e della storia dell'Impero Ottomano, evidenziando gli orrori e le tragiche conseguenze di un conflitto su larga scala e di politiche di odio etnico.
La soluzione del dopoguerra e la ridefinizione del Medio Oriente
La Conferenza di pace di Parigi, iniziata nel gennaio 1919, fu un momento cruciale nella ridefinizione dell'ordine mondiale dopo la Prima guerra mondiale. La conferenza riunì i leader delle principali potenze alleate per discutere i termini della pace e il futuro geopolitico, compresi i territori del fallito Impero Ottomano. Una delle principali questioni discusse alla conferenza riguardava il futuro dei territori ottomani in Medio Oriente. Gli Alleati stavano valutando di ridisegnare i confini della regione, influenzati da varie considerazioni politiche, strategiche ed economiche, tra cui il controllo delle risorse petrolifere. Sebbene in teoria la conferenza permettesse alle nazioni interessate di presentare il proprio punto di vista, in pratica diverse delegazioni furono emarginate o le loro richieste ignorate. Ad esempio, la delegazione egiziana, che voleva discutere dell'indipendenza dell'Egitto, ha incontrato ostacoli, come l'esilio di alcuni dei suoi membri a Malta. Questa situazione riflette le dinamiche di potere ineguali alla conferenza, dove spesso prevalevano gli interessi delle potenze europee predominanti.
Faisal, figlio di Hussein bin Ali e leader della Rivolta araba, svolse un ruolo importante alla conferenza. Rappresentò gli interessi arabi e sostenne il riconoscimento dell'indipendenza e dell'autonomia araba. Nonostante i suoi sforzi, le decisioni prese alla conferenza non soddisfarono pienamente le aspirazioni arabe di uno Stato indipendente e unificato. Faisal creò uno Stato in Siria, proclamandosi Re di Siria nel 1920. Tuttavia, le sue ambizioni ebbero vita breve, poiché la Siria fu posta sotto il mandato francese dopo la Conferenza di San Remo del 1920, una decisione che faceva parte della divisione del Medio Oriente tra le potenze europee in conformità con gli accordi Sykes-Picot del 1916. La Conferenza di Parigi e i suoi risultati ebbero quindi profonde implicazioni per il Medio Oriente, gettando le basi per molte delle tensioni e dei conflitti regionali che continuano ancora oggi. Le decisioni prese riflettevano gli interessi delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, spesso a scapito delle aspirazioni nazionali dei popoli della regione.
L'accordo tra Georges Clemenceau, in rappresentanza della Francia, e Faisal, leader della Rivolta araba, e le discussioni sulla creazione di nuovi Stati in Medio Oriente, sono elementi chiave del periodo successivo alla Prima guerra mondiale che hanno plasmato l'ordine geopolitico della regione. L'accordo Clemenceau-Fayçal fu visto come molto favorevole alla Francia. Fayçal, cercando di garantire una forma di autonomia ai territori arabi, dovette fare concessioni significative. La Francia, che aveva interessi coloniali e strategici nella regione, sfruttò la sua posizione alla Conferenza di Parigi per affermare il proprio controllo, in particolare su territori come la Siria e il Libano. La delegazione libanese ottenne il diritto di creare uno Stato separato, il Grande Libano, sotto mandato francese. Questa decisione fu influenzata dalle aspirazioni delle comunità cristiane maronite del Libano, che cercavano di creare uno Stato con confini estesi e un certo grado di autonomia sotto la tutela francese. Per quanto riguarda la questione curda, furono fatte promesse di creare un Kurdistan. Queste promesse erano in parte un riconoscimento delle aspirazioni nazionaliste curde e un mezzo per indebolire l'Impero Ottomano. Tuttavia, l'attuazione di questa promessa si rivelò complessa e fu ampiamente ignorata nei trattati del dopoguerra.
Tutti questi elementi confluirono nel Trattato di Sèvres del 1920, che formalizzò lo smembramento dell'Impero Ottomano. Questo trattato ridisegnò i confini del Medio Oriente, creando nuovi Stati sotto mandato francese e britannico. Il trattato prevedeva anche la creazione di un'entità curda autonoma, anche se questa disposizione non fu mai attuata. Il Trattato di Sèvres, sebbene non sia mai stato pienamente ratificato e sia stato poi sostituito dal Trattato di Losanna nel 1923, ha rappresentato un momento decisivo nella storia della regione. Ha posto le basi per la moderna struttura politica del Medio Oriente, ma ha anche gettato i semi di molti conflitti futuri, a causa dell'ignoranza delle realtà etniche, culturali e storiche della regione.
La transizione verso la Repubblica e l'ascesa di Atatürk
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, l'Impero Ottomano, indebolito e sotto pressione, accettò di firmare il Trattato di Sèvres nel 1920. Questo trattato, che smantellava l'Impero Ottomano e ne ridistribuiva i territori, sembrava segnare la conclusione dell'annosa "questione orientale" riguardante il destino dell'impero. Tuttavia, lungi dal porre fine alle tensioni nella regione, il Trattato di Sevres esacerbò i sentimenti nazionalisti e portò a nuovi conflitti.
In Turchia si formò una forte resistenza nazionalista, guidata da Mustafa Kemal Atatürk, in opposizione al Trattato di Sèvres. Questo movimento nazionalista si oppose alle disposizioni del trattato, che imponevano gravi perdite territoriali e aumentavano l'influenza straniera sul territorio ottomano. La resistenza combatté contro vari gruppi, tra cui gli armeni, i greci dell'Anatolia e i curdi, con l'obiettivo di forgiare un nuovo Stato nazionale turco omogeneo. La successiva Guerra d'indipendenza turca fu un periodo di intenso conflitto e di ricomposizione territoriale. Le forze nazionaliste turche riuscirono a respingere le armate greche in Anatolia e a contrastare gli altri gruppi ribelli. Questa vittoria militare fu un elemento chiave per la fondazione della Repubblica di Turchia nel 1923.
In seguito a questi eventi, il Trattato di Sèvres fu sostituito dal Trattato di Losanna nel 1923. Questo nuovo trattato riconobbe i confini della nuova Repubblica di Turchia e cancellò le disposizioni più punitive del Trattato di Sevres. Il Trattato di Losanna segnò una tappa importante nell'affermazione della Turchia moderna come Stato sovrano e indipendente, ridefinendo il suo ruolo nella regione e negli affari internazionali. Questi eventi non solo ridisegnarono la mappa politica del Medio Oriente, ma segnarono anche la fine dell'Impero Ottomano e aprirono un nuovo capitolo nella storia della Turchia, con ripercussioni che continuano a influenzare la regione e il mondo fino ad oggi.
L'abolizione del Califfato e le sue ripercussioni
L'abolizione del Califfato nel 1924 fu un evento importante nella storia moderna del Medio Oriente, segnando la fine di un'istituzione islamica che era durata per secoli. La decisione fu presa da Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica di Turchia, come parte delle sue riforme per secolarizzare e modernizzare il nuovo Stato turco. L'abolizione del Califfato fu un colpo alla struttura tradizionale dell'autorità islamica. Il Califfo era considerato il capo spirituale e temporale della comunità musulmana (ummah) fin dai tempi del Profeta Maometto. Con l'abolizione del Califfato, questa istituzione centrale dell'Islam sunnita è scomparsa, lasciando un vuoto nella leadership musulmana.
In risposta all'abolizione del Califfato da parte della Turchia, Hussein ben Ali, divenuto re dell'Hijaz dopo la caduta dell'Impero Ottomano, si autoproclamò Califfo. Hussein, membro della famiglia hashemita e discendente diretto del Profeta Maometto, cercò di rivendicare questa posizione per mantenere una forma di continuità spirituale e politica nel mondo musulmano. Tuttavia, la rivendicazione del Califfato da parte di Hussein non fu ampiamente riconosciuta e fu di breve durata. La sua posizione fu indebolita da sfide interne ed esterne, tra cui l'opposizione della famiglia Saud, che controllava gran parte della penisola arabica. L'ascesa dei Saud, sotto la guida di Abdelaziz Ibn Saud, portò alla conquista di Hijaz e alla creazione del Regno dell'Arabia Saudita. La cacciata di Hussein bin Ali da parte dei Saud simboleggia il radicale cambiamento di potere nella Penisola arabica e segna la fine delle sue ambizioni di califfato. Questo evento evidenziò anche le trasformazioni politiche e religiose in atto nel mondo musulmano, segnando l'inizio di una nuova era in cui politica e religione avrebbero iniziato a seguire percorsi più distinti in molti Paesi musulmani.
Il periodo successivo alla Prima guerra mondiale fu cruciale per la ridefinizione politica del Medio Oriente, con interventi significativi da parte delle potenze europee, in particolare Francia e Gran Bretagna. Nel 1920, in Siria si verificò un evento importante, che segnò una svolta nella storia della regione. Faisal, figlio di Hussein ben Ali e figura centrale della Rivolta araba, aveva fondato un regno arabo in Siria dopo la caduta dell'Impero ottomano, aspirando a realizzare il sogno di uno Stato arabo unificato. Tuttavia, le sue ambizioni si scontrarono con la realtà degli interessi coloniali francesi. Dopo la battaglia di Maysaloun, nel luglio 1920, i francesi, su mandato della Società delle Nazioni, presero il controllo di Damasco e smantellarono lo Stato arabo di Faisal, ponendo fine al suo regno in Siria. L'intervento francese rifletteva le complesse dinamiche del dopoguerra, in cui le aspirazioni nazionali dei popoli del Medio Oriente erano spesso messe in ombra dagli interessi strategici delle potenze europee. Fayçal, deposto dal trono siriano, trovò comunque un nuovo destino in Iraq. Nel 1921, sotto gli auspici britannici, fu insediato come primo re della monarchia hashemita dell'Iraq, una mossa strategica da parte degli inglesi per garantire una leadership favorevole e la stabilità in questa regione ricca di petrolio.
Contemporaneamente, in Transgiordania, gli inglesi attuarono un'altra manovra politica. Per contrastare le aspirazioni sioniste in Palestina e mantenere un equilibrio nel loro mandato, nel 1921 crearono il Regno di Transgiordania e vi insediarono Abdallah, un altro figlio di Hussein ben Ali. Questa decisione aveva lo scopo di fornire ad Abdallah un territorio su cui governare, pur mantenendo la Palestina sotto il diretto controllo britannico. La creazione della Transgiordania fu un passo importante nella formazione del moderno Stato di Giordania e illustrò come gli interessi coloniali modellarono i confini e le strutture politiche del Medio Oriente moderno. Questi sviluppi nella regione dopo la Prima guerra mondiale dimostrano la complessità della politica mediorientale nel periodo tra le due guerre. Le decisioni prese dalle potenze delegate europee, influenzate dai loro interessi strategici e geopolitici, ebbero conseguenze durature, gettando le basi per le strutture statali e i conflitti che continuano a interessare il Medio Oriente. Questi eventi evidenziano anche la lotta tra le aspirazioni nazionali dei popoli della regione e le realtà del dominio coloniale europeo, un tema ricorrente nella storia del Medio Oriente del XX secolo.
La Conferenza di San Remo
La Conferenza di San Remo, tenutasi nell'aprile del 1920, fu un momento decisivo nella storia del primo dopoguerra, in particolare per il Medio Oriente. Si concentrò sull'assegnazione dei mandati sulle ex province dell'Impero Ottomano, dopo la sua sconfitta e il suo scioglimento. In questa conferenza, le potenze alleate vincitrici decisero la distribuzione dei mandati. La Francia ottenne il mandato sulla Siria e sul Libano, assumendo così il controllo di due regioni strategicamente importanti e culturalmente ricche. Da parte loro, i britannici ricevettero i mandati su Transgiordania, Palestina e Mesopotamia, quest'ultima ribattezzata Iraq. Queste decisioni riflettevano gli interessi geopolitici ed economici delle potenze coloniali, soprattutto in termini di accesso alle risorse e di controllo strategico.
Parallelamente a questi sviluppi, la Turchia, sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk, era impegnata in un processo di ridefinizione nazionale. Dopo la guerra, la Turchia cercò di stabilire nuovi confini nazionali. Questo periodo fu segnato da tragici conflitti, in particolare dalla repressione degli armeni, che seguì il genocidio armeno perpetrato durante la guerra. Nel 1923, dopo diversi anni di lotte e negoziati diplomatici, Mustafa Kemal Atatürk riuscì a rinegoziare i termini del Trattato di Sèvres, imposto alla Turchia nel 1920 e ampiamente considerato umiliante e inaccettabile dai nazionalisti turchi. Il Trattato di Losanna, firmato nel luglio 1923, sostituì il Trattato di Sevres e riconobbe la sovranità e i confini della nuova Repubblica di Turchia. Questo trattato segnò la fine ufficiale dell'Impero Ottomano e gettò le basi del moderno Stato turco.
Il Trattato di Losanna è considerato un grande successo per Mustafa Kemal e il movimento nazionalista turco. Non solo ha ridefinito i confini della Turchia, ma ha anche permesso alla nuova repubblica di ricominciare da capo sulla scena internazionale, liberata dalle restrizioni del Trattato di Sèvres. Questi eventi, dalla Conferenza di San Remo alla firma del Trattato di Losanna, ebbero un profondo impatto sul Medio Oriente, modellando i confini nazionali, le relazioni internazionali e le dinamiche politiche della regione per i decenni a venire.
Promesse alleate e richieste arabe
Durante la Prima guerra mondiale, lo smantellamento e la spartizione dell'Impero ottomano furono al centro delle preoccupazioni delle potenze alleate, principalmente Gran Bretagna, Francia e Russia. Queste potenze, prevedendo una vittoria sull'Impero Ottomano, alleato delle Potenze Centrali, iniziarono a pianificare la spartizione dei suoi vasti territori.
Nel 1915, mentre infuriava la Prima guerra mondiale, si svolsero a Costantinopoli negoziati cruciali che coinvolsero i rappresentanti di Gran Bretagna, Francia e Russia. Le discussioni vertevano sul futuro dei territori dell'Impero Ottomano, allora alleato delle Potenze Centrali. L'Impero Ottomano, indebolito e in declino, era visto dagli Alleati come un territorio da dividere in caso di vittoria. I negoziati a Costantinopoli furono fortemente motivati da interessi strategici e coloniali. Ogni potenza cercava di estendere la propria influenza nella regione, strategicamente importante per la sua posizione geografica e le sue risorse. La Russia era particolarmente interessata a controllare gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, essenziali per il suo accesso al Mediterraneo. Francia e Gran Bretagna, nel frattempo, cercavano di espandere i loro imperi coloniali e di assicurarsi l'accesso alle risorse della regione, in particolare al petrolio. Tuttavia, è importante notare che, sebbene queste discussioni abbiano avuto un impatto significativo sul futuro dei territori ottomani, gli accordi più significativi e dettagliati riguardanti la loro divisione furono formalizzati più tardi, in particolare nell'accordo Sykes-Picot del 1916.
L'Accordo Sykes-Picot del 1916, concluso dal diplomatico britannico Mark Sykes e dal diplomatico francese François Georges-Picot, rappresenta un momento chiave nella storia del Medio Oriente, influenzando profondamente la configurazione geopolitica della regione dopo la Prima guerra mondiale. L'accordo era stato concepito per definire la divisione dei territori dell'Impero Ottomano tra Gran Bretagna, Francia e, in una certa misura, Russia, sebbene la partecipazione russa fosse stata resa nulla dalla Rivoluzione russa del 1917. L'Accordo Sykes-Picot stabilì zone di influenza e di controllo per Francia e Gran Bretagna in Medio Oriente. In base a questo accordo, la Francia avrebbe ottenuto il controllo diretto o l'influenza sulla Siria e sul Libano, mentre la Gran Bretagna avrebbe avuto un controllo simile sull'Iraq, sulla Giordania e su un'area intorno alla Palestina. Tuttavia, l'accordo non definiva con precisione i confini dei futuri Stati, lasciando questo compito a negoziati e accordi successivi.
L'importanza dell'accordo Sykes-Picot risiede nel suo ruolo di "genesi" delle memorie collettive relative allo spazio geografico del Medio Oriente. Esso simboleggia l'intervento imperialista e le manipolazioni delle potenze europee nella regione, spesso in barba alle identità etniche, religiose e culturali locali. Sebbene l'accordo abbia influenzato la creazione di Stati in Medio Oriente, i confini effettivi di questi Stati sono stati determinati dai successivi equilibri di potere, dai negoziati diplomatici e dalle realtà geopolitiche che si sono evolute dopo la Prima guerra mondiale. Le conseguenze dell'accordo Sykes-Picot si sono riflesse nei mandati della Società delle Nazioni assegnati a Francia e Gran Bretagna dopo la guerra, portando alla formazione di diversi Stati mediorientali moderni. Tuttavia, i confini tracciati e le decisioni prese spesso ignoravano le realtà etniche e religiose sul campo, gettando i semi di futuri conflitti e tensioni nella regione. L'eredità dell'accordo rimane un argomento di dibattito e di malcontento nel Medio Oriente contemporaneo, simbolo degli interventi e delle divisioni imposte da potenze straniere.
Questa mappa illustra la divisione dei territori dell'Impero Ottomano stabilita dagli accordi Sykes-Picot del 1916 tra Francia e Gran Bretagna, con zone di amministrazione diretta e zone di influenza.
La "zona blu", che rappresenta l'amministrazione diretta francese, copriva le regioni che sarebbero poi diventate la Siria e il Libano. Ciò dimostra che la Francia intendeva esercitare un controllo diretto sui centri urbani strategici e sulle regioni costiere. La "Zona rossa", sotto la diretta amministrazione britannica, comprendeva il futuro Iraq con città chiave come Baghdad e Bassora, oltre al Kuwait, rappresentato in modo distaccato. Questa zona rifletteva l'interesse britannico per le regioni produttrici di petrolio e la loro importanza strategica come porta d'accesso al Golfo Persico. La "Zona Marrone", che rappresenta la Palestina (comprese località come Haifa, Gerusalemme e Gaza), non è esplicitamente definita nell'Accordo Sykes-Picot in termini di controllo diretto, ma è generalmente associata all'influenza britannica. In seguito divenne un mandato britannico e fu al centro di tensioni e conflitti politici a seguito della Dichiarazione Balfour e del movimento sionista.
Le "Aree arabe A e B" erano regioni in cui l'autonomia araba doveva essere riconosciuta rispettivamente sotto la supervisione francese e britannica. Ciò fu interpretato come una concessione alle aspirazioni arabe per una qualche forma di autonomia o indipendenza, che erano state incoraggiate dagli Alleati durante la guerra per ottenere il sostegno arabo contro l'Impero Ottomano. Ciò che questa mappa non mostra è la complessità e le molteplici promesse fatte dagli Alleati durante la guerra, spesso contraddittorie e che hanno portato a sentimenti di tradimento tra le popolazioni locali dopo la rivelazione dell'accordo. La mappa rappresenta una semplificazione degli accordi Sykes-Picot, che in realtà furono molto più complessi e subirono modifiche nel tempo a seguito di sviluppi politici, conflitti e pressioni internazionali.
La rivelazione degli accordi Sykes-Picot da parte dei bolscevichi russi dopo la Rivoluzione russa del 1917 ebbe un impatto clamoroso, non solo nella regione mediorientale, ma anche sulla scena internazionale. Svelando questi accordi segreti, i bolscevichi cercarono di criticare l'imperialismo delle potenze occidentali, in particolare di Francia e Gran Bretagna, e di dimostrare il proprio impegno verso i principi di autodeterminazione e trasparenza. Gli accordi Sykes-Picot non furono l'inizio, ma piuttosto il culmine del lungo processo della "questione orientale", una complessa questione diplomatica che aveva preoccupato le potenze europee per tutto il XIX e l'inizio del XX secolo. Questo processo riguardava la gestione e la condivisione dell'influenza sui territori dell'Impero Ottomano in declino e gli accordi Sykes-Picot furono un passo decisivo in questo processo.
In base a questi accordi, una zona di influenza francese fu stabilita in Siria e Libano, mentre la Gran Bretagna ottenne il controllo o l'influenza su Iraq, Giordania e una regione intorno alla Palestina. L'intento era quello di creare zone cuscinetto tra le sfere d'influenza delle grandi potenze, anche tra i britannici e i russi, che avevano interessi concorrenti nella regione. Questa configurazione era in parte una risposta alla difficoltà di convivenza tra queste potenze, come dimostrato dalla loro competizione in India e altrove. La pubblicazione degli accordi Sykes-Picot provocò una forte reazione nel mondo arabo, dove furono visti come un tradimento delle promesse fatte ai leader arabi durante la guerra. Questa rivelazione esacerbò i sentimenti di sfiducia nei confronti delle potenze occidentali e alimentò le aspirazioni nazionaliste e antimperialiste nella regione. L'impatto di questi accordi si fa sentire ancora oggi, poiché hanno gettato le basi per i confini moderni del Medio Oriente e per le dinamiche politiche che continuano a influenzare la regione.
Il genocidio armeno
Contesto storico e inizio del genocidio (1915-1917)
La Prima guerra mondiale fu un periodo di intensi conflitti e sconvolgimenti politici, ma fu anche segnata da uno degli eventi più tragici dell'inizio del XX secolo: il genocidio armeno. Questo genocidio fu perpetrato dal governo dei Giovani Turchi dell'Impero Ottomano tra il 1915 e il 1917, anche se gli atti di violenza e deportazione iniziarono prima e continuarono dopo queste date.
Durante questo tragico periodo, gli armeni ottomani, un gruppo etnico cristiano minoritario nell'Impero Ottomano, furono sistematicamente presi di mira con campagne di deportazioni forzate, esecuzioni di massa, marce della morte e carestie pianificate. Le autorità ottomane, utilizzando la guerra come copertura e pretesto per risolvere quello che consideravano un "problema armeno", orchestrarono queste azioni con l'obiettivo di eliminare la popolazione armena dall'Anatolia e da altre regioni dell'Impero. Le stime sul numero delle vittime variano, ma è ampiamente accettato che siano morti fino a 1,5 milioni di armeni. Il genocidio armeno ha lasciato un segno profondo nella memoria collettiva armena e ha avuto un impatto duraturo sulla comunità armena mondiale. È considerato uno dei primi genocidi moderni e ha gettato un'ombra sulle relazioni turco-armene per più di un secolo.
Il riconoscimento del genocidio armeno rimane una questione delicata e controversa. Molti Paesi e organizzazioni internazionali hanno formalmente riconosciuto il genocidio, ma persistono alcuni dibattiti e tensioni diplomatiche, in particolare con la Turchia, che contesta la caratterizzazione degli eventi come genocidio. Il genocidio armeno ha avuto implicazioni anche per il diritto internazionale, influenzando lo sviluppo della nozione di genocidio e motivando gli sforzi per prevenire simili atrocità in futuro. Questo triste evento sottolinea l'importanza della memoria storica e del riconoscimento delle ingiustizie del passato per costruire un futuro comune basato sulla comprensione e sulla riconciliazione.
Le radici storiche dell'Armenia
Il popolo armeno ha una storia ricca e antica, che risale a ben prima dell'era cristiana. Secondo la tradizione e la mitologia nazionalista armena, le loro radici risalgono al 200 a.C. e anche prima. Ciò è supportato da prove archeologiche e storiche che dimostrano che gli armeni hanno occupato l'altopiano armeno per millenni. L'Armenia storica, spesso indicata come Alta Armenia o Grande Armenia, si trovava in un'area che comprendeva parti dell'odierna Turchia orientale, Armenia, Azerbaigian, Georgia, l'odierno Iran e l'Iraq. In questa regione nacque il regno di Urartu, considerato un precursore dell'antica Armenia, che fiorì dal IX al VI secolo a.C.. Il regno di Armenia fu formalmente istituito e riconosciuto all'inizio del VI secolo a.C., dopo la caduta di Urartu e l'integrazione nell'Impero achemenide. Raggiunse il suo apogeo sotto il regno di Tigran il Grande nel I secolo a.C., quando si espanse brevemente fino a formare un impero che si estendeva dal Mar Caspio al Mediterraneo.
La profondità storica della presenza armena nella regione è illustrata anche dalla precoce adozione del cristianesimo come religione di Stato nel 301 d.C., rendendo l'Armenia il primo Paese a farlo ufficialmente. Gli armeni hanno mantenuto una distinta identità culturale e religiosa nel corso dei secoli, nonostante le invasioni e la dominazione di vari imperi stranieri. Questa lunga storia ha forgiato una forte identità nazionale che è sopravvissuta nel tempo, anche di fronte a gravi difficoltà come il genocidio armeno all'inizio del XX secolo. I racconti mitologici e storici armeni, sebbene a volte abbelliti da uno spirito nazionalista, si basano su una storia reale e significativa che ha contribuito alla ricchezza culturale e alla resilienza del popolo armeno.
Armenia, il primo Stato cristiano
L'Armenia detiene il titolo storico di essere il primo regno ad adottare ufficialmente il cristianesimo come religione di Stato. Questo evento monumentale ebbe luogo nel 301 d.C., durante il regno del re Tiridate III, e fu largamente influenzato dall'attività missionaria di San Gregorio l'Illuminatore, che divenne il primo capo della Chiesa armena. La conversione del Regno d'Armenia al cristianesimo precedette quella dell'Impero romano che, sotto l'imperatore Costantino, iniziò ad adottare il cristianesimo come religione dominante dopo l'Editto di Milano del 313 d.C.. La conversione armena fu un processo significativo che influenzò profondamente l'identità culturale e nazionale del popolo armeno. L'adozione del cristianesimo portò allo sviluppo della cultura e dell'arte religiosa armena, compresa l'architettura unica delle chiese e dei monasteri armeni, nonché alla creazione dell'alfabeto armeno da parte di San Mesrop Mashtots all'inizio del V secolo. Questo alfabeto permise alla letteratura armena di fiorire, compresa la traduzione della Bibbia e di altri importanti testi religiosi, contribuendo così a rafforzare l'identità cristiana armena. La posizione dell'Armenia come primo Stato cristiano ha avuto anche implicazioni politiche e geopolitiche, in quanto spesso si trovava al confine di importanti imperi concorrenti e circondata da vicini non cristiani. Questa distinzione ha contribuito a plasmare il ruolo e la storia dell'Armenia nel corso dei secoli, rendendola un attore importante nella storia del cristianesimo e nella storia regionale del Medio Oriente e del Caucaso.
La storia dell'Armenia dopo l'adozione del cristianesimo come religione di Stato è stata complessa e spesso tumultuosa. Dopo diversi secoli di conflitti con gli imperi vicini e periodi di relativa autonomia, gli armeni hanno vissuto un grande cambiamento con le conquiste arabe nel VII secolo.
Con la rapida diffusione dell'Islam dopo la morte del profeta Maometto, le forze arabe conquistarono vaste aree del Medio Oriente, tra cui gran parte dell'Armenia, intorno al 640 d.C.. Questo periodo vide l'Armenia divisa tra l'influenza bizantina e il califfato arabo, con conseguente divisione culturale e politica della regione armena. Durante il periodo di dominazione araba, e successivamente sotto l'Impero Ottomano, gli armeni, in quanto cristiani, erano generalmente classificati come "dhimmis", una categoria protetta ma inferiore di non musulmani secondo la legge islamica. Questo status dava loro un certo grado di protezione e permetteva loro di praticare la propria religione, ma erano anche soggetti a tasse specifiche e a restrizioni sociali e legali. La maggior parte dell'Armenia storica si è trovata tra l'impero ottomano e quello russo nel XIX e all'inizio del XX secolo. Durante questo periodo, gli armeni cercarono di preservare la loro identità culturale e religiosa, affrontando al contempo crescenti sfide politiche.
Durante il regno del sultano Abdülhamid II (fine del XIX secolo), l'Impero Ottomano adottò una politica panislamista, cercando di unire i diversi popoli musulmani dell'impero in risposta al declino del potere ottomano e alle pressioni interne ed esterne. Questa politica spesso esacerbò le tensioni etniche e religiose all'interno dell'Impero, portando alla violenza contro gli armeni e altri gruppi non musulmani. I massacri di Hamidian della fine del XIX secolo, in cui furono uccisi decine di migliaia di armeni, sono un tragico esempio della violenza che precedette e preannunciò il genocidio armeno del 1915. Questi eventi evidenziarono le difficoltà incontrate dagli armeni e da altre minoranze in un impero che cercava l'unità politica e religiosa di fronte al nazionalismo emergente e al declino imperiale.
Il Trattato di San Stefano e il Congresso di Berlino
Il Trattato di San Stefano, firmato nel 1878, fu un momento cruciale per la questione armena, che divenne una questione di interesse internazionale. Il trattato fu concluso alla fine della guerra russo-turca del 1877-1878, che vide una significativa sconfitta dell'Impero Ottomano per mano dell'Impero Russo. Uno degli aspetti più rilevanti del Trattato di San Stefano è la clausola che impone all'Impero Ottomano di attuare riforme a favore delle popolazioni cristiane, in particolare degli armeni, e di migliorare le loro condizioni di vita. Questo riconosceva implicitamente i maltrattamenti subiti dagli armeni e la necessità di una protezione internazionale. Tuttavia, l'attuazione delle riforme promesse nel trattato fu largamente inefficace. L'Impero Ottomano, indebolito dalla guerra e dalle pressioni interne, era riluttante a concedere concessioni che avrebbero potuto essere percepite come un'interferenza straniera nei suoi affari interni. Inoltre, le disposizioni del Trattato di San Stefano furono rielaborate più tardi nello stesso anno dal Congresso di Berlino, che ne modificò i termini per venire incontro alle preoccupazioni di altre grandi potenze, in particolare la Gran Bretagna e l'Austria-Ungheria.
Il Congresso di Berlino mantenne comunque alta la pressione sull'Impero Ottomano affinché si riformasse, ma in pratica poco fu fatto per migliorare effettivamente la situazione degli armeni. Questa mancanza di azione, unita all'instabilità politica e alle crescenti tensioni etniche all'interno dell'Impero, creò un ambiente che alla fine portò ai massacri hamidiani del 1890 e, successivamente, al genocidio armeno del 1915. L'internazionalizzazione della questione armena con il Trattato di S. Stefano segnò quindi l'inizio di un periodo in cui le potenze europee iniziarono a esercitare un'influenza più diretta sugli affari dell'Impero Ottomano, spesso con il pretesto di proteggere le minoranze cristiane. Tuttavia, il divario tra le promesse di riforma e la loro attuazione lasciò un'eredità di impegni non mantenuti con conseguenze tragiche per il popolo armeno.
La fine del XIX e l'inizio del XX secolo furono un periodo di grande violenza per le comunità armene e assire dell'Impero Ottomano. In particolare, gli anni 1895 e 1896 furono segnati da massacri su larga scala, spesso indicati come i massacri di Hamidian, dal nome del sultano Abdülhamid II. Questi massacri furono compiuti in risposta alle proteste armene contro le tasse oppressive, le persecuzioni e la mancanza di riforme promesse dal Trattato di San Stefano. I Giovani Turchi, un movimento nazionalista riformista salito al potere dopo un colpo di Stato nel 1908, furono inizialmente visti come una fonte di speranza per le minoranze dell'Impero Ottomano. Tuttavia, una fazione radicale di questo movimento finì per adottare una politica ancora più aggressiva e nazionalista dei suoi predecessori. Convinti della necessità di creare uno Stato turco omogeneo, considerarono gli armeni e le altre minoranze non turche come ostacoli alla loro visione nazionale. La discriminazione sistematica contro gli armeni aumentò, alimentata dalle accuse di tradimento e di collusione con i nemici dell'Impero, in particolare la Russia. Questa atmosfera di sospetto e odio creò il terreno fertile per il genocidio che ebbe inizio nel 1915. Uno dei primi atti di questa campagna genocida fu l'arresto e l'assassinio di intellettuali e leader armeni a Costantinopoli il 24 aprile 1915, data che oggi viene commemorata come l'inizio del genocidio armeno.
Seguirono deportazioni di massa, marce della morte verso il deserto siriano e massacri, con stime che parlano di 1,5 milioni di armeni uccisi. Oltre alle marce della morte, si racconta che gli armeni furono costretti a imbarcarsi su navi che furono affondate intenzionalmente nel Mar Nero. Di fronte a questi orrori, alcuni armeni si convertirono all'Islam per sopravvivere, mentre altri si nascosero o furono protetti da vicini solidali, tra cui i curdi. Allo stesso tempo, anche la popolazione assira ha subito atrocità simili tra il 1914 e il 1920. In quanto millet, o comunità autonoma riconosciuta dall'Impero Ottomano, gli assiri avrebbero dovuto godere di una certa protezione. Tuttavia, nel contesto della Prima guerra mondiale e del nazionalismo turco, furono oggetto di campagne di sterminio sistematico. Questi tragici eventi dimostrano come la discriminazione, la disumanizzazione e l'estremismo possano portare ad atti di violenza di massa. Il genocidio armeno e i massacri degli assiri sono capitoli oscuri della storia che sottolineano l'importanza del ricordo, del riconoscimento e della prevenzione dei genocidi per garantire che tali atrocità non si ripetano mai più.
Verso la Repubblica di Turchia e la negazione del genocidio
L'occupazione di Istanbul da parte degli Alleati nel 1919 e l'istituzione di una corte marziale per processare i funzionari ottomani responsabili delle atrocità commesse durante la guerra segnarono un tentativo di fare giustizia per i crimini commessi, in particolare per il genocidio armeno. Tuttavia, la situazione in Anatolia rimaneva instabile e complessa. Il movimento nazionalista turco, guidato da Mustafa Kemal Atatürk, crebbe rapidamente in risposta ai termini del Trattato di Sèvres del 1920, che smembrava l'Impero Ottomano e imponeva severe sanzioni alla Turchia. I kemalisti respinsero il trattato come un'umiliazione e una minaccia alla sovranità e all'integrità territoriale della Turchia.
Uno dei punti critici era la questione delle popolazioni greco-ortodosse in Turchia, che erano protette dalle disposizioni del trattato ma erano in gioco nel conflitto greco-turco. Le tensioni tra le comunità greche e turche portarono a violenze su larga scala e a scambi di popolazione, esacerbati dalla guerra tra Grecia e Turchia dal 1919 al 1922. Mustafa Kemal, che era stato un membro di spicco dei Giovani Turchi e si era guadagnato la fama di difensore dei Dardanelli durante la Prima guerra mondiale, viene talvolta citato per aver descritto il genocidio armeno come un "atto vergognoso". Tuttavia, queste affermazioni sono soggette a controversie e dibattiti storici. La posizione ufficiale di Kemal e della nascente Repubblica di Turchia sul genocidio fu quella di negarlo e di attribuirlo a circostanze belliche e a disordini civili piuttosto che a una politica deliberata di sterminio.
Durante la resistenza per l'Anatolia e la lotta per la creazione della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal e i suoi sostenitori si concentrarono sulla costruzione di uno Stato nazionale turco unificato, evitando qualsiasi riconoscimento di eventi passati che avrebbero potuto dividere o indebolire questo progetto nazionale. Il periodo successivo alla Prima guerra mondiale è stato quindi segnato da importanti cambiamenti politici, da tentativi di giustizia postbellica e dall'emergere di nuovi Stati nazionali nella regione, con la nascente Repubblica di Turchia che cercava di definire la propria identità e la propria politica indipendentemente dall'eredità ottomana.
La fondazione della Turchia
Il Trattato di Losanna e la nuova realtà politica (1923)
Il Trattato di Losanna, firmato il 24 luglio 1923, segnò una svolta decisiva nella storia contemporanea della Turchia e del Medio Oriente. Dopo il fallimento del Trattato di Sevres, dovuto principalmente alla resistenza nazionale turca guidata da Mustafa Kemal Atatürk, gli Alleati furono costretti a rinegoziare. Stremate dalla guerra e di fronte alla realtà di una Turchia determinata a difendere la propria integrità territoriale, le potenze alleate dovettero riconoscere la nuova realtà politica stabilita dai nazionalisti turchi. Il Trattato di Losanna stabilì i confini internazionalmente riconosciuti della moderna Repubblica di Turchia e annullò le disposizioni del Trattato di Sèvres, che prevedevano la creazione di uno Stato curdo e riconoscevano un certo grado di protezione agli armeni. Non prevedendo alcuna disposizione per la creazione di un Kurdistan né alcuna misura per gli armeni, il Trattato di Losanna chiuse la porta alla "questione curda" e alla "questione armena" a livello internazionale, lasciando tali questioni irrisolte.
Allo stesso tempo, il trattato formalizzò lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia, che portò alla "espulsione dei greci dai territori turchi", un episodio doloroso segnato dallo spostamento forzato delle popolazioni e dalla fine delle comunità storiche in Anatolia e Tracia. Dopo la firma del Trattato di Losanna, il Comitato per l'Unione e il Progresso (CUP), meglio conosciuto come Giovani Turchi, che era stato al potere durante la Prima Guerra Mondiale, fu ufficialmente sciolto. Molti dei suoi leader andarono in esilio e alcuni furono assassinati come rappresaglia per il loro ruolo nel genocidio degli armeni e per le politiche distruttive della guerra.
Negli anni successivi si consolidò la Repubblica di Turchia e nacquero diverse associazioni nazionaliste con l'obiettivo di difendere la sovranità e l'integrità dell'Anatolia. La religione ha giocato un ruolo nella costruzione dell'identità nazionale, con una distinzione spesso tra "Occidente cristiano" e "Anatolia musulmana". Questo discorso è stato utilizzato per rafforzare la coesione nazionale e per giustificare la resistenza contro qualsiasi influenza o intervento straniero percepito come una minaccia per la nazione turca. Il Trattato di Losanna è quindi considerato la pietra miliare della moderna Repubblica di Turchia e la sua eredità continua a plasmare la politica interna ed estera della Turchia, così come le relazioni con i suoi vicini e le comunità minoritarie all'interno dei suoi confini.
L'arrivo di Mustafa Kemal Atatürk e la resistenza nazionale turca (1919)
L'arrivo di Mustafa Kemal Atatürk in Anatolia nel maggio del 1919 segnò l'inizio di una nuova fase nella lotta per l'indipendenza e la sovranità della Turchia. Opponendosi all'occupazione alleata e ai termini del Trattato di Sèvres, si affermò come leader della resistenza nazionale turca. Negli anni successivi, Mustafa Kemal condusse diverse campagne militari cruciali. Combatté su diversi fronti: contro gli armeni nel 1921, contro i francesi nell'Anatolia meridionale per ridefinire i confini e contro i greci, che avevano occupato la città di Smirne nel 1919 e avanzavano nell'Anatolia occidentale. Questi conflitti furono elementi chiave del movimento nazionalista turco per la creazione di un nuovo Stato nazionale sulle rovine dell'Impero Ottomano. La strategia britannica nella regione era complessa. Di fronte alla possibilità di un conflitto più ampio tra greci e turchi da una parte e turchi e britannici dall'altra, la Gran Bretagna vide un vantaggio nel lasciare che greci e turchi si combattessero tra loro, il che le avrebbe permesso di concentrare i propri sforzi altrove, in particolare in Iraq, un territorio ricco di petrolio e strategicamente importante.
La guerra greco-turca culminò con la vittoria turca e il ritiro greco dall'Anatolia nel 1922, che si tradusse nella catastrofe dell'Asia Minore per la Grecia e in una grande vittoria per le forze nazionaliste turche. La vittoriosa campagna militare di Mustafa Kemal permise di rinegoziare i termini del Trattato di Sevres e portò alla firma del Trattato di Losanna nel 1923, che riconobbe la sovranità della Repubblica di Turchia e ne ridefinì i confini. Contemporaneamente al Trattato di Losanna, fu redatta una convenzione per lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia. Ciò portò allo scambio forzato di popolazioni greco-ortodosse e turco-musulmane tra i due Paesi, con l'obiettivo di creare Stati etnicamente più omogenei. Dopo aver respinto le forze francesi, concluso accordi di confine e firmato il Trattato di Losanna, Mustafa Kemal proclamò la Repubblica di Turchia il 29 ottobre 1923, diventandone il primo presidente. La proclamazione della Repubblica segnò il culmine degli sforzi di Mustafa Kemal per fondare uno Stato turco moderno, laico e nazionalista sui resti dell'Impero ottomano multietnico e multiconfessionale.
La formazione dei confini e le questioni di Mosul e Antiochia
Dopo la conclusione del Trattato di Losanna nel 1923, che segnò il riconoscimento internazionale della Repubblica di Turchia e ne ridefinì i confini, rimanevano ancora irrisolte le questioni di confine, in particolare per quanto riguardava la città di Antiochia e la regione di Mosul. Per essere risolte, queste questioni hanno richiesto ulteriori negoziati e l'intervento di organizzazioni internazionali. La città di Antiochia, situata nella regione storicamente ricca e culturalmente diversa dell'Anatolia meridionale, è stata oggetto di contesa tra la Turchia e la Francia, che esercita un mandato sulla Siria, compresa Antiochia. La città, con il suo passato multiculturale e la sua importanza strategica, era un punto di tensione tra i due Paesi. Alla fine, dopo i negoziati, Antiochia fu assegnata alla Turchia, anche se la decisione fu fonte di controversie e tensioni. La questione della regione di Mosul era ancora più complessa. Ricca di petrolio, la regione di Mosul era rivendicata sia dalla Turchia che dalla Gran Bretagna, che aveva un mandato sull'Iraq. La Turchia, sulla base di argomentazioni storiche e demografiche, voleva includerla all'interno dei propri confini, mentre la Gran Bretagna sosteneva la sua inclusione nell'Iraq per ragioni strategiche ed economiche, in particolare per la presenza di petrolio.
La Società delle Nazioni, precursore delle Nazioni Unite, intervenne per risolvere la controversia. Dopo una serie di negoziati, nel 1925 fu raggiunto un accordo. In base a questo accordo, la regione di Mosul sarebbe diventata parte dell'Iraq, ma la Turchia avrebbe ricevuto una compensazione finanziaria, in particolare sotto forma di una quota dei proventi del petrolio. L'accordo prevedeva inoltre che la Turchia riconoscesse ufficialmente l'Iraq e i suoi confini. Questa decisione è stata fondamentale per stabilizzare le relazioni tra Turchia, Iraq e Gran Bretagna e ha svolto un ruolo importante nella definizione dei confini dell'Iraq, influenzando i futuri sviluppi in Medio Oriente. Questi negoziati e gli accordi che ne risultarono illustrano la complessità delle dinamiche del Medio Oriente dopo la Prima guerra mondiale. Mostrano come i confini moderni della regione siano stati modellati da una miscela di rivendicazioni storiche, considerazioni strategiche ed economiche e interventi internazionali, che spesso riflettono gli interessi delle potenze coloniali piuttosto che quelli delle popolazioni locali.
Le riforme radicali di Mustafa Kemal Atatürk
Il periodo successivo alla prima guerra mondiale in Turchia è stato segnato da riforme e trasformazioni radicali guidate da Mustafa Kemal Atatürk, che ha cercato di modernizzare e secolarizzare la nuova Repubblica di Turchia. Nel 1922 fu compiuto un passo fondamentale con l'abolizione del sultanato ottomano da parte del Parlamento turco, una decisione che pose fine a secoli di dominio imperiale e consolidò il potere politico ad Ankara, la nuova capitale della Turchia. Il 1924 vide un'altra importante riforma con l'abolizione del Califfato. Questa decisione eliminò la leadership religiosa e politica islamica che aveva caratterizzato l'Impero Ottomano e rappresentò un passo decisivo verso la secolarizzazione dello Stato. Parallelamente a questa abolizione, il governo turco creò la Diyanet, o Presidenza degli Affari Religiosi, un'istituzione destinata a supervisionare e regolare le questioni religiose nel Paese. L'obiettivo di questa organizzazione era quello di porre gli affari religiosi sotto il controllo dello Stato e di garantire che la religione non fosse usata per fini politici. Mustafa Kemal attuò poi una serie di riforme volte a modernizzare la Turchia, spesso definite "modernizzazione autoritaria". Queste riforme includevano la secolarizzazione dell'istruzione, la riforma del codice di abbigliamento, l'adozione del calendario gregoriano e l'introduzione del diritto civile in sostituzione della legge religiosa islamica.
Nell'ambito della creazione di uno Stato-nazione turco omogeneo, furono attuate politiche di assimilazione per le minoranze e i diversi gruppi etnici. Queste politiche includevano la creazione di cognomi turchi per tutti i cittadini, l'incoraggiamento ad adottare la lingua e la cultura turca e la chiusura delle scuole religiose. Queste misure miravano a unificare la popolazione sotto una comune identità turca, ma sollevavano anche questioni di diritti culturali e di autonomia per le minoranze. Queste riforme radicali trasformarono la società turca e gettarono le basi della Turchia moderna. Esse riflettevano il desiderio di Mustafa Kemal di creare uno Stato moderno, laico e unitario, pur navigando nel complesso contesto postbellico delle aspirazioni nazionaliste. Questi cambiamenti hanno avuto un effetto profondo sulla storia turca e continuano a influenzare la politica e la società turca di oggi.
Il periodo degli anni Venti e Trenta in Turchia, sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk, è stato caratterizzato da una serie di riforme radicali volte a modernizzare e occidentalizzare il Paese. Queste riforme interessarono quasi tutti gli aspetti della vita sociale, culturale e politica turca. Una delle prime misure fu la creazione del Ministero dell'Istruzione, che svolse un ruolo centrale nella riforma del sistema educativo e nella promozione dell'ideologia kemalista. Nel 1925, una delle riforme più simboliche fu l'imposizione del cappello europeo, in sostituzione del tradizionale fez, come parte di una politica volta a modernizzare l'aspetto e l'abbigliamento dei cittadini turchi.
Anche le riforme giuridiche furono significative, con l'adozione di codici legali ispirati a modelli occidentali, in particolare al codice civile svizzero. L'obiettivo di queste riforme era quello di sostituire il sistema giuridico ottomano, basato sulla Sharia (legge islamica), con un sistema giuridico moderno e laico. La Turchia adottò anche il sistema metrico, il calendario gregoriano e cambiò il giorno di riposo dal venerdì (tradizionalmente osservato nei Paesi musulmani) alla domenica, allineando il Paese agli standard occidentali. Una delle riforme più radicali fu il cambio dell'alfabeto, nel 1928, dall'arabo a una scrittura latina modificata. Lo scopo di questa riforma era quello di aumentare l'alfabetizzazione e modernizzare la lingua turca. L'Istituto di Storia Turca, fondato nel 1931, faceva parte di uno sforzo più ampio per reinterpretare la storia turca e promuovere l'identità nazionale turca. Nello stesso spirito, la politica di purificazione della lingua turca mirava a eliminare i prestiti arabi e persiani e a rafforzare la teoria della "Lingua del Sole", un'ideologia nazionalista che affermava l'origine antica e la superiorità della lingua e della cultura turca.
Per quanto riguarda la questione curda, il governo kemalista perseguì una politica di assimilazione, considerando i curdi come "turchi di montagna" e cercando di integrarli nell'identità nazionale turca. Questa politica portò a tensioni e conflitti, in particolare durante la repressione delle popolazioni curde e non musulmane nel 1938. Il periodo kemalista fu un'epoca di profonda trasformazione per la Turchia, segnata dagli sforzi per creare uno Stato nazionale moderno, laico e omogeneo. Tuttavia, queste riforme, pur essendo progressive nel loro intento di modernizzazione, sono state accompagnate da politiche autoritarie e da sforzi di assimilazione che hanno lasciato un'eredità complessa e talvolta controversa nella Turchia contemporanea.
Il periodo kemalista in Turchia, iniziato con la fondazione della Repubblica nel 1923, è stato caratterizzato da una serie di riforme volte a centralizzare, nazionalizzare e secolarizzare lo Stato, nonché a europeizzare la società. Queste riforme, guidate da Mustafa Kemal Atatürk, miravano a rompere con il passato imperiale e islamico dell'Impero Ottomano, visto come un ostacolo al progresso e alla modernizzazione. L'obiettivo era quello di creare una Turchia moderna allineata ai valori e agli standard occidentali. Da questo punto di vista, l'eredità ottomana e islamica veniva spesso dipinta in una luce negativa, associata all'arretratezza e all'oscurantismo. Lo spostamento verso l'Occidente era evidente nella politica, nella cultura, nella legge, nell'istruzione e persino nella vita quotidiana.
Il multipartitismo e le tensioni tra modernizzazione e tradizione (dopo il 1950)
Tuttavia, con l'avvento di un sistema multipartitico negli anni Cinquanta, il panorama politico turco iniziò a cambiare. La Turchia, che aveva operato come Stato monopartitico sotto il Partito Popolare Repubblicano (CHP), iniziò ad aprirsi al pluralismo politico. Questa transizione non fu priva di tensioni. I conservatori, spesso emarginati durante il periodo kemalista, iniziarono a mettere in discussione alcune delle riforme kemaliste, in particolare quelle riguardanti la laicità e l'occidentalizzazione. Il dibattito tra laicità e valori tradizionali, tra occidentalizzazione e identità turca e islamica, è diventato un tema ricorrente nella politica turca. I partiti conservatori e islamisti hanno guadagnato terreno, mettendo in discussione l'eredità kemalista e chiedendo il ritorno ad alcuni valori tradizionali e religiosi.
Questa dinamica politica ha talvolta portato a repressioni e tensioni, poiché i diversi governi cercano di consolidare il proprio potere navigando in un ambiente politico sempre più eterogeneo. I periodi di tensione politica e repressione, in particolare durante i colpi di Stato militari del 1960, 1971, 1980 e il tentato colpo di Stato del 2016, testimoniano le sfide che la Turchia ha affrontato nel tentativo di trovare un equilibrio tra modernizzazione e tradizione, secolarismo e religiosità, occidentalizzazione e identità turca. Il periodo successivo al 1950 in Turchia ha visto un complesso e talvolta conflittuale riequilibrio tra l'eredità kemalista e le aspirazioni di parte della popolazione a un ritorno ai valori tradizionali, riflettendo le continue tensioni tra modernità e tradizione nella società turca contemporanea.
La Turchia e le sue sfide interne: la gestione della diversità etnica e religiosa
La Turchia, alleata strategica dell'Occidente, in particolare dopo l'adesione alla NATO nel 1952, ha dovuto conciliare le relazioni con l'Occidente con le proprie dinamiche politiche interne. Il sistema multipartitico introdotto negli anni '50 è stato un elemento chiave di questa riconciliazione, che riflette una transizione verso una forma di governo più democratica. Tuttavia, questa transizione è stata segnata da periodi di instabilità e interventi militari. In effetti, la Turchia ha sperimentato diversi colpi di Stato militari, circa ogni dieci anni, in particolare nel 1960, 1971, 1980 e un tentativo nel 2016. Questi colpi di Stato sono stati spesso giustificati dai militari come necessari per ristabilire l'ordine e proteggere i principi della Repubblica turca, in particolare il kemalismo e il secolarismo. Dopo ogni colpo di Stato, l'esercito ha generalmente indetto nuove elezioni per tornare al governo civile, anche se l'esercito ha continuato a svolgere il ruolo di custode dell'ideologia kemalista.
Tuttavia, a partire dagli anni 2000, il panorama politico turco ha subito un cambiamento significativo con l'ascesa dei partiti conservatori e islamisti, in particolare del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). Sotto la guida di Recep Tayyip Erdoğan, l'AKP ha vinto diverse elezioni e ha mantenuto il potere per un lungo periodo. Il governo dell'AKP, nonostante sostenga valori più conservatori e islamici, non è stato rovesciato dai militari. Questo rappresenta un cambiamento rispetto ai decenni precedenti, quando i governi che si discostavano dai principi kemalisti erano spesso oggetto di intervento militare. Questa relativa stabilità del governo conservatore in Turchia suggerisce un riequilibrio del potere tra i partiti politici militari e civili. Ciò può essere attribuito a una serie di riforme volte a ridurre il potere politico dell'esercito, nonché a un cambiamento nell'atteggiamento della popolazione turca, che è diventata sempre più ricettiva nei confronti di una governance che riflette i valori conservatori e islamici. Le dinamiche politiche della Turchia contemporanea riflettono le sfide di un Paese che naviga tra la sua eredità secolare kemalista e le crescenti tendenze conservatrici e islamiste, pur mantenendo il suo impegno verso il multipartitismo e le alleanze occidentali.
La Turchia moderna ha affrontato diverse sfide interne, tra cui la gestione della sua diversità etnica e religiosa. Le politiche di assimilazione, in particolare nei confronti della popolazione curda, hanno svolto un ruolo significativo nel rafforzare il nazionalismo turco. Questa situazione ha portato a tensioni e conflitti, in particolare con la minoranza curda, che non ha beneficiato dello status di millet (comunità autonoma) concesso ad alcune minoranze religiose sotto l'Impero Ottomano. L'influenza dell'antisemitismo e del razzismo europeo nel corso del XX secolo ha avuto un impatto anche sulla Turchia. Negli anni '30, le idee discriminatorie e xenofobe, influenzate dalle correnti politiche e sociali europee, iniziarono a manifestarsi in Turchia. Ciò ha portato a eventi tragici come i pogrom contro gli ebrei in Tracia nel 1934, dove le comunità ebraiche sono state prese di mira, attaccate e costrette a fuggire dalle loro case.
Inoltre, la legge sull'imposta patrimoniale (Varlık Vergisi) introdotta nel 1942 fu un'altra misura discriminatoria che colpì principalmente le minoranze non turche e non musulmane, tra cui ebrei, armeni e greci. Questa legge imponeva tasse esorbitanti sulla ricchezza, sproporzionatamente alte per i non musulmani, e coloro che non potevano pagare venivano inviati nei campi di lavoro, in particolare ad Aşkale, nella Turchia orientale. Queste politiche ed eventi riflettevano le tensioni etniche e religiose all'interno della società turca e un periodo in cui il nazionalismo turco era talvolta interpretato in modo esclusivo e discriminatorio. Hanno inoltre evidenziato la complessità del processo di formazione di uno Stato-nazione in una regione così diversa come l'Anatolia, dove coesisteva una moltitudine di gruppi etnici e religiosi. Il trattamento riservato alle minoranze in Turchia durante questo periodo rimane un argomento delicato e controverso, che riflette le sfide che il Paese ha dovuto affrontare nella ricerca di un'identità nazionale unificata, pur gestendo la sua diversità interna. Questi eventi hanno avuto anche un impatto a lungo termine sulle relazioni tra i diversi gruppi etnici e religiosi in Turchia.
Separazione tra secolarizzazione e secolarismo: l'eredità del periodo kemalista
La distinzione tra secolarizzazione e secolarismo è importante per comprendere le dinamiche sociali e politiche in vari contesti storici e geografici. La secolarizzazione si riferisce a un processo storico e culturale in cui società, istituzioni e individui iniziano a distaccarsi dall'influenza e dalle norme religiose. In una società secolarizzata, la religione perde gradualmente la sua influenza sulla vita pubblica, sulle leggi, sull'istruzione, sulla politica e su altri settori. Questo processo non significa necessariamente che gli individui diventino meno religiosi a livello personale, ma piuttosto che la religione diventa una questione privata, separata dagli affari pubblici e dallo Stato. La secolarizzazione è spesso associata alla modernizzazione, allo sviluppo scientifico e tecnologico e al cambiamento delle norme sociali. Il secolarismo, invece, è una politica istituzionale e legale con cui uno Stato si dichiara neutrale in materia di religione. Si tratta di una decisione di separare lo Stato dalle istituzioni religiose, garantendo che le decisioni del governo e le politiche pubbliche non siano influenzate da specifiche dottrine religiose. La laicità può coesistere con una società profondamente religiosa; si tratta soprattutto di come lo Stato gestisce il suo rapporto con le diverse religioni. In teoria, il secolarismo mira a garantire la libertà di religione, trattando tutte le religioni allo stesso modo ed evitando favoritismi verso una religione specifica.
Esempi storici e contemporanei mostrano diverse combinazioni di questi due concetti. Ad esempio, alcuni Paesi europei hanno subito una significativa secolarizzazione pur mantenendo legami ufficiali tra lo Stato e alcune chiese (come il Regno Unito con la Chiesa d'Inghilterra). D'altro canto, Paesi come la Francia hanno adottato una rigorosa politica di laicità (laïcité), pur essendo storicamente società fortemente impregnate di tradizioni religiose. In Turchia, il periodo kemalista ha visto l'introduzione di una rigida forma di laicità con la separazione tra moschea e Stato, pur vivendo in una società in cui la religione musulmana continuava a giocare un ruolo significativo nella vita privata delle persone. La politica kemalista di laicità mirava a modernizzare e unificare la Turchia, ispirandosi ai modelli occidentali, pur navigando nel complesso contesto di una società con una lunga storia di organizzazione sociale e politica intorno all'Islam.
Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale in Turchia è stato segnato da una serie di incidenti che hanno esacerbato le tensioni etniche e religiose nel Paese, colpendo in particolare le minoranze. Tra questi incidenti, il bombardamento della casa natale di Mustafa Kemal Atatürk a Salonicco (allora in Grecia) nel 1955 è stato il catalizzatore di uno degli eventi più tragici della storia moderna della Turchia: i pogrom di Istanbul. I pogrom di Istanbul, noti anche come eventi del 6-7 settembre 1955, furono una serie di violenti attacchi diretti principalmente contro la comunità greca della città, ma anche contro altre minoranze, in particolare armeni ed ebrei. Gli attacchi furono scatenati da voci sul bombardamento della casa natale di Atatürk e furono esacerbati da sentimenti nazionalisti e anti-minoranza. I disordini provocarono una massiccia distruzione di proprietà, violenze e lo sfollamento di molte persone.
Questo evento ha segnato un punto di svolta nella storia delle minoranze in Turchia, portando a una significativa diminuzione della popolazione greca di Istanbul e a un generale senso di insicurezza tra le altre minoranze. I pogrom di Istanbul hanno anche rivelato le tensioni di fondo all'interno della società turca sulle questioni dell'identità nazionale, della diversità etnica e religiosa e delle sfide da affrontare per mantenere l'armonia in uno Stato-nazione diversificato. Da allora, la percentuale di minoranze etniche e religiose in Turchia è diminuita notevolmente a causa di una serie di fattori, tra cui l'emigrazione, le politiche di assimilazione e, talvolta, le tensioni e i conflitti intercomunitari. Sebbene la Turchia moderna abbia cercato di promuovere l'immagine di una società tollerante e diversificata, l'eredità di questi eventi storici continua a influenzare le relazioni tra le diverse comunità e la politica dello Stato nei confronti delle minoranze. La situazione delle minoranze in Turchia rimane una questione delicata, che illustra le sfide che molti Stati devono affrontare per gestire la diversità e preservare i diritti e la sicurezza di tutte le comunità all'interno dei loro confini.
Gli aleviti
L'impatto della fondazione della Repubblica di Turchia sugli aleviti (1923)
La creazione della Repubblica di Turchia nel 1923 e le riforme laiciste avviate da Mustafa Kemal Atatürk ebbero un impatto significativo su diversi gruppi religiosi ed etnici in Turchia, compresa la comunità alevita. Gli aleviti, un gruppo religioso e culturale distinto all'interno dell'Islam, che pratica una forma di fede diversa dal sunnismo tradizionale, accolsero la fondazione della Repubblica turca con un certo ottimismo. La promessa di laicità e secolarizzazione offriva la speranza di una maggiore uguaglianza e libertà religiosa, rispetto al periodo dell'Impero Ottomano in cui erano stati spesso oggetto di discriminazione e talvolta di violenza.
Tuttavia, con la creazione della Direzione degli Affari Religiosi (Diyanet) dopo l'abolizione del Califfato nel 1924, il governo turco cercò di regolamentare e controllare gli affari religiosi. Sebbene la Diyanet sia stata concepita per esercitare un controllo statale sulla religione e promuovere un Islam compatibile con i valori repubblicani e laici, nella pratica ha spesso favorito l'Islam sunnita, che è il ramo maggioritario in Turchia. Questa politica ha causato problemi alla comunità alevita, che si è sentita emarginata dalla promozione da parte dello Stato di una forma di Islam che non corrisponde alle loro credenze e pratiche religiose. Sebbene la situazione degli aleviti sotto la Repubblica turca fosse molto migliore rispetto a quella dell'Impero ottomano, dove erano spesso perseguitati, hanno continuato ad affrontare sfide relative al riconoscimento e ai diritti religiosi.
Nel corso degli anni, gli aleviti hanno lottato per il riconoscimento ufficiale dei loro luoghi di culto (cemevis) e per un'equa rappresentanza negli affari religiosi. Nonostante i progressi compiuti in termini di laicità e diritti civili in Turchia, la questione degli aleviti rimane una questione importante, che riflette le sfide più ampie della Turchia nel gestire la sua diversità religiosa ed etnica all'interno di un quadro laico. La situazione degli aleviti in Turchia è quindi un esempio del complesso rapporto tra Stato, religione e minoranze in un contesto di modernizzazione e secolarizzazione, che illustra come le politiche statali possano influenzare le dinamiche sociali e religiose all'interno di una nazione.
Impegno politico degli aleviti negli anni Sessanta
Negli anni Sessanta, la Turchia ha vissuto un periodo di significativi cambiamenti politici e sociali, con l'emergere di vari partiti e movimenti politici che rappresentavano una gamma di punti di vista e interessi. Fu un periodo di dinamismo politico, caratterizzato da una maggiore espressione di identità e richieste politiche, comprese quelle di gruppi minoritari come gli aleviti. La creazione del primo partito politico alevita in questo periodo è stato uno sviluppo importante, che riflette la crescente volontà di questa comunità di impegnarsi nel processo politico e di difendere i propri interessi specifici. Gli aleviti, con le loro credenze e pratiche distinte, hanno spesso cercato di promuovere un maggiore riconoscimento e rispetto dei loro diritti religiosi e culturali. Tuttavia, è anche vero che altri partiti politici, in particolare quelli di sinistra o comunisti, hanno risposto alle richieste dell'elettorato curdo e alevita. Promuovendo idee di giustizia sociale, uguaglianza e diritti delle minoranze, questi partiti hanno attratto un sostegno significativo da queste comunità. Le questioni dei diritti delle minoranze, della giustizia sociale e del secolarismo sono state spesso al centro delle loro piattaforme politiche, che hanno risuonato con le preoccupazioni di aleviti e curdi.
Nel contesto della Turchia degli anni Sessanta, caratterizzato da crescenti tensioni politiche e divisioni ideologiche, i partiti di sinistra erano spesso visti come i paladini del sottoproletariato, delle minoranze e dei gruppi emarginati. Ciò ha portato a una situazione in cui i partiti politici aleviti, pur rappresentando direttamente questa comunità, sono stati talvolta messi in ombra da partiti più ampi e affermati che affrontavano questioni più ampie di giustizia sociale e uguaglianza. Pertanto, la politica turca di questo periodo rifletteva una crescente diversità e complessità di identità e affiliazioni politiche, illustrando come le questioni dei diritti delle minoranze, della giustizia sociale e dell'identità giocassero un ruolo centrale nel panorama politico emergente della Turchia.
Gli aleviti di fronte all'estremismo e alla violenza negli anni '70 e '80
Gli anni '70 sono stati un periodo di grande tensione sociale e politica in Turchia, caratterizzato da una crescente polarizzazione e dall'emergere di gruppi estremisti. Durante questo periodo, l'estrema destra turca, rappresentata in parte da gruppi nazionalisti e ultranazionalisti, ha guadagnato visibilità e influenza. Questo aumento dell'estremismo ha avuto conseguenze tragiche, in particolare per le comunità minoritarie come gli aleviti. Gli aleviti, a causa delle loro credenze e pratiche diverse dall'Islam sunnita maggioritario, sono stati spesso presi di mira da gruppi ultranazionalisti e conservatori. Questi gruppi, alimentati da ideologie nazionaliste e talvolta settarie, hanno compiuto attacchi violenti contro le comunità alevite, compresi massacri e pogrom. Gli incidenti più noti sono i massacri di Maraş nel 1978 e di Çorum nel 1980. Questi eventi sono stati caratterizzati da estrema violenza, omicidi di massa e altre atrocità, tra cui scene di decapitazione e mutilazione. Questi attacchi non sono stati episodi isolati, ma parte di una più ampia tendenza alla violenza e alla discriminazione contro gli aleviti, che ha esacerbato le divisioni e le tensioni sociali in Turchia.
La violenza degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta ha contribuito all'instabilità che ha portato al colpo di Stato militare del 1980. Dopo il colpo di Stato, l'esercito ha instaurato un regime che ha represso molti gruppi politici, compresi quelli di estrema destra e di estrema sinistra, nel tentativo di ripristinare l'ordine e la stabilità. Tuttavia, i problemi di fondo della discriminazione e della tensione tra le diverse comunità sono rimasti, ponendo continue sfide alla coesione sociale e politica della Turchia. La situazione degli aleviti in Turchia è quindi un esempio toccante delle difficoltà affrontate dalle minoranze religiose ed etniche in un contesto di polarizzazione politica e di crescente estremismo. Evidenzia inoltre la necessità di un approccio inclusivo che rispetti i diritti di tutte le comunità per mantenere la pace sociale e l'unità nazionale.
Le tragedie di Sivas e Gazi negli anni '90
Gli anni '90 in Turchia hanno continuato ad essere caratterizzati da tensioni e violenze, in particolare contro la comunità alevita, che è stata oggetto di diversi tragici attacchi. Nel 1993, un evento particolarmente scioccante si verificò a Sivas, una città della Turchia centrale. Il 2 luglio 1993, durante il festival culturale Pir Sultan Abdal, un gruppo di intellettuali, artisti e scrittori aleviti, oltre agli spettatori, furono attaccati da una folla estremista. L'hotel Madımak, dove alloggiavano, fu dato alle fiamme, causando la morte di 37 persone. Questo incidente, noto come massacro di Sivas o tragedia di Madımak, è stato uno degli eventi più oscuri della storia moderna della Turchia e ha evidenziato la vulnerabilità degli aleviti all'estremismo e all'intolleranza religiosa. Due anni dopo, nel 1995, un altro violento incidente ebbe luogo nel quartiere Gazi di Istanbul, un'area con una vasta popolazione alevita. Violenti scontri sono scoppiati dopo che uno sconosciuto ha sparato nei caffè frequentati dagli aleviti, uccidendo una persona e ferendone molte altre. I giorni successivi sono stati segnati da disordini e scontri con la polizia, che hanno causato molte altre vittime.
Questi incidenti hanno esacerbato le tensioni tra la comunità alevita e lo Stato turco e hanno evidenziato la persistenza di pregiudizi e discriminazioni nei confronti degli aleviti. Hanno inoltre sollevato interrogativi sulla protezione delle minoranze in Turchia e sulla capacità dello Stato di garantire sicurezza e giustizia a tutti i suoi cittadini. Le violenze di Sivas e Gazi hanno segnato un punto di svolta nella consapevolezza della situazione degli aleviti in Turchia, portando a richieste più forti per il riconoscimento dei loro diritti e per una maggiore comprensione e rispetto della loro unica identità culturale e religiosa. Questi tragici eventi sono rimasti impressi nella memoria collettiva della Turchia e simboleggiano le sfide che il Paese deve affrontare in termini di diversità religiosa e coesistenza pacifica.
Gli aleviti sotto l'AKP: sfide e conflitti d'identità
Da quando il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), guidato da Recep Tayyip Erdoğan, è salito al potere nel 2002, la Turchia ha assistito a cambiamenti significativi nella sua politica nei confronti dell'Islam e delle minoranze religiose, compresa la comunità alevita. L'AKP, spesso percepito come un partito di orientamento islamista o conservatore, è stato criticato per aver favorito l'Islam sunnita, sollevando preoccupazioni tra le minoranze religiose, in particolare gli Aleviti. Sotto l'AKP, il governo ha rafforzato il ruolo della Diyanet (Presidenza degli Affari Religiosi), accusata di promuovere una versione sunnita dell'Islam. Ciò ha causato problemi alla comunità alevita, che pratica una forma di Islam nettamente diversa dal sunnismo dominante. Gli aleviti non si recano nelle moschee tradizionali per praticare il loro culto, ma utilizzano i "cemevi" per le loro cerimonie e riunioni religiose. Tuttavia, la Diyanet non riconosce ufficialmente i cemevi come luoghi di culto, il che è stato fonte di frustrazione e conflitto per gli aleviti. Anche la questione dell'assimilazione è fonte di preoccupazione per gli aleviti, poiché il governo è stato percepito come un tentativo di integrare tutte le comunità religiose ed etniche in un'identità turca sunnita omogenea. Questa politica ricorda gli sforzi di assimilazione dell'epoca kemalista, anche se le motivazioni e i contesti sono diversi.
Gli aleviti sono un gruppo etnicamente e linguisticamente diverso, con membri di lingua turca e curda. Sebbene la loro identità sia in gran parte definita dalla loro fede distinta, condividono anche aspetti culturali e linguistici con altri turchi e curdi. Tuttavia, la loro pratica religiosa unica e la loro storia di emarginazione li distingue all'interno della società turca. La situazione degli aleviti in Turchia dal 2002 riflette le continue tensioni tra lo Stato e le minoranze religiose. Solleva importanti interrogativi sulla libertà religiosa, sui diritti delle minoranze e sulla capacità dello Stato di accogliere la diversità in un contesto laico e democratico. Il modo in cui la Turchia gestisce questi problemi rimane un aspetto cruciale della sua politica interna e della sua immagine sulla scena internazionale.
Iran
Sfide e influenze esterne all'inizio del XX secolo
La storia della modernizzazione dell'Iran è un affascinante caso di studio di come le influenze esterne e le dinamiche interne possano plasmare il corso di un Paese. All'inizio del XX secolo, l'Iran (allora noto come Persia) ha affrontato molteplici sfide che sono culminate in un processo di modernizzazione autoritaria. Negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, in particolare nel 1907, l'Iran era sull'orlo dell'implosione. Il Paese aveva subito significative perdite territoriali e stava lottando con la debolezza amministrativa e militare. L'esercito iraniano, in particolare, non era in grado di gestire efficacemente l'influenza dello Stato o di proteggere i suoi confini dalle incursioni straniere. Questo difficile contesto era esacerbato dagli interessi contrastanti delle potenze imperialiste, in particolare della Gran Bretagna e della Russia. Nel 1907, nonostante le loro storiche rivalità, la Gran Bretagna e la Russia conclusero l'Intesa anglo-russa. In base a questo accordo, le due potenze condivisero le sfere di influenza in Iran, con la Russia che dominava il nord e la Gran Bretagna il sud. Questo accordo fu un tacito riconoscimento dei rispettivi interessi imperialistici nella regione ed ebbe un profondo impatto sulla politica iraniana.
L'Intesa anglo-russa non solo limitò la sovranità dell'Iran, ma ostacolò anche lo sviluppo di un forte potere centrale. La Gran Bretagna, in particolare, era reticente all'idea di un Iran centralizzato e potente che potesse minacciare i suoi interessi, soprattutto in termini di accesso al petrolio e di controllo delle rotte commerciali. Questo quadro internazionale ha rappresentato una sfida importante per l'Iran e ha influenzato il suo percorso di modernizzazione. L'esigenza di barcamenarsi tra gli interessi imperialistici stranieri e le necessità interne di riformare e rafforzare lo Stato ha portato a una serie di tentativi di modernizzazione, alcuni più autoritari di altri, nel corso del XX secolo. Questi sforzi culminarono nel periodo di regno di Reza Shah Pahlavi, che intraprese un ambizioso programma di modernizzazione e centralizzazione, spesso con mezzi autoritari, con l'obiettivo di trasformare l'Iran in uno Stato nazionale moderno.
Il colpo di Stato del 1921 e l'ascesa di Reza Khan
Il colpo di Stato del 1921 in Iran, guidato da Reza Khan (poi Reza Shah Pahlavi), fu una svolta decisiva nella storia moderna del Paese. Reza Khan, un ufficiale militare, prese il controllo del governo in un contesto di debolezza e instabilità politica, con l'ambizione di accentrare il potere e modernizzare l'Iran. Dopo il colpo di Stato, Reza Khan intraprese una serie di riforme volte a rafforzare lo Stato e a consolidare il suo potere. Creò un governo centralizzato, riorganizzò l'amministrazione e modernizzò l'esercito. Queste riforme erano essenziali per creare una struttura statale forte ed efficace in grado di promuovere lo sviluppo e la modernizzazione del Paese. Un aspetto fondamentale del consolidamento del potere di Reza Khan fu la negoziazione di accordi con le potenze straniere, in particolare con la Gran Bretagna, che aveva importanti interessi economici e strategici in Iran. La questione del petrolio era particolarmente cruciale, poiché l'Iran aveva un notevole potenziale petrolifero e il controllo e lo sfruttamento di questa risorsa erano al centro della posta in gioco geopolitica.
Reza Khan riuscì a navigare in queste acque complesse, trovando un equilibrio tra la cooperazione con le potenze straniere e la protezione della sovranità iraniana. Anche se dovette fare delle concessioni, in particolare sullo sfruttamento del petrolio, il suo governo si adoperò per garantire che l'Iran ricevesse una quota più equa dei proventi petroliferi e per limitare l'influenza diretta dell'estero negli affari interni del Paese. Nel 1925, Reza Khan fu incoronato Reza Shah Pahlavi, diventando il primo scià della dinastia Pahlavi. Sotto il suo regno, l'Iran subì trasformazioni radicali, tra cui la modernizzazione dell'economia, la riforma dell'istruzione, l'occidentalizzazione delle norme sociali e culturali e una politica di industrializzazione. Queste riforme, sebbene spesso attuate in modo autoritario, segnarono l'ingresso dell'Iran nell'era moderna e gettarono le basi per il successivo sviluppo del Paese.
L'era di Reza Shah Pahlavi: modernizzazione e centralizzazione
L'avvento di Reza Shah Pahlavi in Iran nel 1925 segnò un cambiamento radicale nel panorama politico e sociale del Paese. Dopo la caduta della dinastia Kadjar, Reza Shah, ispirato dalle riforme di Mustafa Kemal Atatürk in Turchia, avviò una serie di profonde trasformazioni volte a modernizzare l'Iran e a trasformarlo in uno Stato nazionale potente e centralizzato. Il suo regno fu caratterizzato da una modernizzazione autoritaria, con una forte concentrazione del potere e riforme imposte dall'alto. La centralizzazione del potere fu un passo cruciale: Reza Shah cercò di eliminare i tradizionali poteri intermedi, come i capi tribù e i notabili locali. Questo consolidamento dell'autorità aveva lo scopo di rafforzare il governo centrale e di garantire un controllo più stretto sul Paese nel suo complesso. Nell'ambito dei suoi sforzi di modernizzazione, introdusse anche il sistema metrico decimale, modernizzò le reti di trasporto con la costruzione di nuove strade e ferrovie e attuò riforme culturali e dell'abbigliamento per allineare l'Iran agli standard occidentali.
Reza Shah promosse anche un forte nazionalismo, esaltando il passato imperiale persiano e la lingua persiana. L'esaltazione del passato dell'Iran aveva lo scopo di creare un senso di unità nazionale e di identità comune tra la variegata popolazione iraniana. Tuttavia, queste riforme ebbero un costo elevato in termini di libertà individuali. Il regime di Reza Shah è stato caratterizzato dalla censura, dalla repressione della libertà di espressione e del dissenso politico e dal rigido controllo dell'apparato politico. Sul fronte legislativo, furono introdotti codici civili e penali moderni e furono imposte riforme dell'abbigliamento per modernizzare l'aspetto della popolazione. Sebbene queste riforme abbiano contribuito alla modernizzazione dell'Iran, sono state attuate in modo autoritario, senza una significativa partecipazione democratica, il che ha gettato i semi di future tensioni. Il periodo di Reza Shah è stato quindi un'epoca di contraddizioni in Iran. Da un lato, ha rappresentato un significativo balzo in avanti nella modernizzazione e nella centralizzazione del Paese. Dall'altro, ha posto le basi per futuri conflitti a causa del suo approccio autoritario e dell'assenza di canali per la libera espressione politica. Questo periodo è stato quindi decisivo per la storia moderna dell'Iran e ha plasmato la sua traiettoria politica, sociale ed economica per i decenni a venire.
Cambio di nome: dalla Persia all'Iran
Il cambio di nome da Persia a Iran nel dicembre 1934 è un esempio affascinante di come la politica internazionale e le influenze ideologiche possano plasmare l'identità nazionale di un Paese. Sotto il regno di Reza Shah Pahlavi, la Persia, che era stato il nome storico e occidentale del Paese, divenne ufficialmente Iran, un termine che era stato a lungo utilizzato all'interno del Paese e che significa "terra degli ariani". Il cambio di nome fu in parte un tentativo di rafforzare i legami con l'Occidente e di enfatizzare l'eredità ariana della nazione, sullo sfondo dell'emergere di ideologie nazionaliste e razziali in Europa. All'epoca, la propaganda nazista aveva una certa risonanza in diversi Paesi del Medio Oriente, tra cui l'Iran. Reza Shah, cercando di controbilanciare l'influenza britannica e sovietica in Iran, vedeva nella Germania nazista un potenziale alleato strategico. Tuttavia, la sua politica di avvicinamento alla Germania suscitò la preoccupazione degli Alleati, in particolare della Gran Bretagna e dell'Unione Sovietica, che temevano una collaborazione dell'Iran con la Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale.
A causa di queste preoccupazioni e del ruolo strategico dell'Iran come via di transito per i rifornimenti alle forze sovietiche, il Paese divenne un punto focale della guerra. Nel 1941, le forze britanniche e sovietiche invasero l'Iran, costringendo Reza Shah ad abdicare in favore del figlio Mohammed Reza Pahlavi. Mohammed Reza, ancora giovane e inesperto, salì al trono in un contesto di tensioni internazionali e di presenza militare straniera. L'invasione e l'occupazione alleata dell'Iran ebbero un profondo impatto sul Paese, accelerando la fine della politica di neutralità di Reza Shah e inaugurando una nuova era nella storia iraniana. Sotto Mohammed Reza Shah, l'Iran sarebbe diventato un alleato chiave dell'Occidente durante la Guerra Fredda, anche se ciò sarebbe stato accompagnato da sfide interne e tensioni politiche che sarebbero culminate nella Rivoluzione iraniana del 1979.
La nazionalizzazione del petrolio e la caduta di Mossadegh
L'episodio della nazionalizzazione del petrolio in Iran e la caduta di Mohammad Mossadegh nel 1953 costituiscono un capitolo cruciale della storia del Medio Oriente e rivelano le dinamiche di potere e gli interessi geopolitici durante la Guerra Fredda. Nel 1951, Mohammad Mossadegh, un politico nazionalista eletto Primo Ministro, compì l'audace passo di nazionalizzare l'industria petrolifera iraniana, allora controllata dalla britannica Anglo-Iranian Oil Company (AIOC, oggi BP). Mossadegh riteneva che il controllo delle risorse naturali del Paese, in particolare del petrolio, fosse essenziale per l'indipendenza economica e politica dell'Iran. La decisione di nazionalizzare il petrolio fu estremamente popolare in Iran, ma provocò anche una crisi internazionale. Il Regno Unito, perdendo il suo accesso privilegiato alle risorse petrolifere iraniane, cercò di ostacolare la mossa con mezzi diplomatici ed economici, tra cui l'imposizione di un embargo sul petrolio. Di fronte all'impasse con l'Iran e non potendo risolvere la situazione con mezzi convenzionali, il governo britannico chiese aiuto agli Stati Uniti. Inizialmente riluttanti, gli Stati Uniti si lasciarono convincere, in parte a causa delle crescenti tensioni della Guerra Fredda e dei timori di un'influenza comunista in Iran.
Nel 1953, la CIA, con il sostegno dell'MI6 britannico, lanciò l'Operazione Ajax, un colpo di Stato che portò alla destituzione di Mossadegh e al rafforzamento del potere dello Scià, Mohammad Reza Pahlavi. Questo colpo di Stato segnò una svolta decisiva nella storia dell'Iran, rafforzando la monarchia e aumentando l'influenza occidentale, in particolare quella degli Stati Uniti, in Iran. Tuttavia, l'intervento straniero e la soppressione delle aspirazioni nazionaliste e democratiche crearono anche un profondo risentimento in Iran, che avrebbe contribuito alle tensioni politiche interne e, infine, alla rivoluzione iraniana del 1979. L'Operazione Ajax è spesso citata come un classico esempio dell'interventismo della Guerra Fredda e delle sue conseguenze a lungo termine, non solo per l'Iran, ma per l'intera regione mediorientale.
L'evento del 1953 in Iran, segnato dalla destituzione del Primo Ministro Mohammad Mossadegh, è stato un periodo cruciale che ha avuto un profondo impatto sullo sviluppo politico del Paese. Mossadegh, sebbene eletto democraticamente ed estremamente popolare per le sue politiche nazionaliste, in particolare per la nazionalizzazione dell'industria petrolifera iraniana, fu rovesciato a seguito di un colpo di Stato orchestrato dalla CIA americana e dall'MI6 britannico, noto come Operazione Ajax.
La "rivoluzione bianca" dello scià Mohammad Reza Pahlavi
Dopo la partenza di Mossadegh, lo scià Mohammad Reza Pahlavi consolidò il suo potere e divenne sempre più autoritario. Lo scià, sostenuto dagli Stati Uniti e da altre potenze occidentali, lanciò un ambizioso programma di modernizzazione e sviluppo in Iran. Questo programma, noto come "Rivoluzione Bianca", fu avviato nel 1963 e mirava a trasformare rapidamente l'Iran in una nazione moderna e industrializzata. Le riforme dello Scià comprendevano la ridistribuzione delle terre, una massiccia campagna di alfabetizzazione, la modernizzazione economica, l'industrializzazione e la concessione del diritto di voto alle donne. Queste riforme avrebbero dovuto rafforzare l'economia iraniana, ridurre la dipendenza dal petrolio e migliorare le condizioni di vita dei cittadini iraniani. Tuttavia, il regno dello Scià fu anche caratterizzato da un rigido controllo politico e dalla repressione del dissenso. La polizia segreta dello scià, il SAVAK, creata con l'aiuto di Stati Uniti e Israele, era nota per la sua brutalità e le sue tattiche repressive. La mancanza di libertà politiche, la corruzione e la crescente disuguaglianza sociale portarono a un diffuso malcontento tra la popolazione iraniana. Sebbene lo scià sia riuscito a compiere alcuni progressi in termini di modernizzazione e sviluppo, la mancanza di riforme politiche democratiche e la repressione delle voci di opposizione hanno contribuito all'alienazione di ampi segmenti della società iraniana. Questa situazione ha spianato la strada alla Rivoluzione iraniana del 1979, che ha rovesciato la monarchia e istituito la Repubblica islamica dell'Iran.
Rafforzamento dei legami con l'Occidente e impatto sociale
Dal 1955, sotto la guida dello scià Mohammad Reza Pahlavi, l'Iran ha cercato di rafforzare i suoi legami con l'Occidente, in particolare con gli Stati Uniti, nel contesto della guerra fredda. L'adesione dell'Iran al Patto di Baghdad nel 1955 è stato un elemento chiave di questo orientamento strategico. Questo patto, che comprendeva anche Iraq, Turchia, Pakistan e Regno Unito, era un'alleanza militare volta a contenere l'espansione del comunismo sovietico in Medio Oriente. Nell'ambito del suo riavvicinamento all'Occidente, lo Scià lanciò la "Rivoluzione Bianca", un insieme di riforme volte a modernizzare l'Iran. Queste riforme, largamente influenzate dal modello americano, includevano cambiamenti nei modelli di produzione e consumo, riforma agraria, campagna di alfabetizzazione e iniziative per promuovere l'industrializzazione e lo sviluppo economico. Lo stretto coinvolgimento degli Stati Uniti nel processo di modernizzazione dell'Iran era anche simboleggiato dalla presenza di esperti e consulenti americani sul territorio iraniano. Questi esperti godettero spesso di privilegi e immunità, che diedero origine a tensioni in vari settori della società iraniana, in particolare tra i circoli religiosi e i nazionalisti.
Le riforme dello scià, se da un lato hanno portato alla modernizzazione economica e sociale, dall'altro sono state percepite da molti come una forma di americanizzazione e un'erosione dei valori e delle tradizioni iraniane. Questa percezione era esacerbata dalla natura autoritaria del regime dello scià e dall'assenza di libertà politiche e di partecipazione popolare. La presenza e l'influenza americana in Iran, così come le riforme della "Rivoluzione Bianca", hanno alimentato un crescente risentimento, soprattutto negli ambienti religiosi. I leader religiosi, guidati dall'ayatollah Khomeini, hanno iniziato ad esprimere un'opposizione sempre più forte allo scià, criticandolo per la sua dipendenza dagli Stati Uniti e per il suo allontanamento dai valori islamici. Questa opposizione ebbe un ruolo fondamentale nella mobilitazione che portò alla Rivoluzione iraniana del 1979.
Le riforme della "Rivoluzione Bianca" in Iran, avviate dallo scià Mohammad Reza Pahlavi negli anni Sessanta, comprendevano un'importante riforma agraria che ebbe un profondo impatto sulla struttura sociale ed economica del Paese. L'obiettivo di questa riforma era quello di modernizzare l'agricoltura iraniana e ridurre la dipendenza del Paese dalle esportazioni di petrolio, migliorando al contempo le condizioni di vita dei contadini. La riforma agraria ha interrotto le pratiche tradizionali, in particolare quelle legate all'Islam, come le offerte degli imam. Ha invece favorito un approccio all'economia di mercato, con l'obiettivo di aumentare la produttività e stimolare lo sviluppo economico. La terra è stata ridistribuita, riducendo il potere dei grandi proprietari terrieri e delle élite religiose che controllavano vasti appezzamenti di terreno agricolo. Tuttavia, questa riforma, insieme ad altre iniziative di modernizzazione, è stata portata avanti in modo autoritario e dall'alto, senza alcuna consultazione o partecipazione significativa della popolazione. Anche la repressione dell'opposizione, compresi i gruppi di sinistra e comunisti, è stata una caratteristica del regime dello scià. La SAVAK, la polizia segreta dello scià, era tristemente nota per i suoi metodi brutali e la sua ampia sorveglianza.
L'approccio autoritario dello scià, unito all'impatto economico e sociale delle riforme, creò un crescente malcontento tra vari segmenti della società iraniana. Chierici sciiti, nazionalisti, comunisti, intellettuali e altri gruppi trovarono un terreno comune nell'opposizione al regime. Col tempo, questa opposizione disparata si consolidò in un movimento sempre più coordinato. La rivoluzione iraniana del 1979 può essere vista come il risultato di questa convergenza di opposizioni. La repressione dello scià, la percezione dell'influenza straniera, le riforme economiche dirompenti e l'emarginazione dei valori tradizionali e religiosi crearono un terreno fertile per una rivolta popolare. Questa rivoluzione ha infine rovesciato la monarchia e istituito la Repubblica islamica dell'Iran, segnando una svolta radicale nella storia del Paese.
La celebrazione del 2.500° anniversario dell'Impero persiano nel 1971, organizzata dallo scià Mohammad Reza Pahlavi, fu un evento monumentale volto a sottolineare la grandezza e la continuità storica dell'Iran. Questa sontuosa celebrazione, che ebbe luogo a Persepoli, l'antica capitale dell'Impero achemenide, aveva lo scopo di stabilire un legame tra il regime dello scià e la gloriosa storia imperiale della Persia. Nell'ambito del suo sforzo di rafforzare l'identità nazionale iraniana e di evidenziare le sue radici storiche, Mohammad Reza Shah apportò una modifica significativa al calendario iraniano. Il calendario islamico, basato sull'Egira (la migrazione del profeta Maometto dalla Mecca a Medina), fu sostituito da un calendario imperiale che iniziava con la fondazione dell'Impero achemenide da parte di Ciro il Grande nel 559 a.C..
Tuttavia, questo cambiamento di calendario è stato controverso ed è stato visto da molti come un tentativo da parte dello scià di sminuire l'importanza dell'Islam nella storia e nella cultura iraniana a favore della glorificazione del passato imperiale pre-islamico. Ciò rientrava nelle politiche di modernizzazione e secolarizzazione dello scià, ma alimentò anche il malcontento dei gruppi religiosi e di coloro che erano legati alle tradizioni islamiche. Pochi anni dopo, in seguito alla Rivoluzione iraniana del 1979, l'Iran tornò a utilizzare il calendario islamico. La rivoluzione, guidata dall'ayatollah Khomeini, rovesciò la monarchia Pahlavi e istituì la Repubblica islamica dell'Iran, segnando un profondo rifiuto delle politiche e dello stile di governo dello scià, compresi i suoi tentativi di promuovere un nazionalismo basato sulla storia pre-islamica dell'Iran. La questione del calendario e la celebrazione del 2.500° anniversario dell'Impero persiano sono esempi di come la storia e la cultura possano essere mobilitate in politica e di come tali azioni possano avere un impatto significativo sulle dinamiche sociali e politiche di un Paese.
La Rivoluzione iraniana del 1979 e il suo impatto
La Rivoluzione iraniana del 1979 è un evento epocale nella storia contemporanea, non solo per l'Iran ma anche per la geopolitica globale. La rivoluzione vide il crollo della monarchia dello scià Mohammad Reza Pahlavi e l'istituzione di una Repubblica islamica sotto la guida dell'ayatollah Rouhollah Khomeini. Negli anni precedenti la rivoluzione, l'Iran fu scosso da massicce manifestazioni e disordini popolari. Queste proteste erano motivate da una moltitudine di rimostranze contro lo scià, tra cui le sue politiche autoritarie, la corruzione percepita e la dipendenza dall'Occidente, la repressione politica e le disuguaglianze sociali ed economiche esacerbate dalle politiche di rapida modernizzazione. Inoltre, la malattia e l'incapacità dello scià di rispondere efficacemente alle crescenti richieste di riforme politiche e sociali contribuirono a un generale senso di malcontento e disillusione.
Nel gennaio 1979, di fronte all'intensificarsi dei disordini, lo scià lasciò l'Iran e andò in esilio. Poco dopo, l'ayatollah Khomeini, leader spirituale e politico della rivoluzione, tornò in Iran dopo 15 anni di esilio. Khomeini era una figura carismatica e rispettata, la cui opposizione alla monarchia Pahlavi e il cui appello per uno Stato islamico avevano ottenuto un ampio sostegno tra vari segmenti della società iraniana. Quando Khomeini arrivò in Iran, fu accolto da milioni di sostenitori. Poco dopo, le forze armate iraniane dichiararono la loro neutralità, un chiaro segno che il regime dello Scià era stato irrimediabilmente indebolito. Khomeini prese rapidamente le redini del potere, dichiarando la fine della monarchia e istituendo un governo provvisorio.
La Rivoluzione iraniana portò alla creazione della Repubblica islamica dell'Iran, uno Stato teocratico basato sui principi dell'Islam sciita e guidato da chierici religiosi. Khomeini divenne la Guida suprema dell'Iran, una posizione che gli diede un notevole potere sugli aspetti politici e religiosi dello Stato. La rivoluzione non solo trasformò l'Iran, ma ebbe anche un impatto significativo sulla politica regionale e internazionale, in particolare intensificando le tensioni tra Iran e Stati Uniti e influenzando i movimenti islamisti in altre parti del mondo musulmano.
La Rivoluzione iraniana del 1979 ha attirato l'attenzione di tutto il mondo ed è stata sostenuta da diversi gruppi, tra cui alcuni intellettuali occidentali che l'hanno vista come un movimento di liberazione o una rinascita spirituale e politica. Tra questi, il filosofo francese Michel Foucault è stato particolarmente noto per i suoi scritti e commenti sulla rivoluzione. Foucault, noto per le sue analisi critiche delle strutture di potere e della governance, era interessato alla Rivoluzione iraniana come a un evento significativo che sfidava le norme politiche e sociali contemporanee. Era affascinato dall'aspetto popolare e spirituale della rivoluzione, considerandola una forma di resistenza politica che andava oltre le tradizionali categorie occidentali di destra e sinistra. Tuttavia, la sua posizione è stata fonte di controversie e dibattiti, non da ultimo per la natura della Repubblica islamica emersa dopo la rivoluzione.
La Rivoluzione iraniana ha portato all'istituzione di una teocrazia sciita, in cui i principi della governance islamica, basati sulla legge sciita (Sharia), sono stati integrati nelle strutture politiche e legali dello Stato. Sotto la guida dell'ayatollah Khomeini, il nuovo regime ha istituito una struttura politica unica, nota come "Velayat-e Faqih" (la tutela del giurista islamico), in cui un'autorità religiosa suprema, la Guida suprema, detiene un potere considerevole. La transizione dell'Iran verso una teocrazia ha portato a profondi cambiamenti in tutti gli aspetti della società iraniana. Sebbene la rivoluzione abbia inizialmente goduto del sostegno di vari gruppi, tra cui nazionalisti, sinistra e liberali, oltre che dei chierici, gli anni successivi hanno visto un consolidamento del potere nelle mani dei chierici sciiti e una crescente repressione degli altri gruppi politici. La natura della Repubblica islamica, con il suo mix di teocrazia e democrazia, ha continuato a essere oggetto di dibattito e analisi, sia all'interno dell'Iran che a livello internazionale. La rivoluzione ha trasformato profondamente l'Iran e ha avuto un impatto duraturo sulla politica regionale e globale, ridefinendo il rapporto tra religione, politica e potere.
La guerra Iran-Iraq e i suoi effetti sulla Repubblica islamica
L'invasione dell'Iran da parte dell'Iraq nel 1980, sotto il regime di Saddam Hussein, ha avuto un ruolo paradossale nel consolidamento della Repubblica islamica dell'Iran. Questo conflitto, noto come guerra Iran-Iraq, durò dal settembre 1980 all'agosto 1988 e fu uno dei più lunghi e sanguinosi del XX secolo. All'epoca dell'attacco all'Iraq, la Repubblica islamica dell'Iran era ancora agli inizi, dopo la rivoluzione del 1979 che aveva rovesciato la monarchia Pahlavi. Il regime iraniano, guidato dall'ayatollah Khomeini, stava consolidando il suo potere, ma si trovava ad affrontare tensioni e sfide interne significative. L'invasione irachena ebbe un effetto unificante in Iran, rafforzando il sentimento nazionale e il sostegno al regime islamico. Di fronte a una minaccia esterna, il popolo iraniano, compresi molti gruppi precedentemente in contrasto con il governo, si è riunito intorno alla difesa nazionale. La guerra ha anche permesso al regime di Khomeini di rafforzare la sua presa sul Paese, mobilitando la popolazione sotto la bandiera della difesa della Repubblica islamica e dell'Islam sciita. La guerra Iran-Iraq ha anche rafforzato l'importanza del potere religioso in Iran. Il regime ha utilizzato la retorica religiosa per mobilitare la popolazione e legittimare le proprie azioni, basandosi sul concetto di "difesa dell'Islam" per unire iraniani di diverse convinzioni politiche e sociali.
La Repubblica islamica dell'Iran non è stata formalmente proclamata, ma è emersa dalla rivoluzione islamica del 1979. La nuova costituzione iraniana, adottata dopo la rivoluzione, ha stabilito una struttura politica teocratica unica, con i principi e i valori islamici sciiti al centro del sistema di governo. Il secolarismo non è una caratteristica della costituzione iraniana, che invece fonde la governance religiosa e politica sotto la dottrina del "Velayat-e Faqih" (la tutela del giurista islamico).
L'Égypte
L'Égypte Antique et ses Successions
L'Égypte, avec son histoire riche et complexe, est un berceau de civilisations anciennes et a connu une succession de dominations au fil des siècles. La région qui constitue aujourd'hui l'Égypte a été le centre de l'une des premières et des plus grandes civilisations de l'histoire, avec des racines remontant à l'ancienne Égypte pharaonique. Au fil du temps, l'Égypte a été sous l'influence de divers empires et puissances. Après l'époque pharaonique, elle a été successivement sous domination perse, grecque (après la conquête d'Alexandre le Grand), et romaine. Chacune de ces périodes a laissé une empreinte durable sur l'histoire et la culture de l'Égypte. La conquête arabe de l'Égypte, qui a débuté en 639, a marqué un tournant dans l'histoire du pays. L'invasion arabe a conduit à l'islamisation et à l'arabisation de l'Égypte, transformant profondément la société et la culture égyptiennes. L'Égypte est devenue une partie intégrante du monde islamique, un statut qu'elle conserve jusqu'à aujourd'hui.
En 1517, l'Égypte est tombée sous le contrôle de l'Empire ottoman après la prise du Caire. Sous la domination ottomane, l'Égypte a conservé une certaine autonomie locale, mais elle était également liée aux fortunes politiques et économiques de l'Empire ottoman. Cette période a duré jusqu'au début du 19ème siècle, lorsque l'Égypte a commencé à s'orienter vers une modernisation et une indépendance accrues sous des leaders comme Muhammad Ali Pacha, souvent considéré comme le fondateur de l'Égypte moderne. L'histoire de l'Égypte est donc celle d'un carrefour de civilisations, de cultures et d'influences, ce qui a façonné le pays en une nation unique avec une identité riche et diversifiée. Chaque période de son histoire a contribué à la construction de l'Égypte contemporaine, un État qui joue un rôle clé dans le monde arabe et dans la politique internationale.
Au 18ème siècle, l'Égypte est devenue un territoire d'intérêt stratégique pour les puissances européennes, en particulier la Grande-Bretagne, en raison de son emplacement géographique crucial et de son contrôle sur la route vers l'Inde. L'intérêt britannique pour l'Égypte s'est accru avec l'importance croissante du commerce maritime et la nécessité de routes commerciales sécurisées.
Mehmet Ali et les Réformes Modernisatrices
La Nahda, ou la Renaissance arabe, a été un mouvement culturel, intellectuel et politique majeur qui a pris racine en Égypte au 19ème siècle, notamment sous le règne de Mehmet Ali, souvent considéré comme le fondateur de l'Égypte moderne. Mehmet Ali, d'origine albanaise, a été nommé gouverneur de l'Égypte par les Ottomans en 1805 et a rapidement entrepris de moderniser le pays. Ses réformes comprenaient la modernisation de l'armée, l'introduction de nouvelles méthodes agricoles, l'expansion de l'industrie, et l'établissement d'un système éducatif moderne. La Nahda en Égypte a coïncidé avec un mouvement culturel et intellectuel plus large dans le monde arabe, caractérisé par un renouveau littéraire, scientifique et intellectuel. En Égypte, ce mouvement a été stimulé par les réformes de Mehmet Ali et par l'ouverture du pays aux influences européennes.
Ibrahim Pacha, le fils de Mehmet Ali, a également joué un rôle important dans l'histoire égyptienne. Sous son commandement, les forces égyptiennes ont réalisé plusieurs campagnes militaires réussies, étendant l'influence égyptienne bien au-delà de ses frontières traditionnelles. Dans les années 1830, les troupes égyptiennes ont même contesté l'Empire ottoman, ce qui a conduit à une crise internationale impliquant les grandes puissances européennes. L'expansionnisme de Mehmet Ali et d'Ibrahim Pacha a été un défi direct à l'autorité ottomane et a marqué l'Égypte comme un acteur politique et militaire significatif dans la région. Cependant, l'intervention des puissances européennes, en particulier la Grande-Bretagne et la France, a finalement limité les ambitions égyptiennes, préfigurant le rôle accru que ces puissances joueraient dans la région au 19ème et au début du 20ème siècle.
L'ouverture du canal de Suez en 1869 a marqué un moment décisif dans l'histoire de l'Égypte, augmentant de manière significative son importance stratégique sur la scène internationale. Ce canal, reliant la mer Méditerranée à la mer Rouge, a révolutionné le commerce maritime en réduisant considérablement la distance entre l'Europe et l'Asie. L'Égypte s'est ainsi retrouvée au centre des routes commerciales mondiales, attirant l'attention des grandes puissances impérialistes, en particulier la Grande-Bretagne. Cependant, en parallèle à cette avancée, l'Égypte a fait face à des défis économiques considérables. Les coûts de construction du canal de Suez et d'autres projets de modernisation ont conduit le gouvernement égyptien à contracter de lourdes dettes auprès de pays européens, principalement la France et la Grande-Bretagne. L'incapacité de l'Égypte à rembourser ces emprunts a eu des conséquences politiques et économiques majeures.
Le Protectorat Britannique et les Luttes pour l'Indépendance
Dès 1876, en raison de la crise de la dette, une commission de contrôle franco-britannique a été mise en place pour superviser les finances de l'Égypte. Cette commission a pris une part importante dans l'administration du pays, réduisant de fait l'autonomie et la souveraineté de l'Égypte. Cette ingérence étrangère a provoqué un mécontentement croissant parmi la population égyptienne, en particulier dans les classes populaires, qui souffraient des effets économiques des réformes et du remboursement de la dette. La situation s'est encore aggravée dans les années 1880. En 1882, après plusieurs années de tension croissante et de désordre intérieur, notamment la révolte nationaliste d'Ahmed Urabi, la Grande-Bretagne a effectué une intervention militaire et a établi un protectorat de facto sur l'Égypte. Bien que l'Égypte soit officiellement restée une partie de l'Empire ottoman jusqu'à la fin de la Première Guerre mondiale, elle était en réalité sous contrôle britannique. La présence britannique en Égypte a été justifiée par la nécessité de protéger les intérêts britanniques, notamment le canal de Suez, crucial pour la route maritime vers l'Inde, la "jewel in the crown" de l'Empire britannique. Cette période de domination britannique a eu un impact profond sur l'Égypte, façonnant son développement politique, économique et social, et semant les graines du nationalisme égyptien qui mènerait finalement à la révolution de 1952 et à l'indépendance formelle du pays.
La Première Guerre mondiale a accentué l'importance stratégique du canal de Suez pour les puissances belligérantes, en particulier pour la Grande-Bretagne. Le canal était vital pour les intérêts britanniques, car il constituait la route maritime la plus rapide vers ses colonies en Asie, notamment l'Inde, qui était alors un élément crucial de l'Empire britannique. Avec le déclenchement de la Première Guerre mondiale en 1914, la nécessité de sécuriser le canal de Suez contre d'éventuelles attaques ou interférences de la part des Puissances centrales (notamment l'Empire ottoman, allié à l'Allemagne) est devenue une priorité pour la Grande-Bretagne. En réponse à ces préoccupations stratégiques, les Britanniques ont décidé de renforcer leur emprise sur l'Égypte. En 1914, la Grande-Bretagne a officiellement proclamé un protectorat sur l'Égypte, remplaçant ainsi nominalement la suzeraineté de l'Empire ottoman par un contrôle britannique direct. Cette proclamation a marqué la fin de la domination nominale ottomane sur l'Égypte, qui avait existé depuis 1517, et a établi une administration coloniale britannique dans le pays.
Le protectorat britannique a impliqué une ingérence directe dans les affaires intérieures de l'Égypte et a renforcé le contrôle militaire et politique britannique sur le pays. Bien que les Britanniques aient justifié cette mesure comme nécessaire pour la défense de l'Égypte et du canal de Suez, elle a été largement perçue par les Égyptiens comme une violation de leur souveraineté et a alimenté le sentiment nationaliste en Égypte. La période de la Première Guerre mondiale a été marquée par des difficultés économiques et sociales en Égypte, exacerbées par les exigences de l'effort de guerre britannique et par les restrictions imposées par l'administration coloniale. Ces conditions ont contribué à l'émergence d'un mouvement nationaliste égyptien plus fort, qui a finalement mené à des révoltes et à la lutte pour l'indépendance dans les années suivant la guerre.
Le Mouvement Nationaliste et la Quête de l'Indépendance
L'après-Première Guerre mondiale en Égypte a été une période de tensions croissantes et de revendications nationalistes. Les Égyptiens, qui avaient subi les rigueurs de la guerre, notamment les corvées et les famines dues à la réquisition des ressources par les Britanniques, ont commencé à exiger leur indépendance et une reconnaissance de leurs efforts de guerre.
La fin de la Première Guerre mondiale avait créé un climat mondial où les idées d'autodétermination et de fin des empires coloniaux gagnaient du terrain, en partie grâce aux Quatorze Points du président américain Woodrow Wilson, qui appelaient à de nouveaux principes de gouvernance internationale et au droit des peuples à l'autodétermination. En Égypte, ce climat a conduit à la formation d'un mouvement nationaliste, incarné par le Wafd (qui signifie "délégation" en arabe). Le Wafd était dirigé par Saad Zaghloul, qui est devenu le porte-parole des aspirations nationalistes égyptiennes. En 1919, Zaghloul et d'autres membres du Wafd ont cherché à se rendre à la Conférence de paix de Paris pour présenter le cas de l'indépendance égyptienne. Cependant, la tentative de la délégation égyptienne de se rendre à Paris a été entravée par les autorités britanniques. Zaghloul et ses compagnons ont été arrêtés et exilés à Malte par les Britanniques, ce qui a déclenché des manifestations et des émeutes massives en Égypte, connues sous le nom de Révolution de 1919. Cette révolution a été un soulèvement populaire majeur, avec une participation massive des Égyptiens de tous les milieux, et elle a marqué un tournant décisif dans la lutte pour l'indépendance égyptienne.
L'exil forcé de Zaghloul et la réponse répressive des Britanniques ont galvanisé le mouvement nationaliste en Égypte et ont accru la pression sur la Grande-Bretagne pour qu'elle reconnaisse l'indépendance égyptienne. En fin de compte, la crise a conduit à la reconnaissance partielle de l'indépendance de l'Égypte en 1922 et à la fin formelle du protectorat britannique en 1936, bien que l'influence britannique en Égypte soit restée significative jusqu'à la révolution de 1952. Le Wafd est devenu un acteur politique majeur en Égypte, jouant un rôle crucial dans la vie politique égyptienne dans les décennies suivantes, et Saad Zaghloul est resté une figure emblématique du nationalisme égyptien.
Le mouvement révolutionnaire nationaliste en Égypte, renforcé par la Révolution de 1919 et le leadership du Wafd sous Saad Zaghloul, a exercé une pression croissante sur la Grande-Bretagne pour qu'elle reconsidère sa position en Égypte. En réponse à cette pression et aux réalités politiques changeantes après la Première Guerre mondiale, la Grande-Bretagne a proclamé en 1922 la fin de son protectorat sur l'Égypte. Cependant, cette "indépendance" était fortement conditionnée et limitée. En effet, bien que la déclaration d'indépendance ait marqué un pas vers la souveraineté égyptienne, elle comportait plusieurs réserves importantes qui maintenaient l'influence britannique en Égypte. Parmi ces réserves figuraient le maintien de la présence militaire britannique autour du canal de Suez, crucial pour les intérêts stratégiques et commerciaux britanniques, et le contrôle du Soudan, source vitale du Nil et enjeu géopolitique majeur.
Dans ce contexte, le sultan Fouad, qui était sultan d'Égypte depuis 1917, a profité de la fin du protectorat pour se proclamer roi Fouad Ier en 1922, établissant ainsi la monarchie égyptienne indépendante. Cependant, sa règne a été caractérisé par des liens étroits avec la Grande-Bretagne. Fouad Ier, tout en acceptant formellement l'indépendance, a souvent agi en collaboration étroite avec les autorités britanniques, ce qui a suscité des critiques parmi les nationalistes égyptiens qui le percevaient comme un monarque soumis aux intérêts britanniques. La période suivant la déclaration d'indépendance en 1922 a donc été une période de transition et de tension en Égypte, avec des luttes politiques internes sur la direction du pays et le degré réel d'indépendance par rapport à la Grande-Bretagne. Cette situation a posé les bases des conflits politiques futurs en Égypte, y compris la révolution de 1952 qui a renversé la monarchie et a établi la République arabe d'Égypte.
La fondation des Frères Musulmans en Égypte en 1928 par Hassan al-Banna est un événement majeur dans l'histoire sociale et politique du pays. Ce mouvement a été créé dans un contexte d'insatisfaction croissante face à la modernisation rapide et à l'influence occidentale en Égypte, ainsi que face à la perception d'une dégradation des valeurs et des traditions islamiques. Les Frères Musulmans se sont positionnés comme un mouvement islamiste cherchant à promouvoir un retour aux principes islamiques dans tous les aspects de la vie. Ils prônaient une société régie par les lois et les principes islamiques, en opposition à ce qu'ils percevaient comme une occidentalisation excessive et une perte d'identité culturelle islamique. Le mouvement a rapidement gagné en popularité, devenant une force sociale et politique influente en Égypte. Parallèlement à l'émergence de mouvements comme les Frères Musulmans, l'Égypte a connu une période d'instabilité politique dans les années 1920 et 1930. Cette instabilité, combinée à la montée des puissances fascistes en Europe, a créé un contexte international préoccupant pour la Grande-Bretagne.
Dans ce contexte, la Grande-Bretagne a cherché à consolider son influence en Égypte tout en reconnaissant la nécessité de faire des concessions en matière d'indépendance égyptienne. En 1936, la Grande-Bretagne et l'Égypte ont signé le Traité anglo-égyptien, qui a renforcé formellement l'indépendance de l'Égypte tout en permettant la présence militaire britannique dans le pays, en particulier autour du canal de Suez. Ce traité a également reconnu le rôle de l'Égypte dans la défense du Soudan, alors sous domination anglo-égyptienne. Le Traité de 1936 a été un pas vers une indépendance accrue pour l'Égypte, mais il a également maintenu des aspects clés de l'influence britannique. La signature de ce traité a été une tentative de la part de la Grande-Bretagne de stabiliser la situation en Égypte et de s'assurer que le pays ne tomberait pas sous l'influence des puissances de l'Axe pendant la Seconde Guerre mondiale. Il a également reflété la reconnaissance par la Grande-Bretagne de la nécessité de s'adapter aux réalités politiques changeantes en Égypte et dans la région.
L'Ère de Nasser et la Révolution de 1952
Le 23 juillet 1952, un coup d'État mené par un groupe d'officiers militaires égyptiens, connus sous le nom d'Officiers Libres, a marqué un tournant majeur dans l'histoire de l'Égypte. Cette révolution a renversé la monarchie du roi Farouk et a conduit à l'établissement d'une république. Parmi les leaders des Officiers Libres, Gamal Abdel Nasser est rapidement devenu la figure dominante et le visage du nouveau régime. Nasser, devenu président en 1954, a adopté une politique fortement nationaliste et tiers-mondiste, influencée par des idées de panarabisme et de socialisme. Son panarabisme visait à unir les pays arabes autour de valeurs communes et d'intérêts politiques, économiques et culturels. Cette idéologie était en partie une réponse aux influences et interventions occidentales dans la région. La nationalisation du canal de Suez en 1956 a été l'une des décisions les plus audacieuses et emblématiques de Nasser. Cette action a été motivée par le désir de contrôler une ressource vitale pour l'économie égyptienne et de s'affranchir de l'influence occidentale, mais elle a également déclenché la crise du canal de Suez, une confrontation militaire majeure avec la France, le Royaume-Uni et Israël.
Le socialisme de Nasser était développementaliste, visant à moderniser et à industrialiser l'économie égyptienne tout en promouvant la justice sociale. Sous sa direction, l'Égypte a lancé d'importants projets d'infrastructure, dont le plus notable est le barrage d'Assouan. Pour réaliser ce projet d'envergure, Nasser s'est tourné vers l'Union soviétique pour obtenir un soutien financier et technique, marquant ainsi un rapprochement entre l'Égypte et les Soviétiques durant la Guerre froide. Nasser a également cherché à développer une bourgeoisie égyptienne tout en mettant en œuvre des politiques socialistes, telles que la réforme agraire et la nationalisation de certaines industries. Ces politiques visaient à réduire les inégalités et à établir une économie plus équitable et indépendante. Le leadership de Nasser a eu un impact significatif non seulement sur l'Égypte mais aussi sur l'ensemble du monde arabe et du tiers-monde. Il est devenu une figure emblématique du nationalisme arabe et du mouvement des non-alignés, cherchant à établir une voie indépendante pour l'Égypte en dehors des blocs de puissance de la Guerre froide.
De Sadate à l'Égypte Contemporaine
La guerre des Six Jours en 1967, perdue par l'Égypte ainsi que par la Jordanie et la Syrie contre Israël, a été un moment dévastateur pour le panarabisme de Nasser. Cette défaite a non seulement entraîné une perte territoriale significative pour ces pays arabes, mais a également marqué un coup dur pour l'idée d'unité et de puissance arabe. Nasser, profondément affecté par cet échec, est resté au pouvoir jusqu'à sa mort en 1970. Anwar Sadate, succédant à Nasser, a pris une direction différente. Il a lancé des réformes économiques, connues sous le nom d'Infitah, visant à ouvrir l'économie égyptienne à l'investissement étranger et à stimuler la croissance économique. Sadate a également remis en question l'engagement de l'Égypte envers le panarabisme et a cherché à établir des relations avec Israël. Les accords de Camp David de 1978, négociés avec l'aide des États-Unis, ont abouti à un traité de paix entre l'Égypte et Israël, un tournant majeur dans l'histoire du Moyen-Orient.
Cependant, le rapprochement de Sadate avec Israël a été extrêmement controversé dans le monde arabe et a conduit à l'exclusion de l'Égypte de la Ligue arabe. Cette décision a été perçue par beaucoup comme une trahison des principes panarabes et a contribué à une réévaluation de l'idéologie panarabe dans la région. Sadate a été assassiné en 1981 par des membres des Frères Musulmans, un groupe islamiste qui s'était opposé à ses politiques, en particulier à sa politique étrangère. Son vice-président, Hosni Moubarak, lui a succédé, instaurant un régime qui allait durer près de trois décennies.
Sous Moubarak, l'Égypte a connu une stabilité relative, mais aussi une répression politique croissante, notamment à l'encontre des Frères Musulmans et d'autres groupes d'opposition. Cependant, en 2011, lors du Printemps arabe, Moubarak a été renversé par un soulèvement populaire, illustrant le mécontentement généralisé face à la corruption, au chômage et à la répression politique. Mohamed Morsi, issu des Frères Musulmans, a été élu président en 2012, mais son mandat a été de courte durée. En 2013, il a été renversé par un coup d'État militaire mené par le général Abdel Fattah al-Sissi, qui a ensuite été élu président en 2014. Le régime de Sissi a été marqué par une répression accrue des dissidents politiques, y compris des membres des Frères Musulmans, et par des efforts pour stabiliser l'économie et renforcer la sécurité du pays. La période récente de l'histoire égyptienne est donc caractérisée par des changements politiques majeurs, reflétant la dynamique complexe et souvent turbulente de la politique égyptienne et arabe.
L'Arabie Saoudite
L'Alliance Fondatrice : Ibn Saud et Ibn Abd al-Wahhab
L'Arabie Saoudite se distingue par sa relative jeunesse en tant qu'État-nation moderne et par les fondements idéologiques uniques qui ont façonné sa formation et son évolution. Un élément clé pour comprendre l'histoire et la société saoudienne est l'idéologie du wahhabisme.
Le wahhabisme est une forme de l'islam sunnite, caractérisée par une interprétation stricte et puritaine de l'islam. Il tire son nom de Muhammad ibn Abd al-Wahhab, un théologien et réformateur religieux du 18ème siècle de la région de Najd, dans ce qui est aujourd'hui l'Arabie Saoudite. Ibn Abd al-Wahhab a prôné un retour à ce qu'il considérait comme les principes originaux de l'islam, en rejetant de nombreuses pratiques qu'il jugeait être des innovations (bid'ah) ou des idolâtries. L'influence du wahhabisme sur la formation de l'Arabie Saoudite est inextricablement liée à l'alliance entre Muhammad ibn Abd al-Wahhab et Muhammad ibn Saud, le fondateur de la première dynastie saoudienne, au 18ème siècle. Cette alliance a uni les objectifs religieux d'Ibn Abd al-Wahhab avec les ambitions politiques et territoriales d'Ibn Saud, créant une fondation idéologique et politique pour le premier État saoudien.
L'Établissement de l'État Saoudien Moderne
Au cours du 20ème siècle, sous le règne d'Abdelaziz ibn Saoud, le fondateur du royaume d'Arabie Saoudite moderne, cette alliance s'est renforcée. L'Arabie Saoudite a été officiellement fondée en 1932, unifiant diverses tribus et régions sous une seule autorité nationale. Le wahhabisme est devenu la doctrine religieuse officielle de l'État, imprégnant la gouvernance, l'éducation, la législation et la vie sociale en Arabie Saoudite. Le wahhabisme a influencé non seulement la structure sociale et politique interne de l'Arabie Saoudite, mais a également eu un impact sur ses relations extérieures, notamment en matière de politique étrangère et de soutien à divers mouvements islamiques à travers le monde. La richesse pétrolière de l'Arabie Saoudite a permis au royaume de promouvoir sa version de l'islam à l'échelle internationale, contribuant à la propagation du wahhabisme au-delà de ses frontières.
Le pacte de 1744 entre Muhammad ibn Saud, le chef de la tribu Al Saud, et Muhammad ibn Abd al-Wahhab, un réformateur religieux, est un événement fondateur dans l'histoire de l'Arabie Saoudite. Ce pacte a uni les objectifs politiques d'Ibn Saud avec les idéaux religieux d'Ibn Abd al-Wahhab, jetant les bases de ce qui deviendra l'État saoudien. Ibn Abd al-Wahhab prônait une interprétation puritaine de l'islam, cherchant à purger la pratique religieuse de ce qu'il considérait comme des innovations, des superstitions et des déviations par rapport aux enseignements du prophète Mahomet et du Coran. Son mouvement, qui allait devenir connu sous le nom de wahhabisme, appelait à un retour à une forme plus "pure" de l'islam. D'un autre côté, Ibn Saud voyait dans le mouvement d'Ibn Abd al-Wahhab une opportunité de légitimer et d'étendre son pouvoir politique. Le pacte entre eux était donc à la fois une alliance religieuse et politique, avec Ibn Saud s'engageant à défendre et à promouvoir les enseignements d'Ibn Abd al-Wahhab, tandis qu'Ibn Abd al-Wahhab soutenait l'autorité politique d'Ibn Saud. Dans les années qui ont suivi, les Al Saud, avec le soutien des adeptes wahhabites, ont entrepris des campagnes militaires pour étendre leur influence et imposer leur interprétation de l'islam. Ces campagnes ont conduit à la création du premier État saoudien au 18ème siècle, couvrant une grande partie de la péninsule arabique.
Cependant, la formation de l'État saoudien n'a pas été un processus linéaire. Au cours du 19ème siècle et au début du 20ème siècle, l'entité politique des Al Saud a connu plusieurs revers, y compris la destruction du premier État saoudien par les Ottomans et leurs alliés égyptiens. Ce n'est qu'avec Abdelaziz ibn Saoud, au début du 20ème siècle, que les Al Saud ont finalement réussi à établir un royaume stable et durable, l'Arabie Saoudite moderne, proclamée en 1932. L'histoire de l'Arabie Saoudite est donc intimement liée à l'alliance entre les Al Saud et le mouvement wahhabite, une alliance qui a façonné non seulement la structure politique et sociale du royaume, mais aussi son identité religieuse et culturelle.
La Reconquête d'Ibn Saoud et la Fondation du Royaume
L'attaque de La Mecque par les forces saoudiennes en 1803 est un événement significatif dans l'histoire de la péninsule arabique et reflète les tensions religieuses et politiques de l'époque. Le wahhabisme, l'interprétation stricte de l'islam sunnite promue par Muhammad ibn Abd al-Wahhab et adoptée par la maison des Saoud, considérait certaines pratiques, notamment celles du chiisme, comme étant étrangères, voire hérétiques par rapport à l'islam. En 1803, les forces saoudiennes wahhabites ont pris le contrôle de La Mecque, un des lieux les plus sacrés de l'islam, ce qui a été perçu comme un acte provocateur par d'autres musulmans, en particulier par les Ottomans qui étaient les gardiens traditionnels des lieux saints islamiques. Cette prise de contrôle a été vue non seulement comme une expansion territoriale des Saoud, mais aussi comme une tentative d'imposer leur interprétation particulière de l'islam.
En réponse à cette avancée saoudienne, l'Empire ottoman, qui cherchait à maintenir son influence sur la région, a envoyé des forces sous le commandement de Mehmet Ali Pacha, le gouverneur ottoman de l'Égypte. Mehmet Ali Pacha, reconnu pour ses talents militaires et ses efforts de modernisation en Égypte, a mené une campagne efficace contre les forces saoudiennes. En 1818, après une série de confrontations militaires, les troupes de Mehmet Ali Pacha ont réussi à vaincre les forces saoudiennes et à capturer leur chef, Abdullah bin Saud, qui a été envoyé à Constantinople (aujourd'hui Istanbul) où il a été exécuté. Cette défaite a marqué la fin du premier État saoudien. Cet épisode illustre la complexité des dynamiques politiques et religieuses dans la région à cette époque. Il met en évidence non seulement les conflits entre différentes interprétations de l'islam, mais aussi la lutte pour le pouvoir et l'influence parmi les puissances régionales de l'époque, notamment l'Empire ottoman et les émergents Saoud.
La deuxième tentative de création d'un État saoudien, qui a eu lieu entre 1820 et 1840, a également rencontré des difficultés et a finalement échoué. Cette période a été marquée par une série de conflits et de confrontations entre les Saoud et divers adversaires, y compris l'Empire ottoman et ses alliés locaux. Ces luttes ont entraîné la perte de territoires et d'influence pour la maison des Saoud. Cependant, l'aspiration à établir un État saoudien n'a pas disparu. Au tournant du 20ème siècle, particulièrement autour de 1900-1901, une nouvelle phase de l'histoire saoudienne a commencé avec le retour de membres de la famille Al Saud de leur exil. Parmi eux, Abdelaziz ibn Saoud, souvent appelé Ibn Saoud, a joué un rôle crucial dans la renaissance et l'expansion de l'influence saoudienne. Ibn Saoud, un leader charismatique et stratégique, a entrepris de reconquérir et d'unifier les territoires de la péninsule arabique sous la bannière de la maison des Saoud. Sa campagne a débuté par la capture de Riyad en 1902, qui est devenue un point de départ pour d'autres conquêtes et l'expansion de son royaume.
Au cours des décennies suivantes, Ibn Saoud a mené une série de campagnes militaires et de manœuvres politiques, étendant progressivement son contrôle sur une grande partie de la péninsule arabique. Ces efforts ont été facilités par son habileté à négocier des alliances, à gérer les rivalités tribales et à intégrer les enseignements wahhabites comme base idéologique de son État. Le succès d'Ibn Saoud a culminé avec la fondation du Royaume d'Arabie Saoudite en 1932, unifiant les différentes régions et tribus sous une seule autorité nationale. Le nouveau royaume a consolidé les divers territoires conquis par Ibn Saoud, établissant ainsi un État saoudien durable, avec le wahhabisme comme fondement religieux et idéologique. La création de l'Arabie Saoudite a marqué une étape significative dans l'histoire moderne du Moyen-Orient, avec des implications profondes tant pour la région que pour la politique internationale, en particulier après la découverte et l'exploitation du pétrole dans le royaume.
Les Relations avec l'Empire Britannique et la Révolte Arabe
En 1915, durant la Première Guerre mondiale, les Britanniques, cherchant à affaiblir l'Empire ottoman, ont noué des contacts avec divers leaders arabes, y compris le Chérif Hussein de La Mecque, qui était un membre éminent de la famille hachémite. Parallèlement, les Britanniques entretenaient des relations avec les Saoudiens, menés par Abdelaziz ibn Saoud, bien que ces relations aient été moins directes et impliquées que celles avec les Hachémites. Le Chérif Hussein, encouragé par les promesses britanniques d'appui pour l'indépendance arabe, a lancé la Révolte arabe en 1916 contre l'Empire ottoman. Cette révolte était motivée par le désir d'indépendance arabe et par l'opposition à la domination ottomane. Cependant, les Saoudiens, sous la direction d'Ibn Saoud, n'ont pas participé activement à cette révolte. Ils étaient engagés dans leur propre campagne pour consolider et étendre leur contrôle sur la péninsule arabique. Bien que les Saoudiens et les Hachémites aient eu des intérêts communs contre les Ottomans, ils étaient également rivaux pour le contrôle de la région.
Après la guerre, avec l'échec des promesses britanniques et françaises de créer un royaume arabe indépendant (comme le prévoyaient les accords secrets Sykes-Picot), le Chérif Hussein s'est retrouvé isolé. En 1924, il s'est proclamé Calife, un acte qui a été perçu comme provocateur par de nombreux musulmans, y compris les Saoudiens. La proclamation de Hussein en tant que Calife a fourni un prétexte aux Saoudiens pour l'attaquer, car ils cherchaient à étendre leur influence. Les forces saoudiennes ont finalement pris le contrôle de La Mecque en 1924, mettant fin à la domination hachémite dans la région et consolidant le pouvoir d'Ibn Saoud. Cette conquête a été une étape clé dans la formation du royaume d'Arabie Saoudite et a marqué la fin des ambitions du Chérif Hussein de créer un royaume arabe unifié sous la dynastie hachémite.
L'Ascension de l'Arabie Saoudite et la Découverte du Pétrole
En 1926, Abdelaziz ibn Saoud, ayant consolidé son contrôle sur une grande partie de la péninsule arabique, s'est proclamé roi du Hedjaz. Le Hedjaz, une région d'une importance religieuse considérable en raison de la présence des villes saintes de La Mecque et Médine, était auparavant sous le contrôle de la dynastie hachémite. La prise du Hedjaz par Ibn Saoud a marqué une étape significative dans l'établissement de l'Arabie Saoudite comme une entité politique puissante dans la région. La reconnaissance d'Ibn Saoud en tant que roi du Hedjaz par des puissances telles que la Russie, la France et la Grande-Bretagne a été un moment clé dans la légitimation internationale de son règne. Ces reconnaissances ont indiqué un changement significatif dans les relations internationales et une acceptation du nouvel équilibre des pouvoirs dans la région. La prise de contrôle du Hedjaz par Ibn Saoud a non seulement renforcé sa position en tant que leader politique dans la péninsule arabique, mais a également accru son prestige dans le monde musulman, en le plaçant en tant que gardien des lieux saints de l'islam. Cela a également signifié la fin de la présence hachémite dans le Hedjaz, avec les membres restants de la dynastie hachémite fuyant vers d'autres parties du Moyen-Orient, où ils établiraient de nouveaux royaumes, en particulier en Jordanie et en Irak. La proclamation d'Ibn Saoud en tant que roi du Hedjaz a donc été un jalon important dans la formation de l'Arabie Saoudite moderne et a contribué à façonner l'architecture politique du Moyen-Orient dans la période suivant la Première Guerre mondiale.
En 1932, Abdelaziz ibn Saoud a achevé un processus de consolidation territorial et politique qui a mené à la création du Royaume d'Arabie Saoudite. Le royaume a uni les régions du Nedj (ou Nejd) et du Hedjaz sous une seule autorité nationale, marquant la naissance de l'État saoudien moderne. Cette unification a représenté l'aboutissement des efforts d'Ibn Saoud pour établir un royaume stable et unifié dans la péninsule arabique, consolidant les différentes conquêtes et alliances qu'il avait réalisées au fil des années. La découverte du pétrole en 1938 en Arabie Saoudite a été un tournant majeur non seulement pour le royaume, mais aussi pour l'économie mondiale. La Compagnie pétrolière américaine California Arabian Standard Oil Company (plus tard ARAMCO) a été la première à découvrir du pétrole en quantité commerciale. Cette découverte a transformé l'Arabie Saoudite d'un État principalement désertique et agraire en l'un des plus grands producteurs de pétrole au monde.
La Seconde Guerre mondiale a accentué l'importance stratégique du pétrole saoudien. Bien que l'Arabie Saoudite soit restée officiellement neutre pendant la guerre, la demande croissante de pétrole pour alimenter les efforts de guerre a fait du royaume un partenaire économique important pour les Alliés, notamment la Grande-Bretagne et les États-Unis. La relation entre l'Arabie Saoudite et les États-Unis, en particulier, s'est renforcée pendant et après la guerre, établissant les bases d'une alliance durable centrée sur la sécurité et le pétrole. Cette période a également vu le début de l'influence significative de l'Arabie Saoudite dans les affaires mondiales, en grande partie grâce à ses vastes réserves de pétrole. Le royaume est devenu un acteur clé dans l'économie mondiale et la politique du Moyen-Orient, une position qu'il continue d'occuper aujourd'hui. La richesse pétrolière a permis à l'Arabie Saoudite d'investir massivement dans le développement national et de jouer un rôle influent dans la politique régionale et internationale.
Défis Modernes : Islamisme, Pétrole, et Politique Internationale
La révolution islamique en Iran en 1979 a eu un impact profond sur l'équilibre géopolitique dans le Moyen-Orient, y compris en Arabie Saoudite. La montée au pouvoir de l'Ayatollah Khomeini et l'établissement d'une République islamique en Iran ont soulevé des inquiétudes dans de nombreux pays de la région, notamment en Arabie Saoudite, où l'on craignait que l'idéologie révolutionnaire chiite ne s'exporte et ne déstabilise les monarchies du Golfe, majoritairement sunnites. En Arabie Saoudite, ces craintes ont renforcé la position du royaume en tant qu'allié des États-Unis et d'autres puissances occidentales. Dans le contexte de la Guerre froide et de l'hostilité croissante entre les États-Unis et l'Iran après la révolution, l'Arabie Saoudite a été perçue comme un contrepoids vital à l'influence iranienne dans la région. Le wahhabisme, l'interprétation stricte et conservatrice de l'islam sunnite pratiquée en Arabie Saoudite, est devenu un élément central de l'identité du royaume et a été utilisé pour contrer l'influence chiite iranienne.
L'Arabie Saoudite a également joué un rôle clé dans les efforts anti-soviétiques, en particulier pendant la guerre d'Afghanistan (1979-1989). Le royaume a soutenu les moudjahidines afghans luttant contre l'invasion soviétique, à la fois financièrement et idéologiquement, en promouvant le wahhabisme comme un élément de la résistance islamique contre l'athéisme soviétique. En 1981, dans le cadre de sa stratégie pour renforcer la coopération régionale et contrer l'influence iranienne, l'Arabie Saoudite a été un acteur clé dans la création du Conseil de Coopération du Golfe (CCG). Le CCG, une alliance politique et économique, comprend l'Arabie Saoudite, le Koweït, les Émirats Arabes Unis, le Qatar, le Bahreïn et Oman. L'organisation a été conçue pour favoriser la collaboration entre les monarchies du Golfe dans divers domaines, notamment la défense, l'économie et la politique étrangère. La position de l'Arabie Saoudite au sein du CCG a reflété et renforcé son rôle de leader régional. Le royaume a utilisé le CCG comme plateforme pour promouvoir ses intérêts stratégiques et pour stabiliser la région face aux défis sécuritaires et politiques, notamment les tensions avec l'Iran et les turbulences liées aux mouvements islamistes et aux conflits régionaux.
L'invasion du Koweït par l'Irak sous Saddam Hussein en août 1990 a déclenché une série d'événements cruciaux dans la région du Golfe, ayant des répercussions majeures sur l'Arabie Saoudite et la politique mondiale. Cette invasion a mené à la Guerre du Golfe de 1991, lors de laquelle une coalition internationale dirigée par les États-Unis a été formée pour libérer le Koweït. Face à la menace irakienne, l'Arabie Saoudite, craignant une possible invasion de son propre territoire, a accepté la présence de forces militaires américaines et d'autres troupes de la coalition sur son sol. Des bases militaires temporaires ont été établies en Arabie Saoudite pour lancer des opérations contre l'Irak. Cette décision a été historique et controversée, car elle impliquait la station de troupes non musulmanes dans le pays qui abrite les deux villes les plus saintes de l'islam, La Mecque et Médine.
La présence militaire américaine en Arabie Saoudite a été fortement critiquée par divers groupes islamistes, dont Al-Qaïda, dirigée par Oussama ben Laden. Ben Laden, lui-même d'origine saoudienne, a interprété la présence militaire américaine en Arabie Saoudite comme une profanation des terres saintes de l'islam. Cela a constitué l'un des principaux griefs d'Al-Qaïda contre les États-Unis et a été utilisé comme une justification pour ses attaques terroristes, y compris les attentats du 11 septembre 2001. La réaction d'Al-Qaïda à la Guerre du Golfe et à la présence militaire américaine en Arabie Saoudite a mis en lumière les tensions croissantes entre les valeurs occidentales et certains groupes islamistes radicaux. Cela a également souligné les défis auxquels l'Arabie Saoudite était confrontée en équilibrant ses relations stratégiques avec les États-Unis et en gérant les sentiments islamiques conservateurs au sein de sa propre population. La période post-Guerre du Golfe a été une époque de changement et d'instabilité dans la région, marquée par des conflits politiques et idéologiques, qui continuent d'influencer la dynamique régionale et internationale.
L'incident de la Grande Mosquée de La Mecque en 1979 est un événement marquant dans l'histoire contemporaine de l'Arabie Saoudite et illustre les tensions internes liées aux questions d'identité religieuse et politique. Le 20 novembre 1979, un groupe de fondamentalistes islamistes dirigé par Juhayman al-Otaybi a pris d'assaut la Grande Mosquée de La Mecque, l'un des lieux les plus sacrés de l'islam. Juhayman al-Otaybi et ses partisans, issus principalement de milieux conservateurs et religieux, ont critiqué la famille royale saoudienne pour sa corruption, son luxe et son ouverture à l'influence occidentale. Ils considéraient que ces facteurs étaient en contradiction avec les principes wahhabites sur lesquels le royaume avait été fondé. Al-Otaybi a proclamé son beau-frère, Mohammed Abdullah al-Qahtani, comme le Mahdi, une figure messianique dans l'islam.
Le siège de la Grande Mosquée a duré deux semaines, durant lesquelles les insurgés ont retenu des milliers de pèlerins en otage. La situation a posé un défi considérable pour le gouvernement saoudien, non seulement en termes de sécurité, mais aussi en termes de légitimité religieuse et politique. L'Arabie Saoudite a dû demander une fatwa (décret religieux) pour permettre l'intervention militaire dans la mosquée, normalement un sanctuaire de paix où la violence est interdite. L'assaut final pour reprendre la mosquée a commencé le 4 décembre 1979 et a été mené par les forces de sécurité saoudiennes avec l'aide de conseillers français. La bataille a été intense et meurtrière, faisant des centaines de morts parmi les insurgés, les forces de sécurité et les otages.
L'incident a eu des répercussions profondes en Arabie Saoudite et dans le monde musulman. Il a révélé des fissures dans la société saoudienne et a mis en évidence les défis auxquels le royaume était confronté en termes de gestion de l'extrémisme religieux. En réponse à cette crise, le gouvernement saoudien a renforcé ses politiques conservatrices en matière religieuse et a augmenté son contrôle sur les institutions religieuses, tout en continuant à réprimer l'opposition islamiste. L'incident a également souligné la complexité de la relation entre religion, politique et pouvoir en Arabie Saoudite.
Les pays créés par décrets
À la fin de la Première Guerre mondiale, les États-Unis, sous la présidence de Woodrow Wilson, avaient une vision différente de celle des puissances européennes concernant l'avenir des territoires conquis pendant la guerre. Wilson, avec ses Quatorze Points, prônait le droit des peuples à l'autodétermination et s'opposait à l'acquisition de territoires par conquête, une position qui contrastait avec les objectifs coloniaux traditionnels des puissances européennes, notamment la Grande-Bretagne et la France. Les États-Unis étaient également favorables à un système de commerce ouvert et équitable, ce qui signifiait que les territoires ne devaient pas être exclusivement sous le contrôle d'une seule puissance, afin de permettre un accès commercial plus large, bénéficiant ainsi aux intérêts américains. Cependant, dans la pratique, les intérêts britanniques et français ont prévalu, ces derniers ayant obtenu des gains territoriaux significatifs à la suite de l'effondrement de l'Empire ottoman et de la défaite de l'Allemagne.
Pour concilier ces différentes perspectives, un compromis a été trouvé à travers le système de mandats de la Société des Nations. Ce système était censé être une forme de gouvernance internationale pour les territoires conquis, en préparation de leur éventuelle indépendance. La mise en place de ce système a nécessité un processus complexe de négociations et de traités. La Conférence de San Remo en 1920 a été un moment clé dans ce processus, au cours duquel les mandats pour les territoires de l'ancien Empire ottoman ont été attribués, principalement à la Grande-Bretagne et à la France. Par la suite, la Conférence du Caire en 1921 a davantage défini les termes et les limites de ces mandats. Les Traités de Sèvres en 1920 et de Lausanne en 1923 ont redessiné la carte du Moyen-Orient et ont formalisé la fin de l'Empire ottoman. Le Traité de Sèvres, en particulier, a démantelé l'Empire ottoman et a prévu la création d'un certain nombre d'États-nations indépendants. Cependant, en raison de l'opposition turque et de changements ultérieurs dans la situation géopolitique, le Traité de Sèvres a été remplacé par le Traité de Lausanne, qui a redéfini les frontières de la Turquie moderne et a annulé certaines des dispositions du Traité de Sèvres. Ce long processus de négociation a reflété les complexités et les tensions de l'ordre mondial d'après-guerre, avec des puissances établies cherchant à maintenir leur influence tout en faisant face à de nouveaux idéaux internationaux et à l'émergence des États-Unis en tant que puissance mondiale.
Après la Première Guerre mondiale, le démantèlement des empires ottoman et allemand a conduit à la création du système de mandats de la Société des Nations, une tentative de gérer les territoires de ces anciens empires dans un contexte postcolonial. Ce système, établi par les traités de paix de l'après-guerre, notamment le Traité de Versailles en 1919, était divisé en trois catégories - A, B et C - reflétant le degré perçu de développement et de préparation à l'autonomie des territoires concernés.
Les mandats de type A, attribués aux territoires de l'ancien Empire ottoman dans le Moyen-Orient, étaient considérés comme les plus avancés vers l'autodétermination. Ces territoires, jugés relativement « civilisés » par les normes de l'époque, comprenaient la Syrie et le Liban, placés sous mandat français, ainsi que la Palestine (incluant la Jordanie actuelle) et l'Irak, sous mandat britannique. La notion de "civilisation" employée à cette époque reflétait les préjugés et les attitudes paternalistes des puissances coloniales, supposant que ces régions étaient plus proches de la gouvernance autonome que d'autres. Le traitement des mandats de type A reflétait les intérêts géopolitiques des puissances mandataires, notamment la Grande-Bretagne et la France, qui cherchaient à étendre leur influence dans la région. Leurs actions ont souvent été motivées par des considérations stratégiques et économiques, telles que le contrôle des routes commerciales et l'accès aux ressources pétrolières, plutôt que par un engagement envers l'autonomie des populations locales. Cela a été illustré par la déclaration Balfour de 1917, dans laquelle la Grande-Bretagne a exprimé son soutien à la création d'un "foyer national juif" en Palestine, une décision qui a eu des conséquences durables et conflictuelles pour la région. Les mandats de type B et C, concernant principalement l'Afrique et certaines îles du Pacifique, étaient considérés comme nécessitant un niveau de supervision plus élevé. Ces territoires, souvent sous-développés et avec peu d'infrastructures, étaient gérés de manière plus directe par les puissances mandataires. Le système de mandats, bien que présenté comme une forme de tutelle bienveillante, était en réalité très proche du colonialisme et a été largement perçu comme tel par les populations autochtones.
En résumé, le système de mandats de la Société des Nations, malgré son intention déclarée de préparer les territoires à l'indépendance, a souvent servi à perpétuer l'influence et le contrôle des puissances européennes dans les régions concernées. Il a également jeté les bases de nombreux conflits politiques et territoriaux futurs, en particulier au Moyen-Orient, où les frontières et les politiques établies pendant cette période continuent d'avoir un impact significatif sur les dynamiques régionales et internationales.
Cette carte présente la répartition des territoires autrefois sous contrôle de l'Empire ottoman dans le Moyen-Orient et l'Afrique du Nord après leur perte par l'Empire, principalement à la suite de la Première Guerre mondiale. On y distingue les différentes zones d'influence et les territoires contrôlés par les puissances européennes grâce à un code couleur. Les territoires sont divisés selon la puissance qui les contrôlait ou exerçait une influence sur eux. Les territoires contrôlés par les Britanniques sont en mauve, les Français en jaune, les Italiens en rose et les Espagnols en bleu. Les territoires indépendants sont marqués en jaune pale, l'Empire ottoman est en verre avec ses frontières à leur apogée en surbrillance, et les zones d'influence russe et britannique sont également indiquées.
La carte montre également les dates de l'occupation initiale ou du contrôle de certains territoires par les puissances coloniales, indiquant ainsi la période de l'expansion impérialiste en Afrique du Nord et au Moyen-Orient. Par exemple, l'Algérie est marquée comme territoire français depuis 1830, la Tunisie depuis 1881 et le Maroc est divisé entre le contrôle français (depuis 1912) et espagnol (depuis 1912). La Libye, quant à elle, était sous contrôle italien de 1911 à 1932. L'Égypte est marquée comme sous contrôle britannique depuis 1882, bien qu'elle ait été techniquement un protectorat britannique. Le Soudan anglo-égyptien est également indiqué, reflétant le contrôle conjoint de l'Égypte et de la Grande-Bretagne depuis 1899. En ce qui concerne le Moyen-Orient, la carte montre clairement les mandats de la Société des Nations, avec la Syrie et le Liban sous mandat français et l'Irak et la Palestine (y compris la Transjordanie actuelle) sous mandat britannique. Le Hedjaz, la région autour de La Mecque et Médine, est également indiqué, reflétant le contrôle de la famille Saoud, tandis que le Yémen et Oman sont marqués comme des protectorats britanniques. Cette carte est un outil utile pour comprendre les changements géopolitiques qui ont eu lieu après le déclin de l'Empire ottoman et comment le Moyen-Orient et l'Afrique du Nord ont été remodelés par les intérêts coloniaux européens. Elle montre également la complexité des relations de pouvoir dans la région, qui continuent d'affecter la politique régionale et internationale aujourd'hui.
En 1919, à la suite de la Première Guerre mondiale, le partage des territoires de l'ancien Empire ottoman entre les puissances européennes a été un processus controversé et conflictuel. Les populations locales de ces régions, ayant nourri des aspirations à l'autodétermination et à l'indépendance, ont souvent accueilli avec hostilité l'établissement de mandats sous contrôle européen. Cette hostilité s'inscrivait dans un contexte plus large de mécontentement face à l'influence et à l'intervention occidentales dans la région. Le mouvement nationaliste arabe, qui avait pris de l'ampleur pendant la guerre, aspirait à la création d'un État arabe unifié ou de plusieurs États arabes indépendants. Ces aspirations avaient été encouragées par les promesses britanniques de soutien à l'indépendance arabe en échange du soutien contre les Ottomans, notamment à travers la correspondance Hussein-McMahon et la Révolte arabe dirigée par le Chérif Hussein de La Mecque. Cependant, les accords Sykes-Picot de 1916, un arrangement secret entre la Grande-Bretagne et la France, prévoyaient le partage de la région en zones d'influence, trahissant ainsi les promesses faites aux Arabes.
Les sentiments anti-occidentaux étaient particulièrement forts en raison de la perception que les puissances européennes ne respectaient pas leurs engagements envers les populations arabes et manipulaient la région pour leurs propres intérêts impérialistes. En revanche, les États-Unis étaient souvent vus d'un œil moins critique par les populations locales. La politique américaine, sous la présidence de Woodrow Wilson, était perçue comme plus favorable à l'autodétermination et moins encline à l'impérialisme traditionnel. De plus, les États-Unis n'avaient pas le même historique colonial que les puissances européennes dans la région, ce qui les rendait moins susceptibles de susciter l'hostilité des populations locales. L'immédiat après-guerre a donc été une période de profonde incertitude et de tension dans le Moyen-Orient, les populations locales luttant pour leur indépendance et leur autonomie face à des puissances étrangères cherchant à façonner la région selon leurs propres intérêts stratégiques et économiques. Les répercussions de ces événements ont façonné l'histoire politique et sociale du Moyen-Orient tout au long du 20e siècle et continuent d'influencer les relations internationales dans la région.
La Syrie
L'Aube du Nationalisme Arabe: Le Rôle de Fayçal
Fayçal, fils du Chérif Hussein ben Ali de La Mecque, a joué un rôle de premier plan dans la Révolte arabe contre l'Empire ottoman pendant la Première Guerre mondiale et dans les tentatives ultérieures de former un royaume arabe indépendant. Après la guerre, il s'est rendu à la Conférence de paix de Paris en 1919, armé des promesses britanniques d'indépendance pour les Arabes en échange de leur soutien durant le conflit. Cependant, une fois à Paris, Fayçal a rapidement constaté les réalités politiques complexes et les intrigues de la diplomatie post-guerre. Les intérêts français au Moyen-Orient, en particulier en Syrie et au Liban, étaient en contradiction directe avec les aspirations à l'indépendance arabe. Les Français étaient résolument opposés à la création d'un royaume arabe unifié sous la direction de Fayçal, envisageant plutôt de placer ces territoires sous leur contrôle dans le cadre du système de mandats de la Société des Nations. Face à cette opposition, et conscient de la nécessité de renforcer sa position politique, Fayçal a négocié un accord avec le Premier ministre français Georges Clemenceau. Cet accord visait à établir un protectorat français sur la Syrie, ce qui était en désaccord avec les aspirations des nationalistes arabes. Fayçal a gardé cet accord secret de ses partisans, qui continuaient à lutter pour l'indépendance complète.
Entre-temps, un État syrien était en cours de formation. Sous la direction de Fayçal, des efforts ont été entrepris pour établir les fondations d'un État moderne, avec des réformes dans l'éducation, la création d'une administration publique, la mise en place d'une armée et l'élaboration de politiques visant à renforcer l'identité et la souveraineté nationales. Malgré ces développements, la situation en Syrie restait précaire. L'accord secret avec Clemenceau et le manque de soutien britannique ont placé Fayçal dans une position difficile. Finalement, la France a pris le contrôle direct de la Syrie en 1920 après la bataille de Maysaloun, mettant fin aux espoirs de Fayçal d'établir un royaume arabe indépendant. Fayçal a été expulsé de Syrie par les Français, mais il deviendra plus tard le roi de l'Irak, un autre État nouvellement formé sous mandat britannique.
La Syrie Sous le Mandat Français: Les Accords Sykes-Picot
Les accords Sykes-Picot, conclus en 1916 entre la Grande-Bretagne et la France, avaient établi un partage d'influence et de contrôle sur les territoires de l'ancien Empire ottoman après la Première Guerre mondiale. Selon ces accords, la France devait obtenir le contrôle de ce qui est aujourd'hui la Syrie et le Liban, tandis que la Grande-Bretagne devait contrôler l'Irak et la Palestine. En juillet 1920, la France a cherché à consolider son contrôle sur les territoires qui lui avaient été promis par les accords Sykes-Picot. La bataille de Maysaloun s'est déroulée entre les forces françaises et les troupes de l'éphémère royaume arabe syrien sous le commandement du roi Fayçal. Les forces de Fayçal, mal équipées et mal préparées, ont été largement dépassées par l'armée française mieux équipée et entraînée. La défaite à la bataille de Maysaloun a été un coup dévastateur pour les aspirations arabes à l'indépendance et a mis fin au règne de Fayçal en Syrie. Suite à cette défaite, il a été forcé à l'exil. Cet événement a marqué l'établissement du mandat français sur la Syrie, qui a été officiellement reconnu par la Société des Nations malgré les aspirations à l'autodétermination des peuples syriens. La mise en place des mandats était censée préparer les territoires à l'autonomie et à l'indépendance éventuelles, mais dans la pratique, elle a souvent fonctionné comme une conquête et une administration coloniale. Les populations locales ont largement considéré les mandats comme une continuation du colonialisme européen, et la période du mandat français en Syrie a été marquée par des rébellions et une résistance significatives. Cette période a façonné de nombreuses dynamiques politiques, sociales et nationales en Syrie, influençant l'histoire et l'identité du pays jusqu'à ce jour.
La Fragmentation et l'Administration Française en Syrie
Après avoir établi le contrôle sur les territoires syriens suite à la bataille de Maysaloun, la France, sous l'autorité du mandat conféré par la Société des Nations, a entrepris de restructurer la région selon ses propres conceptions administratives et politiques. Cette restructuration impliquait souvent la division des territoires en fonction de critères confessionnels ou ethniques, une pratique courante de la politique coloniale qui visait à fragmenter et à affaiblir les mouvements nationalistes locaux.
En Syrie, les autorités mandataires françaises ont divisé le territoire en plusieurs entités, y compris l'État des Alépins, l'État des Damascènes, l'État alaouite et le Grand Liban, ce dernier devenant la République libanaise moderne. Ces divisions reflétaient en partie les réalités socioculturelles complexes de la région, mais elles ont également été conçues pour empêcher l'émergence d'une unité arabe qui pourrait contester la domination française, incarnant la stratégie de "diviser pour mieux régner". Le Liban, en particulier, a été créé avec une identité distincte, en grande partie pour servir les intérêts des communautés chrétiennes maronites, qui entretenaient des liens historiques avec la France. La création de ces différents États au sein de la Syrie mandataire a provoqué une fragmentation politique qui a compliqué les efforts pour un mouvement national unifié.
La France a administré ces territoires d'une manière similaire à ses départements métropolitains, en imposant une structure centralisée et en plaçant des hauts-commissaires pour gouverner les territoires au nom du gouvernement français. Cette administration directe s'est accompagnée de la mise en place rapide d'institutions administratives et éducatives dans le but d'assimiler les populations locales à la culture française et de renforcer la présence française dans la région. Cependant, cette politique a exacerbé les frustrations arabes, car de nombreux Syriens et Libanais aspiraient à l'indépendance et au droit de déterminer leur propre avenir politique. Les politiques de la France ont souvent été perçues comme une continuation de l'ingérence occidentale et ont alimenté le sentiment nationaliste et anti-colonialiste. Des soulèvements et des révoltes ont éclaté en réponse à ces mesures, notamment la Grande Révolte syrienne de 1925-1927, qui a été violemment réprimée par les Français. L'héritage de cette période a laissé des marques durables sur la Syrie et le Liban, façonnant leurs frontières, leurs structures politiques et leurs identités nationales. Les tensions et les divisions établies sous le mandat français ont continué à influencer les dynamiques politiques et communautaires de ces pays bien après leur indépendance.
La Révolte de 1925-1927 et la Répression Française
La Grande Révolte syrienne, qui a éclaté en 1925, est un épisode marquant de la résistance contre le mandat français en Syrie. Elle a commencé parmi la population druze du Jabal al-Druze (Montagne des Druzes) dans le sud de la Syrie et s'est rapidement étendue à d'autres régions, y compris à la capitale, Damas. Les Druzes, qui avaient joui d'une certaine autonomie et de privilèges sous l'administration ottomane, se sont retrouvés marginalisés et leurs pouvoirs réduits sous le mandat français. Leur mécontentement face à la perte d'autonomie et aux politiques imposées par les Français, qui cherchaient à centraliser l'administration et à affaiblir les pouvoirs locaux traditionnels, a été l'étincelle qui a déclenché la révolte. La révolte s'est étendue et a pris de l'ampleur, gagnant le soutien de divers segments de la société syrienne, y compris des nationalistes arabes qui s'opposaient à la domination étrangère et aux divisions administratives imposées par la France. La réaction des autorités mandataires françaises a été extrêmement sévère. Elles ont eu recours à des bombardements aériens, des exécutions de masse et des expositions publiques des corps des insurgés pour dissuader d'autres résistances.
Les actions répressives des Français, qui comprenaient la destruction de villages et la brutalité à l'égard des civils, ont été largement condamnées et ont terni la réputation de la France tant au niveau international que parmi les populations locales. Bien que la révolte ait été éventuellement écrasée, elle est restée gravée dans la mémoire collective syrienne comme un symbole de la lutte pour l'indépendance et la dignité nationale. La Grande Révolte syrienne a aussi eu des implications à long terme pour la politique syrienne, renforçant le sentiment anti-colonial et contribuant à forger une identité nationale syrienne. Elle a également contribué à des changements dans la politique française, qui a dû ajuster son approche du mandat en Syrie, conduisant finalement à l'accroissement de l'autonomie syrienne dans les années qui ont suivi.
Le Chemin Vers l'Indépendance de la Syrie
La gestion du mandat français en Syrie a été marquée par des politiques qui s'apparentaient davantage à une administration coloniale qu'à une tutelle bienveillante menant à l'autodépendance, contrairement à ce que prévoyait théoriquement le système de mandats de la Société des Nations. La répression de la Grande Révolte syrienne et la centralisation administrative ont renforcé les sentiments nationalistes et anticolonialistes en Syrie, qui ont continué à croître malgré l'oppression.
La montée du nationalisme syrien, ainsi que les changements géopolitiques mondiaux, ont finalement conduit à l'indépendance du pays. Après la Seconde Guerre mondiale, dans un monde qui s'orientait de plus en plus contre le colonialisme, la France a été forcée de reconnaître l'indépendance de la Syrie en 1946. Cependant, cette transition vers l'indépendance a été compliquée par les manœuvres politiques régionales et les alliances internationales, notamment concernant la Turquie. Durant la Seconde Guerre mondiale, la Turquie a maintenu une position neutre pendant la majeure partie du conflit, mais ses relations avec l'Allemagne nazie ont suscité des inquiétudes chez les Alliés. Dans un effort pour sécuriser la neutralité turque ou pour éviter que la Turquie ne s'allie avec les puissances de l'Axe, la France a effectué un geste diplomatique en cédant la région de Hatay (historiquement connue sous le nom d'Antioche et Alexandrette) à la Turquie.
La région de Hatay avait une importance stratégique et une population mixte, avec des communautés turques, arabes et arméniennes. La question de son appartenance a été un sujet de tension entre la Syrie et la Turquie depuis le démembrement de l'Empire ottoman. En 1939, un plébiscite, dont la légitimité a été contestée par les Syriens, a eu lieu et a conduit à l'annexion formelle de la région à la Turquie. La cession de Hatay a été un coup dur pour le sentiment national syrien et a laissé une cicatrice dans les relations turco-syriennes qui perdure. Pour la Syrie, la perte de Hatay est souvent perçue comme un acte de trahison de la part de la France et un exemple douloureux des manipulations territoriales des puissances coloniales. Pour la Turquie, l'annexion de Hatay a été vue comme la rectification d'une division injuste du peuple turc et la récupération d'un territoire historiquement lié à l'Empire ottoman..
Au cours de la Seconde Guerre mondiale, lorsque la France a été vaincue et occupée par l'Allemagne nazie en 1940, le gouvernement de Vichy, un régime collaborationniste dirigé par le maréchal Philippe Pétain, a été établi. Ce régime a également pris le contrôle des territoires français outre-mer, y compris le mandat français au Liban. Le gouvernement de Vichy, aligné sur les puissances de l'Axe, a permis aux forces allemandes d'utiliser les infrastructures militaires au Liban, ce qui posait un risque sécuritaire pour les Alliés, notamment les Britanniques, qui étaient engagés dans une campagne militaire au Moyen-Orient. La présence de l'Axe au Liban était perçue comme une menace directe aux intérêts britanniques, particulièrement avec la proximité des champs pétrolifères et des routes de transport stratégiques. Les Britanniques et les Forces françaises libres, dirigées par le général Charles de Gaulle et opposées au régime de Vichy, ont lancé l'Opération Exporter en 1941. Cette campagne militaire avait pour objectif de prendre le contrôle du Liban et de la Syrie et d'éliminer la présence des forces de l'Axe dans la région. Après de durs combats, les troupes britanniques et les Forces françaises libres ont réussi à prendre le contrôle du Liban et de la Syrie, et le régime de Vichy a été expulsé.
À la fin de la guerre, la pression britannique et l'évolution des attitudes internationales envers le colonialisme ont contraint la France à reconsidérer sa position au Liban. En 1943, les leaders libanais ont négocié avec les autorités françaises pour obtenir l'indépendance du pays. Bien que la France ait initialement tenté de maintenir son influence et a même brièvement arrêté le nouveau gouvernement libanais, des pressions internationales et des soulèvements populaires ont finalement conduit la France à reconnaître l'indépendance du Liban. Le 22 novembre 1943 est célébré comme le jour de l'indépendance du Liban, marquant la fin officielle du mandat français et la naissance du Liban en tant qu'État souverain. Cette transition vers l'indépendance a été un moment clé pour le Liban et a posé les fondations pour l'avenir du pays en tant que nation indépendante.
Après avoir acquis son indépendance, la Syrie s'est orientée vers une politique panarabe et nationaliste, en partie en réaction à l'ère du mandat et aux défis posés par la formation de l'État d'Israël et le conflit israélo-arabe. Le sentiment nationaliste était exacerbé par la frustration face aux divisions internes, à l'ingérence étrangère et au sentiment d'humiliation suite aux expériences coloniales.
La participation de la Syrie à la guerre arabo-israélienne de 1948 contre l'État nouvellement formé d'Israël a été motivée par ces sentiments nationalistes et panarabes, ainsi que par la pression de la solidarité arabe. Cependant, la défaite des armées arabes dans cette guerre a eu des conséquences profondes pour la région, y compris pour la Syrie. Elle a engendré une période d'instabilité politique interne, marquée par une série de coups d'État militaires qui ont caractérisé la politique syrienne dans les années suivantes. La défaite en 1948 et les problèmes internes qui ont suivi ont exacerbé la méfiance du public syrien envers les dirigeants civils et les politiciens, qui étaient souvent perçus comme corrompus ou inefficaces. L'armée est devenue l'institution la plus stable et la plus puissante de l'État, et a été le principal acteur dans les fréquents changements de gouvernance. Les coups d'État militaires sont devenus une méthode courante pour changer de gouvernement, reflétant les profondes divisions politiques, idéologiques et sociales du pays.
Ce cycle d'instabilité a préparé le terrain pour l'ascension du parti Baas, qui a finalement pris le pouvoir en 1963. Le parti Baas, avec son idéologie panarabe socialiste, a cherché à réformer la société syrienne et à renforcer l'État, mais a également conduit à un gouvernement plus autoritaire et centralisé, dominé par l'appareil militaire et sécuritaire. Les tensions internes de la Syrie, combinées à ses relations complexes avec ses voisins et aux dynamiques régionales, ont fait de l'histoire contemporaine du pays une période de turbulences politiques, qui ont finalement culminé avec la guerre civile syrienne débutée en 2011.
L'Instabilité Politique et la Montée du Parti Baas
Le Baasisme, une idéologie politique arabe qui prône le socialisme, le panarabisme et le laïcisme, a commencé à gagner du terrain dans le monde arabe au cours des années 1950. En Syrie, où les sentiments panarabes étaient particulièrement forts après l'indépendance, l'idée de l'unité arabe a trouvé un écho favorable, particulièrement à la suite des instabilités politiques internes. Les aspirations panarabes de la Syrie l'ont amenée à chercher une union plus étroite avec l'Égypte, alors dirigée par Gamal Abdel Nasser, un leader charismatique dont la popularité s'étendait bien au-delà des frontières égyptiennes, notamment grâce à sa nationalisation du canal de Suez et à son opposition à l'impérialisme. Nasser était considéré comme le champion du panarabisme et avait réussi à promouvoir une vision d'unité et de coopération entre les États arabes. En 1958, cette aspiration à l'unité a abouti à la formation de la République arabe unie (RAU), une union politique entre l'Égypte et la Syrie. Ce développement a été salué comme une étape majeure vers l'unité arabe et a suscité de grands espoirs pour l'avenir politique du monde arabe.
Cependant, l'union a rapidement montré des signes de tension. Bien que la RAU ait été présentée comme une union d'égaux, dans la pratique, le leadership politique de l'Égypte et de Nasser est devenu prédominant. Les institutions politiques et économiques de la RAU étaient largement centralisées au Caire, et la Syrie a commencé à ressentir qu'elle était réduite au statut de province égyptienne plutôt que de partenaire égal dans l'union. Ces tensions ont été exacerbées par les différences dans les structures politiques, économiques et sociales des deux pays. La domination égyptienne et les frustrations croissantes en Syrie ont finalement conduit à la dissolution de la RAU en 1961, lorsque des officiers militaires syriens ont mené un coup d'État qui a séparé la Syrie de l'union. L'expérience de la RAU a laissé un héritage ambivalent : d'un côté, elle a montré le potentiel de l'unité arabe, mais de l'autre, elle a révélé les défis pratiques et idéologiques à surmonter pour réaliser une véritable intégration politique entre les États arabes.
Le 28 septembre 1961, un groupe d'officiers militaires syriens, mécontents de la centralisation excessive du pouvoir au Caire et de la domination égyptienne au sein de la République arabe unie (RAU), a mené un coup d'État qui a marqué la fin de l'union entre la Syrie et l'Égypte. Ce soulèvement était principalement motivé par des sentiments nationalistes et régionalistes en Syrie, où de nombreux citoyens et politiciens se sentaient marginalisés et négligés par le gouvernement de la RAU dirigé par Nasser. La dissolution de la RAU a exacerbé l'instabilité politique déjà présente en Syrie, qui avait connu une série de coups d'État depuis son indépendance en 1946. La séparation de l'Égypte a été accueillie avec soulagement par de nombreux Syriens qui s'inquiétaient de la perte de souveraineté et d'autonomie de leur pays. Cependant, elle a également créé un vide politique que divers groupes et factions, y compris le parti Baas, chercheraient à exploiter. Le coup d'État de 1961 a donc préparé le terrain pour une période de conflit politique intense en Syrie, qui verrait le parti Baas se frayer un chemin vers le pouvoir en 1963. Sous la direction du Baas, la Syrie adopterait une série de réformes socialistes et panarabes, tout en établissant un régime autoritaire qui allait dominer la vie politique syrienne pendant plusieurs décennies. La période qui a suivi le coup d'État de 1961 a été marquée par des tensions entre les factions baasistes et autres groupes politiques, chacun cherchant à imposer sa vision pour l'avenir de la Syrie.
La Syrie, après une période d'instabilité politique et de coups d'État successifs, a connu un tournant décisif en 1963 avec l'arrivée au pouvoir du parti Baas. Ce mouvement, fondé sur les principes du panarabisme et du socialisme, visait à transformer la société syrienne en promouvant une identité arabe unifiée et en mettant en œuvre des réformes sociales et économiques profondes. Le parti Baas, sous la direction de Michel Aflaq et Salah al-Din al-Bitar, avait émergé comme une force politique majeure, prônant une vision du socialisme adaptée aux spécificités du monde arabe. Leur idéologie combinait la promotion d'un État laïc avec des politiques socialistes, telles que la nationalisation des industries clés et la réforme agraire, visant à redistribuer les terres aux paysans et à moderniser l'agriculture.
Dans le domaine de l'éducation, le gouvernement baasiste a initié des réformes visant à augmenter l'alphabétisation et à inculquer des valeurs socialistes et panarabes. Ces réformes visaient à forger une nouvelle identité nationale, en se concentrant sur l'histoire et la culture arabes, tout en promouvant la science et la technologie comme moyens de modernisation. En parallèle, la Syrie a connu une période de sécularisation accélérée. Le parti Baas a œuvré pour réduire le rôle de la religion dans les affaires de l'État, s'efforçant de créer une société plus homogène sur le plan idéologique, tout en gérant la diversité religieuse et ethnique du pays.
Cependant, ces réformes ont également été accompagnées d'une augmentation de l'autoritarisme. Le parti Baas a consolidé son emprise sur le pouvoir, limitant les libertés politiques et réprimant toute forme d'opposition. Les tensions internes au sein du parti et au sein de la société syrienne ont continué à se manifester, culminant avec l'ascension de Hafez al-Assad au pouvoir en 1970. Sous Assad, la Syrie a poursuivi sa trajectoire de socialisme arabe, mais avec une emprise encore plus forte du régime sur la société et la politique. La période baasiste en Syrie a ainsi été caractérisée par un mélange de modernisation et d'autoritarisme, reflétant les complexités de la mise en œuvre d'une idéologie socialiste et panarabe dans un contexte de diversité culturelle et de défis politiques internes et externes. Cette époque a posé les bases du développement politique et social syrien pour les décennies suivantes, influençant profondément l'histoire contemporaine du pays.
L'Ère d'Hafez al-Assad: Consolidation du Pouvoir
L'évolution du parti Baas en Syrie a été marquée par des luttes de pouvoir internes et des divisions idéologiques, culminant dans un coup d'État en 1966. Ce coup d'État a été orchestré par une faction plus radicalement socialiste au sein du parti, qui cherchait à imposer une ligne politique plus stricte et plus alignée sur les principes socialistes et panarabes. Ce changement a conduit à une période de gouvernance plus dogmatique et idéologiquement rigide. Les nouveaux dirigeants du parti Baas ont poursuivi la mise en œuvre de réformes socialistes, tout en renforçant le contrôle étatique sur l'économie et en accentuant la rhétorique panarabe. Cependant, la défaite de la Syrie et d'autres pays arabes face à Israël lors de la guerre des Six Jours en 1967 a porté un coup sévère à la légitimité du parti Baas et à la vision panarabe en général. La perte du plateau du Golan au profit d'Israël et l'échec à atteindre les objectifs de la guerre ont entraîné une désillusion et un questionnement sur la direction politique du pays. Cette période a été marquée par le chaos et une instabilité accrue, exacerbant les tensions internes en Syrie.
Dans ce contexte, Hafez al-Assad, alors ministre de la Défense, a saisi l'opportunité pour consolider son pouvoir. En 1970, il a mené un coup d'État militaire réussi, écartant les dirigeants baasistes radicaux et prenant le contrôle du gouvernement. Assad a modifié la direction du parti Baas et de l'État syrien, en se concentrant davantage sur la stabilisation du pays et sur le nationalisme syrien plutôt que sur le panarabisme. Sous la direction d'Assad, la Syrie a connu une période de stabilisation relative et de consolidation du pouvoir. Assad a mis en place un régime autoritaire, contrôlant étroitement tous les aspects de la vie politique et sociale. Il a également cherché à renforcer l'armée et les services de sécurité, établissant un régime centré sur la sécurité et la survie du pouvoir. La prise de pouvoir par Hafez al-Assad en 1970 a donc marqué un tournant dans l'histoire moderne de la Syrie, inaugurant une ère de gouvernance plus centralisée et autoritaire, qui allait façonner l'avenir du pays pour les décennies à venir.
Hafez al-Assad, après avoir pris le pouvoir en Syrie en 1970, a rapidement compris la nécessité d'une base sociale solide et d'une certaine légitimité pour maintenir son régime. Pour consolider son pouvoir, il s'est appuyé sur sa communauté d'origine, les Alawites, une secte minoritaire du chiisme. Assad a stratégiquement placé des membres de la communauté alawite dans des postes clés au sein de l'armée, des services de sécurité et de l'administration gouvernementale. Cette approche a permis d'assurer la loyauté des institutions les plus importantes à son régime. Tout en conservant une rhétorique panarabe dans le discours officiel, Assad a centré le pouvoir autour de la nation syrienne, éloignant ainsi la politique syrienne de l'ambition plus large du panarabisme. Il a adopté une approche pragmatique en matière de politique intérieure et extérieure, cherchant à stabiliser le pays et à renforcer son pouvoir.
Le régime d'Assad a utilisé des tactiques de division et de cooptation, similaires à celles employées par les Français pendant le mandat, pour gérer la diversité ethnique et religieuse de la Syrie. En fragmentant et en manipulant les différentes communautés, le régime a cherché à empêcher l'émergence d'une opposition unifiée. La répression politique est devenue une caractéristique du régime, avec la mise en place d'un appareil sécuritaire étendu et efficace pour surveiller et contrôler la société. Malgré la purge de nombreuses factions de l'opposition, le régime d'Assad a dû faire face à un défi significatif de la part des groupes islamistes. Ces groupes, bénéficiant d'une base sociale solide, en particulier parmi les populations sunnites plus conservatrices, ont représenté une opposition persistante au régime laïc et alawite d'Assad. La tension entre le gouvernement et les groupes islamistes a culminé dans le soulèvement de la ville de Hama en 1982, qui a été brutalement réprimé par le régime. Ainsi, le règne d'Hafez al-Assad en Syrie a été caractérisé par une centralisation du pouvoir, une politique de répression et une certaine stabilisation du pays, mais aussi par une gestion complexe et souvent conflictuelle de la diversité sociopolitique du pays.
Le massacre de Hama en 1982 est l'un des épisodes les plus sombres et les plus sanglants de l'histoire moderne de la Syrie. Cette répression brutale a été ordonnée par Hafez al-Assad en réponse à une insurrection menée par les Frères musulmans dans la ville de Hama. Hama, une ville avec une forte présence islamiste et un bastion de l'opposition aux politiques laïques et alaouites du régime d'Assad, est devenue le centre d'une révolte armée contre le gouvernement. En février 1982, les forces de sécurité syriennes, dirigées par le frère d'Assad, Rifaat al-Assad, ont encerclé la ville et lancé une offensive militaire massive pour écraser la rébellion. La répression a été impitoyable et disproportionnée. Les forces gouvernementales ont utilisé des bombardements aériens, de l'artillerie lourde, et des troupes au sol pour détruire de larges parties de la ville et éliminer les insurgés. Le nombre exact de victimes reste incertain, mais les estimations suggèrent que des milliers de personnes, peut-être jusqu'à 20 000 ou plus, ont été tuées. De nombreux civils ont perdu la vie dans ce qui a été décrit comme un acte de punition collective. Le massacre de Hama n'était pas seulement une opération militaire ; il avait également une forte dimension symbolique. Il visait à envoyer un message clair à toute opposition potentielle au régime d'Assad : la rébellion serait rencontrée avec une force écrasante et impitoyable. La destruction de Hama a servi d'avertissement brutal et a réprimé la dissidence en Syrie pendant des années. Cette répression a également laissé des cicatrices profondes dans la société syrienne et a été un tournant dans la manière dont le régime d'Assad était perçu, tant au niveau national qu'international. Le massacre de Hama est devenu un symbole de l'oppression brutale en Syrie et a contribué à l'image du régime d'Assad comme étant l'un des plus répressifs du Moyen-Orient.
La gouvernance d'Hafez al-Assad en Syrie a dû naviguer dans les eaux complexes de la légitimité religieuse, en particulier en raison de sa propre appartenance à la communauté alaouite, une branche du chiisme souvent perçue avec suspicion par la majorité sunnite en Syrie. Pour asseoir sa légitimité et celle de son régime aux yeux de la majorité sunnite, Assad a dû s'appuyer sur des personnalités religieuses sunnites pour des rôles de fatwa et d'autres positions clés dans le domaine religieux. Ces personnalités étaient chargées d'interpréter la loi islamique et de fournir des justifications religieuses pour les actions du régime. La position des Alawites en tant que minorité religieuse dans un pays majoritairement sunnite a toujours été un défi pour Assad, qui a dû équilibrer les intérêts et les perceptions des différentes communautés pour maintenir son pouvoir. Bien que les Alawites aient été placés dans des postes clés du gouvernement et de l'armée, Assad a également cherché à se présenter comme un leader de tous les Syriens, indépendamment de leur affiliation religieuse.
La Syrie Contemporaine: De Hafez à Bachar al-Assad
À la mort de Hafez al-Assad en 2000, son fils, Bachar al-Assad, lui a succédé. Bachar, initialement perçu comme un réformateur potentiel et un agent possible de changement, a hérité d'un système de gouvernance complexe et autoritaire. Sous sa direction, la Syrie a continué de naviguer dans les défis posés par sa diversité religieuse et ethnique, ainsi que dans les pressions internes et externes. Le règne de Bachar al-Assad a été marqué par des tentatives de réforme et de modernisation, mais également par une continuité dans la consolidation du pouvoir et le maintien de la structure autoritaire héritée de son père. La situation en Syrie s'est radicalement transformée avec le début du soulèvement populaire en 2011, qui a évolué en une guerre civile complexe et dévastatrice, impliquant de multiples acteurs internes et externes et ayant des répercussions profondes sur la région et au-delà.
Le Liban
Domination Ottomane et Mosaïque Culturelle (16ème Siècle - Première Guerre Mondiale)
Le Liban, avec son histoire riche et complexe, a été influencé par diverses puissances et cultures au fil des siècles. Depuis le 16ème siècle jusqu'à la fin de la Première Guerre mondiale, le territoire qui est aujourd'hui le Liban était sous le contrôle de l'Empire ottoman. Cette période a vu le développement d'une mosaïque culturelle et religieuse distincte, caractérisée par une diversité ethnique et confessionnelle.
Deux groupes en particulier, les Druzes et les Maronites (une communauté chrétienne orientale), ont joué un rôle central dans l'histoire du Liban. Ces deux communautés ont souvent été en opposition l'une avec l'autre, en partie à cause de leurs différences religieuses et de leur lutte pour le pouvoir politique et social dans la région. Les Druzes, une minorité religieuse qui s'est développée à partir de l'Islam chiite ismaélien, se sont établis principalement dans les montagnes du Liban et de la Syrie. Ils ont maintenu une identité distincte et ont souvent exercé un pouvoir politique et militaire significatif dans leurs régions. Les Maronites, d'autre part, sont une communauté chrétienne orientale en communion avec l'Église catholique romaine. Ils se sont principalement établis dans les montagnes du Liban, où ils ont développé une forte identité culturelle et religieuse. Les Maronites ont également établi des liens étroits avec les puissances européennes, en particulier la France, ce qui a eu une influence significative sur l'histoire et la politique libanaises. La coexistence et parfois la confrontation entre ces communautés, ainsi qu'avec d'autres groupes tels que les sunnites, les chiites et les orthodoxes, ont façonné l'histoire sociopolitique du Liban. Ces dynamiques ont joué un rôle clé dans la formation de l'identité libanaise et ont influencé la structure politique du Liban moderne, notamment le système de partage du pouvoir confessionnel, qui cherche à équilibrer la représentation de ses divers groupes religieux.
Mandat Français et Restructuration Administrative (Après la Première Guerre Mondiale - 1943)
Durant le mandat français au Liban, la France a tenté de jouer un rôle de médiateur entre les différentes communautés religieuses et ethniques du pays, tout en mettant en place une structure administrative qui reflétait et renforçait la diversité du Liban. Avant l'établissement du mandat français, le Mont Liban avait déjà une certaine autonomie sous l'Empire ottoman, particulièrement après l'instauration de la Mutasarrifiyyah en 1861. La Mutasarrifiyyah du Mont Liban était une région autonome avec son propre gouverneur chrétien, créée en réponse aux conflits entre les Maronites chrétiens et les Druzes musulmans qui avaient éclaté dans les années 1840 et 1860. Cette structure visait à apaiser les tensions en assurant une gouvernance plus équilibrée et en offrant une certaine autonomie à la région.
Lorsque la France a pris le contrôle du Liban après la Première Guerre mondiale, elle a hérité de cette structure complexe et a cherché à maintenir l'équilibre entre les différentes communautés. Le mandat français a élargi les frontières du Mont Liban pour inclure des régions avec des populations musulmanes importantes, formant ainsi le Grand Liban en 1920. Cette expansion visait à créer un État libanais plus viable économiquement, mais elle a également introduit de nouvelles dynamiques démographiques et politiques. Le système politique au Liban sous le mandat français était basé sur un modèle de consociationalisme, où le pouvoir était partagé entre les différentes communautés religieuses. Ce système visait à garantir une représentation équitable des principaux groupes religieux du Liban dans l'administration et la politique, et il a jeté les bases du système politique confessionnel qui caractérise le Liban moderne. Cependant, le mandat français n'était pas sans controverse. Les politiques françaises ont parfois été perçues comme favorisant certaines communautés au détriment d'autres, et il y avait une résistance à la domination étrangère. Néanmoins, le mandat a joué un rôle significatif dans la formation de l'État libanais et dans la définition de son identité nationale.
Durant la Conférence de paix de Paris en 1919, qui a suivi la fin de la Première Guerre mondiale, la France a joué un rôle stratégique en influençant le processus de décision concernant l'avenir des territoires du Moyen-Orient, notamment le Liban. La présence de deux délégations libanaises à cette conférence était une manœuvre de la France pour contrer les revendications de Fayçal, le leader du Royaume arabe de Syrie, qui cherchait à établir un État arabe indépendant incluant le Liban.
Fayçal, soutenu par les nationalistes arabes, revendiquait un grand État arabe indépendant qui s'étendrait sur une grande partie du Levant, y compris le Liban. Ces revendications étaient en contradiction directe avec les intérêts français dans la région, qui incluaient l'établissement d'un mandat sur le Liban et la Syrie. Pour contrer l'influence de Fayçal et justifier leur propre mandat sur la région, les Français ont encouragé la formation de délégations libanaises composées de représentants chrétiens maronites et d'autres groupes qui étaient favorables à l'idée d'un Liban sous mandat français. Ces délégations ont été envoyées à Paris pour plaider en faveur de la protection française et pour souligner l'identité distincte du Liban par rapport à la Syrie et aux aspirations panarabes de Fayçal. En présentant ces délégations comme représentatives des aspirations du peuple libanais, la France a cherché à légitimer ses revendications de mandat sur le Liban et à démontrer qu'une partie significative de la population libanaise préférait la protection française à l'intégration dans un État arabe unifié sous la direction de Fayçal. Cette manœuvre a contribué à façonner l'issue de la conférence et a joué un rôle important dans l'établissement des mandats français et britannique au Moyen-Orient, conformément aux accords Sykes-Picot.
Lutte pour l'Indépendance et le Confessionnalisme (1919 - 1943)
La création de l'État libanais moderne en 1921, sous le mandat français, a été marquée par l'adoption d'un système politique communautaire unique, connu sous le nom de "confessionnalisme politique". Ce système visait à gérer la diversité religieuse et ethnique du Liban en allouant le pouvoir politique et les postes gouvernementaux en fonction de la répartition démographique des différentes communautés confessionnelles. Le confessionnalisme libanais a été conçu pour assurer une représentation équitable de toutes les principales communautés religieuses du pays. Selon ce système, les principaux postes de l'État, y compris le Président, le Premier ministre et le Président de l'Assemblée nationale, étaient réservés à des membres de communautés spécifiques : le Président devait être un Maronite chrétien, le Premier ministre un musulman sunnite, et le Président de l'Assemblée un musulman chiite. Cette répartition des postes était basée sur un recensement de la population effectué en 1932.
Bien que conçu pour promouvoir la coexistence pacifique et l'équilibre entre les différentes communautés, ce système a été critiqué pour avoir institutionnalisé les divisions confessionnelles et pour avoir encouragé la politique basée sur l'identité communautaire plutôt que sur les programmes ou les idéologies politiques. De plus, le système était fragile, car il dépendait des données démographiques qui pouvaient changer au fil du temps. Les élites politiques et les dirigeants communautaires, bien qu'initialement favorables à ce système qui leur garantissait une représentation et une influence, ont été de plus en plus frustrés par ses limitations et ses faiblesses. Le système a également été mis sous pression par des facteurs externes, notamment l'afflux de réfugiés palestiniens après la création de l'État d'Israël en 1948 et les idéaux du panarabisme, qui remettaient en question l'ordre politique confessionnel du Liban. Ces facteurs ont contribué à des déséquilibres démographiques et ont accentué les tensions politiques et confessionnelles au sein du pays. Le système confessionnel, bien qu'il ait été une tentative de gérer la diversité du Liban, a finalement été un facteur clé dans l'instabilité politique qui a conduit à la guerre civile libanaise de 1975-1990. Cette guerre a profondément marqué le Liban et a révélé les limites et les défis du système confessionnel dans la gestion de la diversité et de la cohésion nationale.
Guerre Civile Libanaise : Causes et Impact International (1975 - 1990)
La guerre civile libanaise, qui a débuté en 1975, a été influencée par de nombreux facteurs internes et externes, notamment les tensions croissantes liées à la présence palestinienne au Liban. L'arrivée massive de réfugiés et de combattants palestiniens au Liban, particulièrement après les événements de "Septembre Noir" en 1970 en Jordanie, a été un élément déclencheur majeur de la guerre civile. En septembre 1970, le roi Hussein de Jordanie a lancé une campagne militaire pour expulser l'Organisation de libération de la Palestine (OLP) et d'autres groupes armés palestiniens de Jordanie, à la suite de tentatives croissantes de ces groupes de s'immiscer dans les affaires intérieures jordaniennes. Cette campagne, connue sous le nom de "Septembre Noir", a conduit à un afflux important de Palestiniens au Liban, exacerbant les tensions existantes dans le pays. La présence croissante de Palestiniens armés et l'activisme de l'OLP contre Israël à partir du sol libanais ont ajouté une nouvelle dimension au conflit libanais, compliquant davantage la situation politique déjà fragile. Les groupes palestiniens, en particulier dans le sud du Liban, ont souvent été en conflit avec les communautés libanaises locales et ont été impliqués dans des attaques transfrontalières contre Israël.
En réponse à ces attaques et à la présence de l'OLP, Israël a lancé plusieurs opérations militaires au Liban, culminant avec l'invasion du Liban en 1982. L'occupation israélienne du sud du Liban a été motivée par le désir d'Israël de sécuriser ses frontières nord et de démanteler la base d'opérations de l'OLP. La guerre civile libanaise a donc été alimentée par un mélange de tensions internes, de conflits confessionnels, de déséquilibres démographiques et de facteurs externes, y compris les interventions israéliennes et les dynamiques régionales liées au conflit israélo-arabe. Cette guerre, qui a duré jusqu'en 1990, a été dévastatrice pour le Liban, entraînant d'énormes pertes humaines, des déplacements massifs de populations et des destructions généralisées. Elle a profondément transformé la société et la politique libanaises et a laissé des cicatrices qui continuent d'affecter le pays.
Influence Syrienne et Accords de Taëf (1976 - 2005)
La guerre civile libanaise et l'intervention syrienne dans le conflit sont des éléments clés pour comprendre l'histoire récente du Liban. La Syrie, sous la direction de Hafez al-Assad, a joué un rôle complexe et parfois contradictoire dans la guerre civile libanaise. La Syrie, ayant ses propres intérêts géopolitiques au Liban, est intervenue dans le conflit dès 1976. Officiellement, cette intervention était justifiée comme un effort pour stabiliser le Liban et prévenir une escalade du conflit. Cependant, de nombreux observateurs ont noté que la Syrie avait également des ambitions d'expansion et de contrôle sur le Liban, qui était historiquement et culturellement lié à la Syrie. Durant la guerre, la Syrie a soutenu diverses factions et communautés libanaises, souvent en fonction de ses intérêts stratégiques du moment. Cette implication a parfois été perçue comme une tentative de la part de la Syrie d'exercer son influence et de renforcer sa position au Liban. La guerre civile a finalement pris fin avec les Accords de Taëf en 1989, un accord de paix négocié avec le soutien de la Ligue arabe et sous la supervision de la Syrie. Les Accords de Taëf ont redéfini l'équilibre politique confessionnel au Liban, en modifiant le système de partage du pouvoir pour mieux refléter la démographie actuelle du pays. Ils ont également prévu la fin de la guerre civile et l'établissement d'un gouvernement de réconciliation nationale.
Cependant, les accords ont également consolidé l'influence syrienne au Liban. La Syrie a maintenu une présence militaire et une influence politique considérable dans le pays après la guerre, ce qui a été source de tension et de controverse au Liban et dans la région. La présence syrienne au Liban n'a pris fin qu'en 2005, suite à l'assassinat de l'ancien Premier ministre libanais Rafic Hariri, un événement qui a déclenché des protestations massives au Liban et une pression internationale accrue sur la Syrie. La décision de ne pas réaliser de recensement de la population au Liban après la guerre civile reflète les sensibilités autour de la question démographique dans le contexte politique confessionnel libanais. Un recensement pourrait potentiellement perturber l'équilibre délicat sur lequel le système politique libanais est construit, en révélant des changements démographiques susceptibles de remettre en question la répartition actuelle du pouvoir entre les différentes communautés.
Assassinat de Rafiq Hariri et la Révolution du Cèdre (2005)
L'assassinat de Rafiq Hariri, Premier ministre libanais, le 14 février 2005, a été un moment décisif dans l'histoire récente du Liban. Hariri était une figure populaire, connue pour sa politique de reconstruction post-guerre civile et ses efforts pour rétablir Beyrouth en tant que centre financier et culturel. Son assassinat a provoqué une onde de choc à travers le pays et a déclenché des accusations contre la Syrie, soupçonnée d'être impliquée dans cet acte. L'assassinat a déclenché la "Révolution du Cèdre", une série de vastes manifestations pacifiques exigeant la fin de l'influence syrienne au Liban et la vérité sur l'assassinat de Hariri. Ces manifestations, auxquelles ont participé des centaines de milliers de Libanais de toutes confessions, ont mis une pression considérable sur la Syrie. Sous le poids de cette pression populaire et de la condamnation internationale, la Syrie a finalement retiré ses troupes du Liban en avril 2005, mettant fin à près de 30 ans de présence militaire et politique dans le pays.
Le Liban Contemporain : Défis Politiques et Sociaux (2005 - Présent)
Parallèlement, le Hezbollah, un groupe islamiste chiite et une organisation militaire fondée en 1982, est devenu un acteur clé dans la politique libanaise. Le Hezbollah a été fondé avec le soutien de l'Iran dans le contexte de l'invasion israélienne du Liban en 1982 et a grandi pour devenir à la fois un mouvement politique et une milice puissante. Le parti a refusé de se désarmer après la guerre civile, invoquant la nécessité de défendre le Liban contre Israël. Le conflit de 2006 entre Israël et le Hezbollah a davantage renforcé la position du Hezbollah en tant que force majeure dans la résistance arabe contre Israël. Le conflit a commencé lorsque le Hezbollah a capturé deux soldats israéliens, déclenchant une réponse militaire intense d'Israël au Liban. Malgré les destructions massives et les pertes humaines au Liban, le Hezbollah est sorti du conflit avec une image renforcée de résistance contre Israël, gagnant un soutien considérable parmi certaines parties de la population libanaise et dans le monde arabe en général. Ces événements ont considérablement influencé la dynamique politique libanaise, révélant les divisions profondes au sein du pays et les défis persistants pour la stabilité et la souveraineté du Liban. La période post-2005 a été marquée par des tensions politiques continues, des crises économiques et des défis sécuritaires, reflétant la complexité du paysage politique et confessionnel du Liban.
Jordanie
Mandat Britannique et Division Territoriale (Début 20ème siècle - 1922)
Pour comprendre la formation de la Jordanie, il est essentiel de remonter à la période du mandat britannique sur la Palestine après la Première Guerre mondiale. La Grande-Bretagne, en obtenant le mandat sur la Palestine à la suite de la Conférence de San Remo en 1920, s'est retrouvée à la tête d'un territoire complexe et conflictuel. Une des premières actions des Britanniques fut de diviser ce mandat en deux zones distinctes lors de la conférence du Caire en 1922 : d'une part, la Palestine, et d'autre part, les émirats de Transjordanie. Cette division reflétait à la fois des considérations géopolitiques et le désir de répondre aux aspirations des populations locales. Abdallah, l'un des fils du Chérif Hussein de La Mecque, jouait un rôle important dans la région, notamment en menant des révoltes contre les Ottomans. Pour apaiser et contenir son influence, les Britanniques ont décidé de le nommer émir de Transjordanie. Cette décision a été en partie motivée par le désir de stabiliser la région et de créer un allié fiable pour les Britanniques.
La question de l'immigration juive en Palestine était une source majeure de tension durant cette période. Les sionistes, qui aspiraient à la création d'un foyer national juif en Palestine, ont protesté contre la politique britannique interdisant l'immigration juive en Transjordanie, considérant que cela restreignait les possibilités de colonisation juive dans une partie du territoire du mandat.
Indépendance et Formation de l'État Jordanien (1946 - 1948)
Le fleuve Jourdain a joué un rôle déterminant dans la distinction entre la Transjordanie (à l'est du Jourdain) et la Cisjordanie (à l'ouest). Ces termes géographiques ont été utilisés pour décrire les régions situées de part et d'autre du fleuve Jourdain. La formation de la Jordanie en tant qu'État indépendant a été un processus graduel. En 1946, la Transjordanie a obtenu son indépendance de la Grande-Bretagne, et Abdallah est devenu le premier roi du royaume hachémite de Jordanie. La Jordanie, comme la Palestine, a été profondément affectée par les développements régionaux, notamment la création de l'État d'Israël en 1948 et les conflits arabes-israéliens qui ont suivi. Ces événements ont eu un impact considérable sur la politique et la société jordaniennes dans les décennies suivantes.
La Légion arabe a joué un rôle significatif dans l'histoire de la Jordanie et dans le conflit israélo-arabe. Fondée dans les années 1920 sous le mandat britannique, la Légion arabe était une force militaire jordanienne qui a opéré sous la supervision de conseillers militaires britanniques. Cette force a été cruciale pour maintenir l'ordre dans le territoire de la Transjordanie et a servi de base à l'armée jordanienne moderne. À la fin du mandat britannique en 1946, la Transjordanie, sous le règne du roi Abdallah, a obtenu son indépendance, devenant le Royaume hachémite de Jordanie. L'indépendance de la Jordanie a marqué un tournant dans l'histoire du Moyen-Orient, en faisant du pays un acteur clé de la région.
Conflits Israélo-Arabes et Impact sur la Jordanie (1948 - 1950)
En 1948, la déclaration d'indépendance d'Israël a déclenché la première guerre israélo-arabe. Les États arabes voisins, dont la Jordanie, ont refusé de reconnaître la légitimité d'Israël et ont engagé des forces militaires pour s'opposer à l'État nouvellement formé. La Légion arabe jordanienne, considérée comme l'une des forces armées les plus efficaces parmi les pays arabes à cette époque, a joué un rôle majeur dans ce conflit. Durant la guerre de 1948, la Jordanie, sous le commandement du roi Abdallah, a occupé la Cisjordanie, une région à l'ouest du Jourdain qui faisait partie du mandat britannique sur la Palestine. À la fin de la guerre, la Jordanie a annexé officiellement la Cisjordanie, une décision qui a été largement reconnue dans le monde arabe mais pas par la communauté internationale. Cette annexion a inclus Jérusalem-Est, qui a été proclamée capitale de la Jordanie aux côtés d'Amman. L'annexion de la Cisjordanie par la Jordanie a eu d'importantes implications pour les relations israélo-arabes et le conflit palestinien. Elle a également façonné la politique intérieure jordanienne, car la population palestinienne de la Cisjordanie est devenue une partie importante de la société jordanienne. Cette période de l'histoire jordanienne a continué à influencer la politique et les relations internationales du pays dans les décennies suivantes.
La période suivant l'annexion de la Cisjordanie par la Jordanie en 1948 a été marquée par des évolutions politiques et sociales importantes. En 1950, la Jordanie a officiellement annexé la Cisjordanie, une décision qui a eu des conséquences durables sur la composition démographique et politique du pays. Suite à cette annexion, la moitié des sièges du parlement jordanien a été allouée à des députés palestiniens, reflétant la nouvelle réalité démographique de la Jordanie unifiée, qui comprenait désormais une importante population palestinienne. Cette intégration politique des Palestiniens en Jordanie a souligné l'ampleur de l'annexion de la Cisjordanie et a été vue par certains comme un effort pour légitimer le contrôle jordanien sur le territoire. Cependant, ce mouvement a également suscité des tensions, tant au sein de la population palestinienne que parmi les nationalistes palestiniens, qui aspiraient à l'indépendance et à la création d'un État palestinien distinct.
Des rumeurs d'accords secrets entre la Jordanie et Israël concernant des questions de souveraineté et de territoire ont alimenté le mécontentement parmi les nationalistes palestiniens. En 1951, le roi Abdallah, qui avait été un acteur clé de l'annexion de la Cisjordanie et avait cherché à maintenir de bonnes relations avec les Israéliens, a été assassiné à Jérusalem par un nationaliste palestinien. Cet assassinat a souligné les divisions profondes et les tensions politiques relatives à la question palestinienne. La guerre des Six Jours en 1967 a été un autre tournant majeur pour la Jordanie et la région. Israël a capturé la Cisjordanie, Jérusalem-Est, et d'autres territoires lors de ce conflit, mettant fin au contrôle jordanien sur ces régions. Cette perte a eu un impact profond sur la Jordanie, tant sur le plan politique que démographique, et a exacerbé la question palestinienne, qui est restée un enjeu central dans les affaires intérieures et la politique étrangère de la Jordanie. La guerre de 1967 a également contribué à l'émergence de l'Organisation de libération de la Palestine (OLP) comme le principal représentant des Palestiniens et a influencé la trajectoire du conflit israélo-arabe dans les années suivantes.
Règne du Roi Hussein et Défis Internes (1952 - 1999)
Le roi Hussein de Jordanie, petit-fils du roi Abdallah, a régné sur le pays de 1952 jusqu'à sa mort en 1999. Son règne a été marqué par des défis majeurs, dont la question de la population palestinienne en Jordanie et les ambitions panarabes du roi.
Le roi Hussein a hérité d'une situation complexe avec une population palestinienne importante en Jordanie, résultant de l'annexion de la Cisjordanie en 1948 et de l'afflux de réfugiés palestiniens après la création d'Israël et la guerre des Six Jours en 1967. La gestion de cette question palestinienne est restée un défi majeur tout au long de son règne, avec des tensions politiques et sociales internes croissantes. L'un des moments les plus critiques de son règne a été la crise de "Septembre Noir" en 1970. Face à une montée en puissance des combattants palestiniens de l'OLP en Jordanie, qui menaçait la souveraineté et la stabilité du royaume, le roi Hussein a ordonné une intervention militaire brutale pour reprendre le contrôle des camps de réfugiés et des villes où l'OLP était fortement présente. Cette intervention a abouti à l'expulsion de l'OLP et de ses combattants du territoire jordanien, qui ont ensuite établi leur quartier général au Liban.
Malgré sa participation aux guerres israélo-arabes, notamment la guerre du Kippour en 1973, le roi Hussein a maintenu des relations discrètes mais significatives avec Israël. Ces relations, souvent en désaccord avec les positions d'autres États arabes, étaient motivées par des considérations stratégiques et sécuritaires. La Jordanie et Israël partageaient des préoccupations communes, notamment en ce qui concerne la stabilité régionale et la question palestinienne. Le roi Hussein a finalement joué un rôle clé dans les efforts de paix au Moyen-Orient. En 1994, la Jordanie a signé un traité de paix avec Israël, devenant le deuxième pays arabe, après l'Égypte, à normaliser officiellement les relations avec Israël. Ce traité a marqué une étape importante dans les relations israélo-arabes et a reflété la volonté du roi Hussein de rechercher une résolution pacifique au conflit israélo-arabe, malgré les défis et les controverses que cela impliquait.
Le Roi Abdallah II et la Jordanie Moderne (1999 - Présent)
À la mort du roi Hussein de Jordanie en 1999, son fils, Abdallah II, lui a succédé sur le trône. L'accession d'Abdallah II au pouvoir a marqué le début d'une nouvelle ère pour la Jordanie, bien que le nouveau roi ait hérité de nombreux défis politiques, économiques et sociaux de son père. Abdallah II, éduqué à l'étranger et ayant une expérience militaire, a pris la tête d'un pays confronté à des défis internes complexes, notamment la gestion des relations avec la population palestinienne, l'équilibre entre les pressions démocratiques et la stabilité du royaume, et les problèmes économiques persistants. Sur le plan international, la Jordanie, sous son règne, a continué à jouer un rôle important dans les questions régionales, notamment le conflit israélo-arabe et les crises dans les pays voisins. Le roi Abdallah II a poursuivi les efforts de son père pour moderniser le pays et améliorer l'économie. Il a également cherché à promouvoir la Jordanie en tant qu'intermédiaire et médiateur dans les conflits régionaux, tout en maintenant des relations étroites avec les pays occidentaux, en particulier les États-Unis.
La politique extérieure d'Abdallah II a été marquée par un équilibre entre le maintien de relations solides avec les pays occidentaux et la navigation dans les dynamiques complexes du Moyen-Orient. La Jordanie, sous son règne, a continué de jouer un rôle actif dans les efforts de paix au Moyen-Orient et a été confrontée à l'impact des crises dans les pays voisins, notamment l'Irak et la Syrie. Sur le plan interne, Abdallah II a fait face à des appels à des réformes politiques et économiques plus importantes. Les soulèvements du Printemps arabe en 2011 ont également eu un impact sur la Jordanie, bien que le pays ait réussi à éviter l'instabilité à grande échelle observée dans d'autres parties de la région. Le roi a répondu à certains de ces défis par des réformes politiques progressives et des efforts pour améliorer l'économie du pays.
La trajectoire historique des Hachémites, qui ont joué un rôle crucial dans les événements du Moyen-Orient au début du 20ème siècle, est marquée par des promesses non tenues et des ajustements politiques majeurs. La famille hachémite, originaire de la région du Hedjaz en Arabie, a été au cœur des ambitions arabes pour l'indépendance et l'unité durant et après la Première Guerre mondiale. Leurs aspirations à un grand État arabe unifié ont été encouragées, puis déçues par les puissances européennes, en particulier la Grande-Bretagne.
Le roi Hussein bin Ali, le patriarche des Hachémites, avait aspiré à la création d'un grand royaume arabe s'étendant sur une grande partie du Moyen-Orient. Cependant, les accords Sykes-Picot de 1916 et la Déclaration Balfour de 1917, ainsi que d'autres développements politiques, ont progressivement réduit ces aspirations. Finalement, les Hachémites n'ont régné que sur la Transjordanie (la Jordanie moderne) et l'Irak, où un autre fils de Hussein, Fayçal, est devenu roi. En ce qui concerne la Palestine, la Jordanie, sous le règne du roi Hussein, a eu une implication importante jusqu'aux Accords d'Oslo dans les années 1990. Après la guerre des Six Jours en 1967 et la perte de la Cisjordanie par la Jordanie au profit d'Israël, le roi Hussein a continué à revendiquer la souveraineté sur le territoire palestinien, malgré l'absence de contrôle effectif.
Cependant, avec les Accords d'Oslo en 1993, qui ont établi une reconnaissance mutuelle entre Israël et l'Organisation de libération de la Palestine (OLP) et ont jeté les bases de l'autonomie palestinienne, la Jordanie a dû réévaluer sa position. En 1988, le roi Hussein avait déjà renoncé officiellement à toutes les revendications jordaniennes sur la Cisjordanie en faveur de l'OLP, reconnaissant le droit du peuple palestinien à l'autodétermination. Les Accords d'Oslo ont consolidé cette réalité, confirmant l'OLP comme représentant légitime du peuple palestinien et marginalisant davantage le rôle de la Jordanie dans les affaires palestiniennes. Les Accords d'Oslo ont donc marqué la fin des ambitions jordaniennes sur la Palestine, orientant le processus de paix vers une négociation directe entre Israéliens et Palestiniens, avec la Jordanie et d'autres acteurs régionaux jouant un rôle de soutien plutôt que de protagonistes principaux.
Jordanie et Relations Internationales : Alliance Stratégique avec les États-Unis
La Jordanie, depuis sa création en tant qu'État indépendant en 1946, a joué un rôle stratégique dans la politique du Moyen-Orient, équilibrant habilement les relations internationales, notamment avec les États-Unis. Cette relation privilégiée avec Washington a été essentielle pour la Jordanie, non seulement en termes d'aide économique et militaire, mais aussi en tant que soutien diplomatique dans une région souvent marquée par l'instabilité et les conflits. L'aide économique et militaire américaine a été un pilier du développement et de la sécurité de la Jordanie. Les États-Unis ont fourni une assistance substantielle pour renforcer les capacités défensives de la Jordanie, soutenir son développement économique et l'aider à gérer les crises humanitaires, comme l'afflux massif de réfugiés syriens et irakiens. Cette aide a permis à la Jordanie de maintenir sa stabilité intérieure et de jouer un rôle actif dans la promotion de la paix et de la sécurité régionales. Sur le plan militaire, la coopération entre la Jordanie et les États-Unis a été étroite et fructueuse. Les exercices militaires conjoints et les programmes de formation ont renforcé les liens entre les deux pays et ont amélioré la capacité de la Jordanie à contribuer à la sécurité régionale. Cette coopération militaire est également un élément crucial pour la Jordanie dans le contexte de la lutte contre le terrorisme et l'extrémisme. Diplomatiquement, la Jordanie a souvent agi en tant qu'intermédiaire dans les conflits régionaux, un rôle qui correspond aux intérêts des États-Unis dans la région. La Jordanie a été impliquée dans les efforts de paix israélo-palestiniens et a joué un rôle de modérateur dans les crises en Syrie et en Irak. La position géographique de la Jordanie, sa stabilité relative et ses relations avec les États-Unis en font un acteur clé dans les efforts de médiation et de résolution des conflits dans la région.
La relation entre la Jordanie et les États-Unis n'est pas seulement une alliance stratégique; elle est aussi le reflet d'une compréhension partagée des enjeux de la région. Les deux pays partagent des objectifs communs en matière de lutte contre le terrorisme, de promotion de la stabilité régionale et de recherche de solutions diplomatiques aux conflits. Cette relation est donc essentielle pour la Jordanie, lui permettant de naviguer dans les défis complexes du Moyen-Orient tout en bénéficiant du soutien d'une puissance mondiale majeure.
Irak
Formation de l'État Irakien (Post-Première Guerre mondiale)
La formation de l'Irak en tant qu'État moderne est une conséquence directe de la dissolution de l'Empire ottoman à la suite de la Première Guerre mondiale. L'Irak, tel que nous le connaissons aujourd'hui, est né de la fusion de trois provinces ottomanes historiques : Mossoul, Bagdad et Bassora. Cette fusion, orchestrée par les puissances coloniales, en particulier la Grande-Bretagne, a façonné non seulement les frontières de l'Irak mais aussi sa dynamique interne complexe.
La province de Mossoul, située dans le nord de l'Irak actuel, était une région stratégique, notamment en raison de ses riches réserves pétrolières. La composition ethnique de Mossoul, avec une présence significative de Kurdes, a ajouté une dimension supplémentaire à la complexité politique de l'Irak. Après la guerre, le statut de Mossoul a fait l'objet d'un débat international, les Turcs et les Britanniques revendiquant chacun la région. Finalement, la Société des Nations a tranché en faveur de l'Irak, intégrant ainsi Mossoul dans le nouvel État. Le vilayet de Bagdad, au centre, était le cœur historique et culturel de la région. Bagdad, une ville avec une riche histoire remontant à l'ère des califats, a continué à jouer un rôle central dans la vie politique et culturelle de l'Irak. La diversité ethnique et religieuse de la province de Bagdad a été un facteur clé dans les dynamiques politiques de l'Irak moderne. Quant à la province de Bassora, dans le sud, cette région majoritairement peuplée d'Arabes chiites, a été un important centre commercial et portuaire. Les liens de Bassora avec le Golfe Persique et le monde arabe ont été cruciaux pour l'économie irakienne et ont influencé les relations extérieures de l'Irak.
La fusion de ces trois provinces distinctes en un seul État sous le mandat britannique n'a pas été sans difficultés. La gestion des tensions ethniques, religieuses et tribales a été un défi constant pour les dirigeants irakiens. L'importance stratégique de l'Irak a été renforcée par la découverte de pétrole, attirant l'attention des puissances occidentales et influençant profondément le développement politique et économique du pays. Les décisions prises pendant et après la période du mandat britannique ont posé les bases des complexités politiques et sociales de l'Irak, qui ont continué à se manifester tout au long de son histoire moderne, y compris pendant le règne de Saddam Hussein et au-delà. La formation de l'Irak, un mélange de diverses régions et groupes, a été un facteur clé dans les nombreux défis auxquels le pays a été confronté dans le siècle suivant.
Influence Britannique et Intérêts Pétroliers (Début 20ème siècle)
La fascination de la Grande-Bretagne pour l'Irak dans la première moitié du 20ème siècle s'inscrit dans le cadre plus large de la politique impériale britannique, où la géostratégie et les ressources naturelles jouaient un rôle prépondérant. L'Irak, avec son accès direct au Golfe Persique et sa proximité avec la Perse riche en pétrole, est rapidement devenu un territoire d'intérêt majeur pour la Grande-Bretagne, qui cherchait à étendre son influence au Moyen-Orient. L'importance stratégique de l'Irak était liée à sa position géographique, offrant un accès au Golfe Persique, une voie d'eau cruciale pour le commerce et les communications maritimes. Ce contrôle offrait à la Grande-Bretagne un avantage dans la sécurisation des routes commerciales et maritimes vitales, en particulier en lien avec son empire colonial en Inde et au-delà. Le pétrole, devenu une ressource stratégiquement vitale au début du 20ème siècle, a accentué l'intérêt britannique pour l'Irak et la région environnante. La découverte de pétrole en Perse (Iran actuel) par la Anglo-Persian Oil Company (qui deviendra plus tard British Petroleum, ou BP) a mis en lumière le potentiel pétrolier de la région. La Grande-Bretagne, soucieuse de sécuriser ses approvisionnements en pétrole pour sa marine et son industrie, a vu dans l'Irak un territoire clé pour ses intérêts énergétiques.
Le mandat britannique en Irak, établi par la Société des Nations après la Première Guerre mondiale, a donné à la Grande-Bretagne un contrôle considérable sur la formation de l'État irakien. Cependant, cette période a été marquée par des tensions et des résistances, comme en témoigne la révolte irakienne de 1920, une réaction significative à la domination britannique et aux tentatives d'implanter des structures administratives et politiques étrangères. Les actions britanniques en Irak étaient guidées par une combinaison d'objectifs impériaux et de nécessités pratiques. Alors que le 20ème siècle progressait, l'Irak est devenu un enjeu de plus en plus complexe dans la politique britannique, surtout avec l'émergence du nationalisme arabe et la montée des revendications pour l'indépendance. Le rôle de la Grande-Bretagne en Irak, et plus largement au Moyen-Orient, a donc été un mélange de stratégie impériale, de gestion des ressources naturelles et de réponse aux dynamiques politiques en constante évolution de la région.
Rôle de Mossoul et Diversité Ethnique (Début 20ème siècle)
La région de Mossoul, dans le nord de l'Irak, a toujours été d'une importance cruciale dans le contexte historique et politique du Moyen-Orient. Sa signification est due à plusieurs facteurs clés qui en ont fait un territoire convoité au fil des siècles, notamment par la Grande-Bretagne durant l'ère coloniale. La découverte de pétrole dans la région de Mossoul a été un tournant majeur. Au début du 20ème siècle, alors que l'importance du pétrole comme ressource stratégique mondiale devenait de plus en plus évidente, Mossoul est apparue comme un territoire d'une immense valeur économique. Les réserves pétrolières substantielles de la région ont attiré l'attention des puissances impériales, particulièrement de la Grande-Bretagne, qui cherchait à sécuriser les sources de pétrole pour ses besoins industriels et militaires. Cette richesse en hydrocarbures a non seulement stimulé l'intérêt international pour Mossoul, mais a également joué un rôle déterminant dans la formation de la politique et de l'économie irakiennes au cours du siècle suivant. En outre, la position géographique de Mossoul, à proximité des sources des fleuves Tigre et Euphrate, lui confère une importance stratégique particulière. Le contrôle des sources d'eau dans cette région aride est vital pour l'agriculture, l'économie et la vie quotidienne. Cette importance géographique a fait de Mossoul un enjeu dans les relations internationales et les dynamiques régionales, en particulier dans le contexte des tensions liées à la répartition de l'eau dans la région. Le contrôle de Mossoul était également perçu comme essentiel pour la stabilité de l'ensemble de l'Irak. En raison de sa diversité ethnique et culturelle, avec une population composée de Kurdes, d'Arabes, de Turkmènes, d'Assyriens et d'autres groupes, la région a été un carrefour culturel et politique important. La gestion de cette diversité et l'intégration de Mossoul dans l'État irakien ont été des défis constants pour les gouvernements irakiens successifs. Le maintien de la stabilité dans la région du nord était crucial pour la cohésion et l'unité nationales de l'Irak.
Contribution de Gertrude Bell et Fondations de l'Irak Moderne (Début 20ème siècle)
La contribution de Gertrude Bell à la formation de l'Irak moderne est un exemple éloquent de l'influence occidentale dans la redéfinition des frontières et des identités nationales au Moyen-Orient au début du 20ème siècle. Bell, une archéologue et administratrice coloniale britannique, a joué un rôle crucial dans la création de l'État irakien, notamment en préconisant l'utilisation du terme « Irak », un nom d'origine arabe, au lieu de « Mésopotamie », d'origine grecque. Ce choix symbolisait une reconnaissance de l'identité arabe de la région, par opposition à une désignation imposée par des puissances étrangères. Cependant, comme l'a souligné Pierre-Jean Luisard dans son analyse de la question irakienne, les fondations de l'Irak moderne ont également été le berceau de problèmes futurs. La structure de l'Irak, conçue et mise en œuvre par des puissances coloniales, a réuni sous un même état des groupes ethniques et religieux divers, créant ainsi un terrain propice à des tensions et des conflits persistants. La domination des sunnites, souvent minoritaires, sur les chiites, majoritaires, a engendré des tensions sectaires et des conflits, exacerbés par des politiques discriminatoires et des différences idéologiques. De plus, la marginalisation des Kurdes, un groupe ethnique important dans le nord de l'Irak, a alimenté des revendications d'autonomie et de reconnaissance, souvent réprimées par le gouvernement central.
Ces tensions internes ont été exacerbées sous le régime de Saddam Hussein, qui a régi l'Irak d'une main de fer, exacerbant les divisions sectaires et ethniques. La guerre Iran-Irak (1980-1988), la campagne d'Anfal contre les Kurdes, et l'invasion du Koweït en 1990 sont des exemples de la façon dont les politiques internes et externes de l'Irak ont été influencées par ces dynamiques de pouvoir. L'invasion de l'Irak en 2003 par une coalition menée par les États-Unis et la chute de Saddam Hussein ont ouvert une nouvelle période de conflit et d'instabilité, révélant la fragilité des fondations sur lesquelles l'État irakien avait été construit. Les années qui ont suivi ont été marquées par une violence sectaire accrue, des luttes de pouvoir internes et l'émergence de groupes extrémistes comme l'État islamique, qui ont profité du vide politique et de la désintégration de l'ordre étatique. L'histoire de l'Irak est celle d'un État façonné par des influences étrangères et confronté à des défis internes complexes. La contribution de Gertrude Bell, bien que significative dans la formation de l'Irak, s'inscrit dans un contexte plus vaste de construction nationale et de conflits qui ont continué à façonner le pays bien au-delà de sa fondation.
Stratégie de 'Diviser pour Régner' et Domination Sunnite (Début 20ème siècle)
La méthode coloniale adoptée par la Grande-Bretagne dans la création et la gestion de l'Irak est un exemple classique de la stratégie de "diviser pour régner", qui a eu des répercussions profondes sur la structure politique et sociale de l'Irak. Selon cette approche, les puissances coloniales favorisaient souvent une minorité au sein de la société pour la maintenir au pouvoir, assurant ainsi sa dépendance et sa loyauté envers la métropole, tout en affaiblissant l'unité nationale. Dans le cas de l'Irak, les Britanniques ont installé la minorité sunnite au pouvoir, malgré le fait que les chiites constituaient la majorité de la population. En 1920, Fayçal Ier, un membre de la famille royale hachémite, a été installé comme le souverain de l'Irak nouvellement formé. Fayçal, bien qu'ayant des racines dans la Péninsule Arabique, a été choisi par les Britanniques pour sa légitimité panarabe et sa capacité présumée à unifier les divers groupes ethniques et religieux sous son règne. Cependant, cette décision a exacerbé les tensions sectaires et ethniques dans le pays. Les chiites et les Kurdes, se sentant marginalisés et exclus du pouvoir politique, ont rapidement manifesté leur mécontentement. Dès 1925, des soulèvements chiites et kurdes ont éclaté en réponse à cette marginalisation et aux politiques mises en œuvre par le gouvernement dominé par les sunnites. Ces contestations ont été violemment réprimées, parfois avec l'aide de la Royal Air Force britannique, dans le but de stabiliser l'État et de maintenir le contrôle colonial. L'utilisation de la force pour mater les révoltes chiites et kurdes a posé les bases d'une instabilité persistante en Irak. La domination sunnite, soutenue par les Britanniques, a engendré un ressentiment durable parmi les populations chiites et kurdes, contribuant à des cycles de rébellion et de répression qui ont marqué l'histoire irakienne tout au long du 20ème siècle. Cette dynamique a également alimenté un sentiment nationaliste parmi les chiites et les Kurdes, renforçant leur aspiration à une plus grande autonomie, voire à l'indépendance, en particulier dans la région kurde du nord de l'Irak.
Indépendance et Influence Britannique Continuée (1932)
L'accession de l'Irak à l'indépendance en 1932 représente un moment charnière dans l'histoire du Moyen-Orient, soulignant la complexité de la décolonisation et l'influence continue des puissances coloniales. L'Irak est devenu le premier État, créé de toutes pièces par un mandat de la Société des Nations à la suite de la Première Guerre mondiale, à obtenir formellement son indépendance. Cet événement a marqué une étape importante dans l'évolution de l'Irak de protectorat britannique à État souverain. L'adhésion de l'Irak à la Société des Nations en 1932 a été saluée comme un signe de son statut de nation indépendante et souveraine. Cependant, cette indépendance était en pratique entravée par le maintien d'une influence britannique considérable sur les affaires intérieures irakiennes. Bien que l'Irak ait officiellement obtenu sa souveraineté, les Britanniques ont continué à exercer un contrôle indirect sur le pays.
Ce contrôle s'exprimait notamment dans l'administration gouvernementale irakienne, où chaque ministre irakien avait un assistant britannique. Ces assistants, souvent des administrateurs expérimentés, avaient un rôle de conseil, mais leur présence symbolisait aussi la mainmise britannique sur la politique irakienne. Cette situation a créé un environnement où la souveraineté irakienne était en partie entravée par l'influence et les intérêts britanniques. Cette période de l'histoire irakienne a également été marquée par des tensions internes et des défis politiques. Le gouvernement irakien, bien que souverain, devait naviguer dans un paysage complexe de divisions ethniques et religieuses, tout en gérant les attentes et les pressions des anciennes puissances coloniales. Cette dynamique a contribué à des périodes d'instabilité et à des conflits internes, reflétant les difficultés inhérentes à la transition de l'Irak de mandat à nation indépendante. L'indépendance de l'Irak en 1932, bien qu'étant un jalon important, n'a donc pas mis fin à l'influence étrangère dans le pays. Au contraire, elle a marqué le début d'une nouvelle phase de relations internationales et de défis intérieurs pour l'Irak, façonnant son développement politique et social dans les décennies suivantes.
Coup d'État de 1941 et Intervention Britannique (1941)
En 1941, l'Irak a été le théâtre d'un événement critique qui a illustré la fragilité de son indépendance et la persistance de l'influence britannique dans le pays. Ce fut l'année du coup d'État mené par Rashid Ali al-Gaylani, qui a déclenché une série d'événements aboutissant à une intervention militaire britannique. Rashid Ali, qui avait déjà occupé le poste de Premier ministre, a mené un coup d'État contre le gouvernement pro-britannique en place. Ce coup d'État a été motivé par divers facteurs, notamment le nationalisme arabe, l'opposition à la présence et à l'influence britanniques en Irak, et les sentiments anti-coloniaux croissants parmi certaines factions de l'élite politique et militaire irakienne.
La prise de pouvoir par Rashid Ali a été perçue comme une menace directe par la Grande-Bretagne, notamment en raison de la position stratégique de l'Irak pendant la Seconde Guerre mondiale. L'Irak, avec son accès au pétrole et sa position géographique, était crucial pour les intérêts britanniques dans la région, en particulier dans le contexte de la guerre contre les puissances de l'Axe. En réponse au coup d'État, la Grande-Bretagne est rapidement intervenue militairement. Les forces britanniques, craignant que l'Irak ne tombe sous l'influence de l'Axe ou ne perturbe les voies de ravitaillement et d'accès au pétrole, ont lancé une campagne pour renverser Rashid Ali et restaurer un gouvernement favorable aux Britanniques. L'opération a été rapide et décisive, mettant fin au bref règne de Rashid Ali. À la suite de cette intervention, la Grande-Bretagne a placé un nouveau roi au pouvoir, réaffirmant ainsi son influence sur la politique irakienne. Cette période a souligné la vulnérabilité de l'Irak aux interventions étrangères et a mis en évidence les limites de son indépendance souveraine. L'intervention britannique de 1941 a également eu des répercussions durables sur la politique irakienne, alimentant un sentiment anti-britannique et anti-colonial qui a continué à influencer les événements politiques futurs dans le pays.
Irak pendant la Guerre Froide et Pacte de Bagdad (1955)
L'histoire de l'Irak pendant la Guerre froide est un exemple de la manière dont les intérêts géopolitiques des superpuissances ont continué à influencer et façonner la politique interne et externe des pays de la région. Durant cette période, l'Irak est devenu un acteur clé dans le cadre des stratégies de "containment" menées par les États-Unis contre l'Union Soviétique.
En 1955, l'Irak a joué un rôle majeur dans la formation du Pacte de Bagdad, une alliance militaire et politique initiée par les États-Unis. Ce pacte, aussi connu sous le nom de Pacte du Moyen-Orient, visait à établir un cordon de sécurité dans la région pour contrer l'influence et l'expansion de l'Union Soviétique. Outre l'Irak, le pacte incluait la Turquie, l'Iran, le Pakistan et le Royaume-Uni, formant ainsi un front uni contre le communisme dans une région stratégiquement importante. Le Pacte de Bagdad était en accord avec la politique de "containment" des États-Unis, qui cherchait à limiter l'expansion soviétique à travers le monde. Cette politique était motivée par la perception d'une menace soviétique croissante et la volonté d'empêcher la propagation du communisme, en particulier dans des zones stratégiques comme le Moyen-Orient, riche en ressources pétrolières.
L'implication de l'Irak dans le Pacte de Bagdad a cependant eu des implications internes. Cette alliance avec les puissances occidentales a été controversée au sein de la population irakienne et a exacerbé les tensions politiques internes. Le pacte était perçu par beaucoup comme une continuation de l'ingérence étrangère dans les affaires irakiennes et a alimenté le sentiment nationaliste et anti-occidental parmi certaines factions. En 1958, l'Irak a connu un coup d'État qui a renversé la monarchie et a établi la République d'Irak. Ce coup d'État a été largement motivé par des sentiments anti-occidentaux et par l'opposition à la politique étrangère pro-occidentale de la monarchie. Après le coup d'État, l'Irak s'est retiré du Pacte de Bagdad, marquant un changement significatif dans sa politique étrangère et soulignant la complexité de sa position géopolitique pendant la Guerre froide.
Révolution de 1958 et Montée du Baasisme (1958)
La révolution de 1958 en Irak a été un tournant décisif dans l'histoire moderne du pays, marquant la fin de la monarchie et l'établissement de la République. Cette période de changement politique et social profond en Irak coïncidait avec des développements politiques majeurs dans d'autres parties du monde arabe, en particulier la formation de la République arabe unie (RAU) par l'Égypte et la Syrie. Abdel Karim Kassem, un officier de l'armée irakienne, a joué un rôle clé dans le coup d'État de 1958 qui a renversé la monarchie hachémite en Irak. Après la révolution, Kassem est devenu le premier Premier ministre de la République d'Irak. Sa prise de pouvoir a été accueillie par un large soutien populaire, car beaucoup voyaient en lui un leader capable de mener l'Irak vers une ère de réformes et d'indépendance accrue vis-à-vis des influences étrangères. En parallèle, en 1958, l'Égypte et la Syrie ont fusionné pour former la République arabe unie, un effort d'unification panarabe sous la direction du président égyptien Gamal Abdel Nasser. La RAU représentait une tentative d'unité politique entre les nations arabes, fondée sur le nationalisme arabe et l'anti-impérialisme. Cependant, Abdel Karim Kassem a choisi de ne pas rejoindre la RAU. Il avait ses propres visions pour l'Irak, qui différaient du modèle de Nasser.
Kassem s'est concentré sur la consolidation du pouvoir en Irak et a cherché à renforcer son soutien interne en se rapprochant de groupes souvent marginalisés dans la société irakienne, notamment les Kurdes et les chiites. Sous son régime, l'Irak a connu une période de réformes sociales et économiques. Kassem a notamment promulgué des réformes agraires et a travaillé à la modernisation de l'économie irakienne. Cependant, son gouvernement a également été marqué par des tensions politiques et des conflits. La politique de Kassem envers les Kurdes et les chiites, bien que visant à l'inclusion, a également suscité des tensions avec d'autres groupes et puissances régionales. De plus, son régime a été confronté à des défis de stabilité et à des oppositions internes, y compris des tentatives de coup d'État et des conflits avec des factions politiques rivales.
La période post-révolutionnaire en Irak, au début des années 1960, a été marquée par des changements politiques rapides et souvent violents, avec l'émergence du baasisme comme force politique significative. Abdel Karim Kassem, après avoir dirigé l'Irak depuis la révolution de 1958, a été renversé et tué en 1963 lors d'un coup d'État. Ce coup d'État a été orchestré par un groupe de nationalistes arabes et de membres du parti Baas, une organisation politique panarabe socialiste. Le parti Baas, fondé en Syrie, avait gagné en influence dans plusieurs pays arabes, y compris en Irak, et prônait l'unité arabe, le socialisme et la laïcité. Abdel Salam Aref, qui a remplacé Kassem à la tête de l'Irak, était un membre du parti Baas et avait des opinions politiques différentes de celles de son prédécesseur. Contrairement à Kassem, Aref était favorable à l'idée de la République arabe unie et soutenait le concept d'unité panarabe. Son accession au pouvoir a marqué un changement significatif dans la politique irakienne, avec un mouvement vers des politiques plus alignées sur les idéaux baasistes.
La mort d'Abdel Salam Aref dans un accident d'hélicoptère en 1966 a conduit à une autre transition de pouvoir. Son frère, Abdul Rahman Aref, lui a succédé en tant que président. La période de gouvernance des frères Aref a été une époque où le baasisme a commencé à prendre pied en Irak, bien que leur régime ait également été marqué par des instabilités et des luttes de pouvoir internes. Le baasisme en Irak, bien qu'ayant des origines communes avec le baasisme syrien, a développé ses propres caractéristiques et dynamiques. Les gouvernements d'Abdel Salam Aref et d'Abdul Rahman Aref ont été confrontés à divers défis, y compris des tensions internes au sein du parti Baas et des oppositions de différents groupes sociaux et politiques. Ces tensions ont finalement conduit à un autre coup d'État en 1968, mené par le secteur irakien du parti Baas, qui a vu l'ascension de figures telles que Saddam Hussein dans les rangs du leadership irakien.
Règne de Saddam Hussein et Guerre Iran-Irak (1979 - 1988)
L'ascension de Saddam Hussein au pouvoir en 1979 a marqué une nouvelle ère dans l'histoire politique et sociale de l'Irak. En tant que figure dominante du parti Baas, Saddam Hussein a entrepris une série de réformes et de politiques visant à renforcer le contrôle de l'État et à moderniser la société irakienne, tout en consolidant son propre pouvoir. L'un des aspects clés de la gouvernance de Saddam Hussein a été le processus d'étatisation de la tribu, une stratégie qui visait à intégrer les structures tribales traditionnelles dans l'appareil étatique. Cette approche avait pour objectif de gagner le soutien des tribus, notamment des Tiplit, en les impliquant dans les structures gouvernementales et en leur accordant certains privilèges. En échange, ces tribus fournissaient un soutien crucial à Saddam Hussein, renforçant ainsi son régime.
Parallèlement à cette politique tribale, Saddam Hussein a lancé des programmes ambitieux de modernisation dans divers secteurs tels que l'éducation, l'économie et le logement. Ces programmes visaient à transformer l'Irak en une nation moderne et développée. Un élément majeur de cette modernisation a été la nationalisation de l'industrie pétrolière irakienne, ce qui a permis au gouvernement de contrôler une ressource vitale et de financer ses initiatives de développement. Cependant, malgré ces efforts de modernisation, l'économie irakienne sous Saddam Hussein a été largement basée sur un système clientéliste. Ce système clientéliste impliquait la distribution de faveurs, de ressources et de postes gouvernementaux à des individus et des groupes en échange de leur soutien politique. Cette approche a créé une dépendance envers le régime et a contribué à l'entretien d'un réseau de loyauté envers Saddam Hussein. Bien que les initiatives de Saddam Hussein aient entraîné certains développements économiques et sociaux, elles ont également été accompagnées de répression politique et de violations des droits humains. La consolidation du pouvoir de Saddam Hussein s'est souvent faite au détriment de la liberté politique et de l'opposition, ce qui a conduit à des tensions internes et à des conflits.
La guerre Iran-Irak, qui a débuté en 1980 et s'est poursuivie jusqu'en 1988, est l'un des conflits les plus sanglants et les plus destructeurs du 20ème siècle. Déclenchée par Saddam Hussein, cette guerre a eu des conséquences profondes tant pour l'Irak que pour l'Iran, ainsi que pour la région dans son ensemble. Saddam Hussein, cherchant à exploiter la vulnérabilité apparente de l'Iran dans le sillage de la Révolution islamique de 1979, a lancé une offensive contre l'Iran. Il craignait que la révolution dirigée par l'Ayatollah Khomeini ne se propage à l'Irak, en particulier parmi la majorité chiite du pays, et ne déstabilise son régime baasiste à dominante sunnite. De plus, Saddam Hussein visait à établir la dominance régionale de l'Irak et à contrôler des territoires riches en pétrole, en particulier dans la région frontalière de Shatt al-Arab. La guerre a rapidement escaladé en un conflit prolongé et coûteux, caractérisé par des combats de tranchées, des attaques chimiques et des souffrances humaines massives. Plus d’un demi-million de soldats ont été tués des deux côtés, et des millions de personnes ont été affectées par les destructions et les déplacements.
Sur le plan régional, la guerre a conduit à des alliances complexes. La Syrie, dirigée par Hafez al-Assad, a choisi de soutenir l'Iran, malgré les différences idéologiques, en partie à cause de la rivalité syro-irakienne. L'Iran a également reçu le soutien du Hezbollah, une organisation militante chiite basée au Liban. Ces alliances ont reflété les divisions politiques et sectaires croissantes dans la région. La guerre s'est finalement terminée en 1988, sans vainqueur clair. Le cessez-le-feu, négocié sous les auspices des Nations Unies, a laissé les frontières largement inchangées et aucune réparation significative n'a été accordée. Le conflit a laissé les deux pays gravement affaiblis et endettés, et a posé les bases de futurs conflits dans la région, notamment l'invasion du Koweït par l'Irak en 1990 et les interventions ultérieures des États-Unis et de leurs alliés dans la région.
La fin de la guerre Iran-Irak en 1988 a été un moment crucial, marquant la fin de huit années de conflit acharné et de souffrances humaines considérables. L'Iran, sous la direction de l'Ayatollah Khomeini, a finalement accepté la résolution 598 du Conseil de sécurité des Nations Unies, qui appelait à un cessez-le-feu immédiat et à une fin des hostilités entre les deux pays. La décision de l'Iran d'accepter le cessez-le-feu a été prise dans un contexte de difficultés croissantes sur le front intérieur et d'une situation militaire de plus en plus défavorable. Malgré les efforts initiaux pour résister à l'agression irakienne et faire des gains territoriaux, l'Iran a été soumis à des pressions économiques et militaires énormes, exacerbées par l'isolement international et les coûts humains et matériels du conflit prolongé.
Un élément particulièrement troublant de la guerre a été l'utilisation par l'Irak d'armes chimiques, une tactique qui a marqué une escalade dramatique dans la violence du conflit. Les forces irakiennes ont utilisé des armes chimiques à plusieurs reprises contre les forces iraniennes et même contre leur propre population kurde, comme lors du tristement célèbre massacre d'Halabja en 1988, où des milliers de civils kurdes ont été tués par des gaz toxiques. L'utilisation d'armes chimiques par l'Irak a été largement condamnée sur la scène internationale et a contribué à l'isolement diplomatique du régime de Saddam Hussein. Le cessez-le-feu de 1988 a mis fin à l'un des conflits les plus sanglants de la seconde moitié du 20ème siècle, mais il a laissé derrière lui des pays dévastés et une région profondément marquée par les séquelles de la guerre. Ni l'Iran ni l'Irak n'ont réussi à atteindre les objectifs ambitieux qu'ils s'étaient fixés au début du conflit, et la guerre a finalement été caractérisée par son inutilité tragique et ses coûts humains énormes.
Invasion du Koweït et Guerre du Golfe (1990 - 1991)
L'invasion du Koweït par l'Irak en 1990, sous le commandement de Saddam Hussein, a déclenché une série d'événements majeurs sur la scène internationale, conduisant à la Guerre du Golfe de 1991. Cette invasion a été motivée par plusieurs facteurs, dont des revendications territoriales, des disputes sur la production de pétrole et des tensions économiques. Saddam Hussein a justifié l'invasion en revendiquant le Koweït comme faisant historiquement partie de l'Irak. Il a également exprimé des griefs concernant la production de pétrole du Koweït, qu'il accusait de dépasser les quotas de l'OPEP, contribuant ainsi à la baisse des prix du pétrole et affectant l'économie irakienne, déjà affaiblie par la longue guerre avec l'Iran. La réponse internationale à l'invasion a été rapide et ferme. Le Conseil de sécurité des Nations Unies a condamné l'invasion et a imposé un embargo économique strict contre l'Irak. Par la suite, une coalition de forces internationales, dirigée par les États-Unis, s'est formée pour libérer le Koweït. Bien que l'opération ait été sanctionnée par l'ONU, elle a été largement perçue comme étant dominée par les États-Unis, en raison de leur rôle de leader et de leur contribution militaire significative.
La Guerre du Golfe, qui a débuté en janvier 1991, a été brève mais intense. La campagne aérienne massive et l'opération terrestre subséquente ont rapidement expulsé les forces irakiennes du Koweït. Cependant, l'embargo imposé à l'Irak a eu des conséquences dévastatrices pour la population civile irakienne. Les sanctions économiques, combinées à la destruction des infrastructures lors de la guerre, ont entraîné une grave crise humanitaire en Irak, avec des pénuries de nourriture, de médicaments et d'autres fournitures essentielles. L'invasion du Koweït par l'Irak et la Guerre du Golfe qui a suivi ont eu des répercussions importantes sur la région et sur les relations internationales. L'Irak s'est retrouvé isolé sur la scène internationale, et Saddam Hussein a été confronté à des défis internes et externes accrus. Cette période a également marqué un tournant dans la politique des États-Unis au Moyen-Orient, renforçant leur présence militaire et politique dans la région.
Impact de l'Attaque du 11 Septembre et Invasion Américaine (2003)
La période post-11 septembre 2001 a marqué un tournant significatif dans la politique étrangère des États-Unis, en particulier en ce qui concerne l'Irak. Sous la présidence de George W. Bush, l'Irak a été de plus en plus perçu comme faisant partie de ce que Bush a décrit comme "l'axe du Mal", une expression qui a alimenté l'imaginaire public et politique américain dans le contexte de la lutte contre le terrorisme international. Bien que l'Irak n'ait pas été directement impliqué dans les attentats du 11 septembre, l'administration Bush a mis en avant la théorie selon laquelle l'Irak de Saddam Hussein possédait des armes de destruction massive (ADM) et représentait une menace pour la sécurité mondiale. Cette perception a été utilisée pour justifier l'invasion de l'Irak en 2003, une décision qui a été largement controversée, en particulier après qu'il a été révélé que l'Irak ne possédait pas d'armes de destruction massive.
L'invasion et l'occupation subséquente de l'Irak par les forces dirigées par les États-Unis ont entraîné le renversement de Saddam Hussein, mais ont également conduit à des conséquences imprévues et à une instabilité à long terme. Une des politiques les plus critiquées de l'administration américaine en Irak a été la "débaasification", qui visait à éradiquer l'influence du parti Baas de Saddam Hussein. Cette politique a inclus la dissolution de l'armée irakienne et le démantèlement de nombreuses structures administratives et gouvernementales. Cependant, la débaasification a créé un vide de pouvoir et a exacerbé les tensions sectaires et ethniques en Irak. De nombreux anciens membres de l'armée et du parti Baas, soudainement privés de leur emploi et de leur statut, se sont retrouvés marginalisés et ont parfois rejoint des groupes insurgés. Cette situation a contribué à l'émergence et à la montée en puissance de groupes djihadistes comme Al-Qaïda en Irak, qui deviendra plus tard l'État islamique en Irak et au Levant (EIIL), connu sous le nom de Daesh. Le chaos et l'instabilité qui ont suivi l'invasion américaine ont été des facteurs clés dans la montée du nouveau djihadisme représenté par Daesh, qui a exploité le vide politique, les tensions sectaires et l'insécurité pour étendre son influence. L'intervention américaine en Irak, bien qu'initialement présentée comme un effort pour apporter la démocratie et la stabilité, a eu des conséquences profondes et durables, plongeant le pays dans une période de conflit, de violence et d'instabilité qui a persisté pendant de nombreuses années.
Le retrait des troupes américaines d'Irak en 2009 a marqué une nouvelle phase dans l'histoire politique du pays, caractérisée par une montée en puissance des groupes chiites et des changements dans la dynamique du pouvoir. Après des décennies de marginalisation sous le régime baasiste dominé par les sunnites, la majorité chiite d'Irak a gagné en influence politique suite à la chute de Saddam Hussein et au processus de reconstruction politique qui a suivi l'invasion américaine de 2003. Avec l'établissement d'un gouvernement plus représentatif et l'organisation d'élections démocratiques, les partis politiques chiites, qui avaient été réprimés sous le régime de Saddam Hussein, ont gagné un rôle prépondérant dans le nouveau paysage politique irakien. Des figures politiques chiites, souvent soutenues par l'Iran, ont commencé à occuper des postes clés au sein du gouvernement, reflétant ainsi le changement démographique et politique du pays.
Cependant, ce changement de pouvoir a également conduit à des tensions et des conflits. Les communautés sunnites et kurdes, qui avaient occupé des positions de pouvoir sous le régime de Saddam Hussein ou avaient cherché l'autonomie, comme dans le cas du Kurdistan irakien, se sont retrouvées marginalisées dans le nouvel ordre politique. Cette marginalisation, combinée à la dissolution de l'armée irakienne et à d'autres politiques mises en œuvre après l'invasion, a créé un sentiment d'aliénation et de frustration parmi ces groupes. La marginalisation des sunnites, en particulier, a contribué à un climat d'insécurité et de mécontentement, créant un terrain fertile pour l'insurrection et le terrorisme. Des groupes comme Al-Qaïda en Irak, et plus tard l'État islamique (Daesh), ont tiré parti de ces divisions pour recruter des membres et étendre leur influence, menant à une période de violence et de conflit sectaire intense.
Israël
Débuts du Sionisme et la Déclaration Balfour
La création de l'État d'Israël en 1948 est un événement historique majeur qui a été interprété de différentes manières, reflétant les complexités et les tensions inhérentes à cette période de l'histoire. D'un côté, cette création peut être vue comme une consécration des efforts diplomatiques et politiques, marquée par des décisions clés au niveau international. D'un autre côté, elle est perçue comme l'aboutissement d'une lutte nationale, portée par le mouvement sioniste et les aspirations à l'autodétermination du peuple juif.
La Déclaration Balfour de 1917, dans laquelle le gouvernement britannique soutenait l'établissement en Palestine d'un foyer national pour le peuple juif, a jeté les bases de la création d'Israël. Cette déclaration, bien qu'elle fût une promesse plutôt qu'un engagement juridiquement contraignant, a été un moment clé dans la reconnaissance internationale des aspirations sionistes. Le mandat britannique sur la Palestine, établi après la Première Guerre mondiale, a ensuite servi de cadre administratif pour la région, bien que les tensions entre les communautés juives et arabes aient augmenté pendant cette période. Le plan de partage de la Palestine proposé par l'ONU en 1947, qui envisageait la création de deux États indépendants, juif et arabe, avec Jérusalem sous contrôle international, a été un autre moment décisif. Bien que ce plan ait été accepté par les dirigeants juifs, il a été rejeté par les parties arabes, menant à un conflit ouvert après le retrait britannique de la région.
La guerre d'indépendance d'Israël, qui a suivi la proclamation de l'État d'Israël en mai 1948 par David Ben-Gourion, premier Premier ministre d'Israël, a été marquée par des combats acharnés contre les armées de plusieurs pays arabes voisins. Cette guerre a été une lutte pour l'existence et la souveraineté pour les Israéliens et un moment tragique de perte et de déplacement pour les Palestiniens, un événement connu sous le nom de Nakba (la catastrophe). La fondation d'Israël a ainsi été accueillie avec jubilation par de nombreux Juifs à travers le monde, en particulier dans le contexte de la persécution subie pendant la Seconde Guerre mondiale et l'Holocauste. Pour les Palestiniens et beaucoup dans le monde arabe, cependant, 1948 est synonyme de perte et de début d'un long conflit. La création d'Israël a donc été un événement pivot, non seulement pour les habitants de la région, mais aussi dans le contexte plus large des relations internationales, influençant profondément la politique du Moyen-Orient dans les décennies suivantes.
La Déclaration Balfour, rédigée le 2 novembre 1917, est un document crucial pour comprendre les origines de l'État d'Israël et du conflit israélo-palestinien. Rédigée par Arthur James Balfour, le ministre des Affaires étrangères britannique de l'époque, cette déclaration a été adressée à Lord Rothschild, un leader de la communauté juive britannique, pour transmission à la Fédération sioniste de Grande-Bretagne et d'Irlande. Le texte de la Déclaration Balfour promettait le soutien du gouvernement britannique à l'établissement en Palestine d'un "foyer national pour le peuple juif", tout en stipulant que cela ne devrait pas porter préjudice aux droits civils et religieux des communautés non juives existantes dans le pays, ni aux droits et au statut politique dont jouissent les Juifs dans tout autre pays. Cependant, les populations non-juives de Palestine n'étaient pas explicitement nommées dans le document, ce qui a été interprété comme une omission significative. Les raisons derrière la Déclaration Balfour étaient multiples et complexes, impliquant à la fois des considérations diplomatiques et stratégiques britanniques durant la Première Guerre mondiale. Parmi ces motivations figuraient le désir de gagner le soutien juif pour les efforts de guerre alliés, particulièrement en Russie où la Révolution bolchevique avait créé des incertitudes, et l'intérêt stratégique pour la Palestine en tant que région clé proche du Canal de Suez, vital pour l'Empire britannique. L'émission de la Déclaration Balfour a marqué un tournant dans l'histoire de la région, car elle a été interprétée par les sionistes comme un soutien international à leur aspiration à un foyer national en Palestine. Pour les Palestiniens arabes, en revanche, elle a été vue comme une trahison et une menace à leurs revendications territoriales et nationales. Cette dichotomie de perceptions a jeté les bases des tensions et du conflit qui ont suivi dans la région.
Le contexte historique du conflit israélo-palestinien est complexe et s'étend bien avant la Déclaration Balfour de 1917. La présence juive à Jérusalem et dans d'autres parties de la Palestine historique remonte à des millénaires, bien que la démographie et la composition de la population aient fluctué au fil du temps en raison de divers événements historiques, y compris des périodes d'exil et de diaspora. Au cours des années 1800 et plus particulièrement dans les années 1830, un mouvement migratoire significatif de Juifs vers la Palestine a commencé, en partie en réponse aux persécutions et aux pogroms dans l'Empire russe et d'autres parties de l'Europe. Cette migration, souvent considérée comme faisant partie des premières Aliyahs (montées) dans le cadre du mouvement sioniste naissant, était motivée par le désir de retourner à la terre ancestrale juive et de reconstruire une présence juive en Palestine.
Un aspect important de ce renouveau juif était l'Askala ou la Haskala (la Renaissance juive), un mouvement parmi les Juifs européens, en particulier les Ashkénazes, visant à moderniser la culture juive et à s'intégrer dans la société européenne. Ce mouvement a encouragé l'éducation, l'adoption de langues et de coutumes locales, tout en promouvant une identité juive renouvelée et dynamique. Eliezer Ben-Yehuda, souvent cité comme le père de l'hébreu moderne, a joué un rôle crucial dans la renaissance de l'hébreu comme langue vivante. Son travail a été essentiel pour le renouveau culturel et national juif, donnant à la communauté juive en Palestine un moyen unificateur de communication et renforçant leur identité culturelle distincte.
Ces développements culturels et migratoires ont contribué à poser les bases du sionisme politique, un mouvement nationaliste visant à établir un foyer national juif en Palestine. Le sionisme a gagné en popularité à la fin du 19ème siècle, en partie en réponse aux persécutions antisémites en Europe et à l'aspiration à l'autodétermination. La migration juive vers la Palestine au 19ème et au début du 20ème siècle a coïncidé avec la présence de longue date des communautés arabes palestiniennes, conduisant à des changements démographiques et à des tensions croissantes dans la région. Ces tensions, exacerbées par les politiques du mandat britannique et les événements internationaux, ont finalement conduit au conflit israélo-palestinien que nous connaissons aujourd'hui.
L'histoire du mouvement sioniste et de l'émergence de l'idée d'un foyer national juif est étroitement liée à la diaspora juive en Europe et aux États-Unis à la fin du 19ème et au début du 20ème siècle. Cette période a été marquée par un renouveau de la pensée juive et une prise de conscience croissante des défis auxquels faisait face la communauté juive en Europe, notamment l'antisémitisme. Léon Pinsker, un médecin et intellectuel juif russe, a été une figure clé dans les premiers stades du sionisme. Influencé par les pogroms et les persécutions antisémites en Russie, Pinsker a écrit "Auto-Émancipation" en 1882, un pamphlet qui plaidait pour la nécessité d'une patrie nationale pour les Juifs. Pinsker croyait que l'antisémitisme était un phénomène permanent et inévitable en Europe et que la seule solution pour le peuple juif était l'autonomie dans leur propre territoire. Théodore Herzl, un journaliste et écrivain austro-hongrois, est souvent considéré comme le père du sionisme politique moderne. Profondément affecté par l'affaire Dreyfus en France, où un officier juif, Alfred Dreyfus, a été faussement accusé d'espionnage dans un climat d'antisémitisme flagrant, Herzl en est venu à la conclusion que l'assimilation ne protégerait pas les Juifs de la discrimination et de la persécution. Cette affaire a été un catalyseur pour Herzl, le conduisant à écrire "L'État des Juifs" en 1896, dans lequel il argumentait en faveur de la création d'un État juif. Contrairement à l'idée reçue, Herzl n'a pas spécifiquement envisagé de fonder le foyer national juif en France, mais plutôt en Palestine ou, à défaut, dans un autre territoire offert par une puissance coloniale. L'idée de Herzl était de trouver un lieu où les Juifs pourraient s'établir en tant que nation souveraine et vivre librement, loin de l'antisémitisme européen. Herzl a été le moteur derrière le Premier Congrès sioniste à Bâle en 1897, qui a jeté les bases du mouvement sioniste en tant qu'organisation politique. Ce congrès a rassemblé des délégués juifs de diverses origines pour discuter de la création d'un foyer national juif en Palestine.
L'Antisémitisme et les Migrations Juives
L'histoire de l'antisémitisme est longue et complexe, et elle est profondément enracinée dans les croyances religieuses et socio-économiques européennes, en particulier durant le Moyen Âge. Un des aspects les plus marquants de l'antisémitisme historique est la notion de "peuple déicide", une accusation selon laquelle les Juifs seraient collectivement responsables de la mort de Jésus-Christ. Cette idée a été largement promulguée dans la chrétienté européenne et a servi de justification à diverses formes de persécution et de discrimination envers les Juifs au cours des siècles. Cette croyance a contribué à la marginalisation des Juifs et à leur représentation comme "autres" ou étrangers au sein de la société chrétienne.
Au Moyen Âge, les restrictions imposées aux Juifs dans le domaine professionnel et social ont eu un impact significatif sur leur place dans la société. En raison des lois et des restrictions de l'Église, les Juifs étaient souvent empêchés de posséder des terres ou d'exercer certaines professions. Par exemple, dans de nombreuses régions, ils ne pouvaient pas être membres de guildes, ce qui limitait leurs opportunités dans le commerce et l'artisanat. Ces restrictions ont conduit beaucoup de Juifs à se tourner vers des métiers comme le prêt d'argent, une activité souvent interdite aux chrétiens en raison de l'interdiction de l'usure par l'Église. Bien que cette activité ait fourni une niche économique nécessaire, elle a également renforcé certains stéréotypes négatifs et a contribué à l'antisémitisme économique. Les Juifs étaient parfois perçus comme des usuriers et associés à l'avarice, ce qui exacerbait la méfiance et l'hostilité à leur égard. En outre, les Juifs étaient souvent confinés dans des quartiers spécifiques, connus sous le nom de ghettos, ce qui limitait leur interaction avec la population chrétienne et renforçait leur isolement. Cette ségrégation, combinée à l'antisémitisme religieux et économique, a créé un environnement dans lequel les persécutions, telles que les pogroms, pouvaient se produire. L'antisémitisme médiéval, enraciné dans des croyances religieuses et renforcé par des structures socio-économiques, a donc jeté les bases de siècles de discrimination et de persécution envers les Juifs en Europe. Cette histoire douloureuse a été l'un des facteurs qui ont alimenté les aspirations sionistes pour un foyer national sûr et souverain.
L'évolution de l'antisémitisme au 19ème siècle représente un tournant significatif, où les préjugés et la discrimination à l'encontre des Juifs ont commencé à se fonder davantage sur des notions raciales que sur des différences religieuses ou culturelles. Ce changement a marqué la naissance de ce que l'on appelle l'antisémitisme "moderne", qui a posé les bases idéologiques de l'antisémitisme du 20ème siècle, y compris l'Holocauste. Dans la période pré-moderne, l'antisémitisme était principalement ancré dans des différences religieuses, avec des accusations de déicide et des stéréotypes négatifs associés aux Juifs en tant que groupe religieux. Cependant, avec les Lumières et l'émancipation des Juifs dans de nombreux pays européens au 19ème siècle, l'antisémitisme a commencé à prendre une nouvelle forme. Cette forme "moderne" d'antisémitisme était caractérisée par la croyance en l'existence de races distinctes avec des caractéristiques biologiques et morales inhérentes. Les Juifs étaient ainsi perçus non seulement comme une communauté religieuse distincte, mais aussi comme une "race" à part, avec des traits héréditaires et des comportements présumés qui les rendaient différents et, aux yeux des antisémites, inférieurs ou dangereux pour la société.
Cette idéologie raciale a été renforcée par divers écrits et théories pseudoscientifiques, y compris ceux de personnalités comme Houston Stewart Chamberlain, un théoricien racial influent dont les idées ont contribué à la théorie raciale nazie. L'antisémitisme racial a trouvé son expression la plus extrême dans l'idéologie nazie, qui a utilisé des théories racistes pour justifier la persécution et l'extermination systématique des Juifs pendant l'Holocauste. La transition de l'antisémitisme religieux vers un antisémitisme racial au 19ème siècle a donc été un développement crucial, alimentant des formes de discrimination et de persécution plus intenses et systématiques contre les Juifs. Cette évolution a également contribué à l'urgence ressentie par le mouvement sioniste pour la création d'un État-nation juif où les Juifs pourraient vivre en sécurité et être libres de telles persécutions.
Le Mouvement Sioniste et l'Établissement en Palestine
La fin du 19ème siècle a été une période cruciale pour le peuple juif et a marqué un tournant décisif dans l'histoire du sionisme, un mouvement qui allait finalement conduire à la création de l'État d'Israël. Cette époque a été caractérisée par une combinaison de réponse aux persécutions antisémites en Europe et d'un désir croissant d'autodétermination et de retour à la terre ancestrale. Le mouvement Hovevei Zion (Les Amants de Sion) a joué un rôle fondamental dans les premières étapes du sionisme. Formé par des Juifs principalement d'Europe de l'Est, ce mouvement visait à encourager l'immigration juive en Palestine et à établir une base pour la communauté juive dans la région. Inspirés par les pogroms et les discriminations en Russie et ailleurs, les membres de Hovevei Zion ont mis en œuvre des projets d'agriculture et d'établissement, jetant ainsi les bases d'un renouveau juif en Palestine. Cependant, c'est le premier Congrès sioniste, organisé par Theodor Herzl en 1897 à Bâle, en Suisse, qui a marqué un jalon historique. Herzl, un journaliste austro-hongrois profondément affecté par l'antisémitisme qu'il avait observé, notamment lors de l'affaire Dreyfus en France, a compris la nécessité d'un foyer national juif. Le Congrès de Bâle a rassemblé des délégués juifs de divers pays et a servi de plateforme pour articuler et propager l'idée sioniste. Le résultat le plus notable de ce congrès a été la formulation du Programme de Bâle, qui appelait à l'établissement d'un foyer national pour le peuple juif en Palestine. Ce congrès a également abouti à la création de l'Organisation sioniste mondiale, chargée de promouvoir l'objectif sioniste. Sous la direction de Herzl, le mouvement sioniste a gagné en légitimité et en soutien international, malgré les défis et les controverses. La vision de Herzl, bien que largement symbolique à l'époque, a fourni un cadre et une direction pour les aspirations juives, transformant une idée en un mouvement politique tangible. La période de la fin du 19ème siècle a été essentielle dans la formation du mouvement sioniste et a posé les jalons pour les événements futurs qui mèneraient à la création de l'État d'Israël. Elle reflète une période où les défis historiques rencontrés par les Juifs en Europe ont convergé avec un désir renouvelé d'autodétermination, façonnant ainsi le cours de l'histoire juive et du Moyen-Orient.
Le début du 20ème siècle a été une période significative de développement et de transformation pour la communauté juive en Palestine, marquée par une augmentation de l'immigration juive et la création de nouvelles structures sociales et urbaines. Entre 1903 et 1914, une période connue sous le nom de "Seconde Aliyah", environ 30 000 Juifs, principalement originaires de l'Empire russe, ont immigré en Palestine. Cette vague d'immigration a été motivée par une combinaison de facteurs, notamment les persécutions antisémites dans l'Empire russe et l'aspiration sioniste à établir un foyer national juif. Cette période a vu la création de la ville de Tel-Aviv en 1909, qui est devenue un symbole du renouveau juif et du sionisme. Tel-Aviv a été conçue comme une ville moderne, planifiée dès le départ pour être un centre urbain pour la communauté juive en croissance. L'un des développements les plus innovants de cette période a été la création des Kibboutzim. Les Kibboutzim étaient des collectivités agricoles basées sur des principes de propriété collective et de travail communautaire. Ils ont joué un rôle crucial dans l'établissement des Juifs en Palestine, en fournissant non seulement des moyens de subsistance, mais aussi en contribuant à la défense et à la sécurité des communautés juives. Leur importance allait au-delà de l'agriculture, car ils ont servi de centres pour la culture, l'éducation et le sionisme social.
La période entre 1921 et 1931 a vu une nouvelle vague d'immigration, connue sous le nom de "Troisième Aliyah", au cours de laquelle environ 150 000 Juifs sont arrivés en Palestine. Cette augmentation significative de la population juive a été en partie stimulée par la montée de l'antisémitisme en Europe, notamment en Pologne et en Russie, ainsi que par les politiques britanniques en Palestine. Ces immigrants ont apporté avec eux des compétences variées, contribuant ainsi au développement économique et social de la région. L'immigration juive pendant cette période a été un facteur clé dans la configuration démographique de la Palestine, menant à des changements sociaux et économiques substantiels. Elle a également exacerbé les tensions avec les communautés arabes palestiniennes, qui voyaient cette immigration croissante comme une menace pour leurs revendications territoriales et démographiques. Ces tensions se sont finalement intensifiées, conduisant à des conflits et des troubles dans les années et décennies suivantes.
La période suivant la Déclaration Balfour en 1917 a été marquée par une augmentation significative des tensions et des conflits entre les communautés juives et arabes en Palestine. La déclaration, qui exprimait le soutien du gouvernement britannique à l'établissement en Palestine d'un foyer national pour le peuple juif, a été accueillie avec enthousiasme par de nombreux Juifs mais a suscité de l'opposition et de l'animosité parmi la population arabe palestinienne. Ces tensions se sont manifestées dans une série de confrontations et de violences entre les deux communautés. Les années 1920 et 1930 ont été témoins de plusieurs épisodes de violence, y compris des émeutes et des massacres, où les deux côtés ont subi des pertes. Ces incidents reflétaient la montée des tensions nationalistes des deux côtés et la lutte pour le contrôle et l'avenir de la Palestine.
En réponse à ces tensions croissantes et à la nécessité perçue de se défendre contre les attaques, la communauté juive en Palestine a formé la Haganah en 1920. La Haganah, qui signifie "défense" en hébreu, était initialement une organisation de défense clandestine destinée à protéger les communautés juives des attaques arabes. Elle a été fondée par un groupe de représentants des colonies juives et des organisations sionistes en réponse aux émeutes de Jérusalem de 1920. La Haganah a évolué au fil du temps, passant d'une force de défense locale à une organisation militaire plus structurée. Bien qu'elle ait été principalement défensive dans ses premières années, la Haganah a développé une capacité militaire plus robuste, y compris la formation de forces d'élite et l'acquisition d'armes, en prévision d'un conflit plus large avec les communautés arabes et les pays voisins. La formation de la Haganah a été un développement crucial dans l'histoire du mouvement sioniste et a joué un rôle important dans les événements qui ont conduit à la création de l'État d'Israël en 1948. La Haganah a constitué le noyau de ce qui allait devenir plus tard les Forces de défense israéliennes (FDI), l'armée officielle de l'État d'Israël.
La collaboration des milieux sionistes avec les puissances mandataires, en particulier la Grande-Bretagne, qui avait reçu le mandat de la Société des Nations pour gouverner la Palestine après la Première Guerre mondiale, a joué un rôle important dans l'évolution du conflit israélo-palestinien. Cette coopération a été cruciale pour les progrès du mouvement sioniste, mais elle a également alimenté les tensions et la colère parmi la population arabe palestinienne. La relation entre les sionistes et les autorités mandataires britanniques était complexe et parfois conflictuelle, mais les sionistes ont cherché à utiliser cette relation pour promouvoir leurs objectifs en Palestine. Les efforts sionistes pour établir un foyer national juif étaient souvent vus par les Arabes palestiniens comme étant soutenus, ou du moins tolérés, par les Britanniques, ce qui a exacerbé les tensions et la méfiance.
Un aspect important de la stratégie sioniste pendant la période mandataire a été l'achat de terres en Palestine. L'Agence Juive, établie en 1929, a joué un rôle clé dans cette stratégie. L'Agence Juive était une organisation qui représentait la communauté juive auprès des autorités britanniques et coordonnait les divers aspects du projet sioniste en Palestine, notamment l'immigration, l'établissement de colonies, l'éducation et, de manière cruciale, l'achat de terres. L'acquisition de terres par des Juifs en Palestine a été une source majeure de conflit, car elle a souvent entraîné le déplacement de populations arabes locales. Les Arabes palestiniens voyaient l'achat de terres et l'immigration juive comme une menace pour leur présence et leur avenir dans la région. Ces transactions foncières ont non seulement changé la composition démographique et le paysage de la Palestine, mais ont également contribué à l'intensification du sentiment nationaliste parmi les Arabes palestiniens.
L'année 1937 a marqué un tournant dans la gestion britannique du mandat de la Palestine et a révélé les premiers signes d'un désengagement britannique face à l'escalade des tensions et des violences entre les communautés juive et arabe. La complexité et l'intensité du conflit israélo-palestinien ont défié les efforts britanniques pour maintenir la paix et l'ordre, conduisant à une reconnaissance croissante de l'impossibilité de satisfaire à la fois les aspirations sionistes et les revendications arabes palestiniennes.
En 1937, la Commission Peel, une commission d'enquête britannique, a publié son rapport recommandant pour la première fois la partition de la Palestine en deux États distincts, un juif et un arabe, avec Jérusalem sous contrôle international. Cette proposition était une réponse à l'escalade de la violence, en particulier pendant la Grande Révolte Arabe de 1936-1939, une insurrection massive des Arabes palestiniens contre la domination britannique et l'immigration juive. Le plan de partage proposé par la Commission Peel a été rejeté par les deux côtés pour différentes raisons. Les leaders arabes palestiniens ont refusé le plan car il impliquait la reconnaissance d'un État juif en Palestine. D'autre part, bien que certains dirigeants sionistes aient envisagé le plan comme une étape vers un État juif plus vaste, d'autres l'ont rejeté parce qu'il ne répondait pas à leurs attentes territoriales.
Cette période a également été marquée par l'émergence de groupes extrémistes des deux côtés. Du côté juif, des groupes tels que l'Irgoun et le Lehi (aussi connu sous le nom de Stern Gang) ont commencé à mener des opérations militaires contre les Arabes palestiniens et les Britanniques, y compris des attentats. Ces groupes ont adopté une approche plus militante que la Haganah, l'organisation de défense principale de la communauté juive, dans la poursuite de l'objectif sioniste. Du côté arabe, la violence s'est également intensifiée, avec des attaques contre des Juifs et des intérêts britanniques. La révolte arabe a été un signe de l'opposition croissante à la fois à la politique britannique et à l'immigration juive. L'incapacité de la Grande-Bretagne à résoudre le conflit et les réponses extrémistes des deux côtés ont créé un climat de plus en plus instable et violent, posant les bases pour les conflits futurs et compliquant davantage les efforts pour trouver une solution pacifique et durable à la question de la Palestine.
Plan de Partage de l'ONU et la Guerre d'Indépendance
En 1947, face à l'escalade continue des tensions et des violences en Palestine mandataire, les Nations Unies ont proposé un nouveau plan de partage, dans une tentative de résoudre le conflit israélo-palestinien. Ce plan, recommandé par la résolution 181 de l'Assemblée générale des Nations Unies, envisageait la division de la Palestine en deux États indépendants, l'un juif et l'autre arabe, avec Jérusalem placée sous un régime international spécial. Selon le plan de partage de l'ONU, la Palestine serait divisée de manière à donner à chaque État une majorité de sa population respective. La région de Jérusalem, comprenant également Bethléem, serait établie comme un corpus separatum sous administration internationale, en raison de son importance religieuse et historique pour les Juifs, les Chrétiens et les Musulmans. Cependant, le plan de partage de l'ONU a été rejeté par la majorité des dirigeants et des peuples arabes. Les Arabes palestiniens et les États arabes voisins ont estimé que le plan ne respectait pas leurs revendications nationales et territoriales, et qu'il était injuste en termes de répartition des terres, étant donné que la population juive était alors une minorité en Palestine. Ils ont vu le plan comme une continuation de la politique pro-sioniste des puissances occidentales et comme une violation de leur droit à l'autodétermination.
La communauté juive en Palestine, représentée par l'Agence juive, a accepté le plan, le considérant comme une opportunité historique pour la création d'un État juif. Pour les Juifs, le plan représentait une reconnaissance internationale de leurs aspirations nationales et un pas crucial vers l'indépendance. Le rejet du plan de partage par les Arabes a mené à une intensification des conflits et des affrontements dans la région. La période qui a suivi a été marquée par une escalade de la violence, aboutissant à la guerre de 1948, également connue sous le nom de guerre d'indépendance d'Israël ou de Nakba (catastrophe) pour les Palestiniens. Cette guerre a abouti à la création de l'État d'Israël en mai 1948 et au déplacement de centaines de milliers de Palestiniens, marquant le début d'un conflit prolongé qui persiste jusqu'à aujourd'hui.
La déclaration d'indépendance de l'État d'Israël en mai 1948 et les événements qui ont suivi représentent un chapitre crucial dans l'histoire du Moyen-Orient, ayant des répercussions majeures sur le plan politique, social et militaire. L'expiration du mandat britannique en Palestine a créé un vide politique que les dirigeants juifs, sous la houlette de David Ben-Gourion, ont cherché à combler en proclamant l'indépendance d'Israël. Cette déclaration, faite en réponse au plan de partage des Nations Unies de 1947, a marqué la concrétisation des aspirations sionistes mais a également été le catalyseur d'un conflit armé majeur dans la région. L'intervention militaire des pays arabes voisins, dont la Transjordanie, l'Égypte et la Syrie, visait à contrecarrer la création de l'État juif et à soutenir les revendications des Palestiniens arabes. Ces pays, unis par leur opposition à la création d'Israël, envisageaient d'éliminer l'État naissant et de redéfinir la géographie politique de la Palestine. Cependant, malgré leur supériorité numérique initiale, les forces arabes ont été progressivement repoussées par une armée israélienne de plus en plus organisée et efficace.
Le soutien indirect de l'Union soviétique à Israël, principalement sous la forme de livraisons d'armes via les pays satellites d'Europe de l'Est, a joué un rôle dans le renversement des rapports de force sur le terrain. Ce soutien soviétique était motivé moins par une affection pour Israël que par un désir de diminuer l'influence britannique dans la région, dans le contexte de la rivalité croissante de la Guerre froide. La série d'accords de cessez-le-feu qui ont mis fin à la guerre en 1949 a laissé Israël avec un territoire substantiellement plus grand que celui alloué par le plan de partage de l'ONU. La guerre a eu des conséquences profondément tragiques, notamment le déplacement massif de Palestiniens arabes, qui a engendré des questions de réfugiés et de droits qui continuent de hanter le processus de paix. La guerre d'indépendance a également solidifié la position d'Israël en tant qu'acteur central dans la région, marquant le début d'un conflit israélo-arabe qui persiste jusqu'à aujourd'hui.
La Guerre des Six Jours, qui a eu lieu en juin 1967, est un autre moment décisif dans l'histoire du conflit israélo-arabe. Ce conflit, qui a opposé Israël à l'Égypte, la Jordanie, la Syrie et, dans une moindre mesure, le Liban, a abouti à des changements géopolitiques majeurs dans la région. La guerre a débuté le 5 juin 1967 lorsque Israël, face à ce qu'il percevait comme une menace imminente de la part des armées arabes alignées à ses frontières, a lancé une série de frappes aériennes préventives contre l'Égypte. Ces frappes ont rapidement détruit la majorité de l'armée de l'air égyptienne au sol, donnant à Israël un avantage aérien crucial. Dans les jours suivants, Israël a étendu ses opérations militaires contre la Jordanie et la Syrie. Le conflit s'est déroulé rapidement, avec des victoires israéliennes sur plusieurs fronts. En six jours de combats intenses, Israël a réussi à capturer la bande de Gaza et la péninsule du Sinaï de l'Égypte, la Cisjordanie (y compris Jérusalem-Est) de la Jordanie, et le plateau du Golan de la Syrie. Ces gains territoriaux ont triplé la taille du territoire sous contrôle israélien. La Guerre des Six Jours a eu des conséquences profondes et durables pour la région. Elle a marqué un tournant dans le conflit israélo-arabe, renforçant la position militaire et stratégique d'Israël tout en exacerbant les tensions avec ses voisins arabes. La guerre a également eu des implications importantes pour la population palestinienne, car l'occupation israélienne de la Cisjordanie et de Gaza a posé de nouvelles dynamiques et défis pour la question palestinienne. En outre, la perte de la bande de Gaza, de la Cisjordanie et du plateau du Golan a été un coup dur pour les pays arabes concernés, en particulier l'Égypte et la Syrie, et a contribué à une atmosphère de désillusion et de désespoir parmi les Arabes. La guerre a également jeté les bases de futurs conflits et négociations, y compris les efforts pour un processus de paix durable entre Israël et ses voisins.
La Guerre du Kippour et les Accords de Camp David
La Guerre du Kippour, qui a éclaté en octobre 1973, constitue un jalon crucial dans l'histoire des conflits israélo-arabes. Cette guerre, déclenchée par une attaque surprise conjointe de l'Égypte et de la Syrie contre Israël, a eu lieu le jour du Yom Kippour, le jour le plus sacré du calendrier juif, ce qui a accentué son impact psychologique sur la population israélienne. L'attaque égyptienne et syrienne était une tentative de reprendre les territoires perdus lors de la Guerre des Six Jours en 1967, notamment la péninsule du Sinaï et le plateau du Golan. La guerre a débuté par des succès significatifs pour les forces égyptiennes et syriennes, remettant en cause la perception de la suprématie militaire israélienne. Cependant, Israël, sous la direction de la Première ministre Golda Meir et du ministre de la Défense Moshe Dayan, a rapidement mobilisé ses forces pour une contre-offensive efficace.
Cette guerre a eu des répercussions majeures. La Guerre du Kippour a obligé Israël à réévaluer ses stratégies militaires et de sécurité. La surprise initiale de l'attaque a mis en évidence des lacunes dans les renseignements militaires israéliens et a conduit à des changements significatifs dans la préparation et la doctrine de défense d'Israël. Sur le plan diplomatique, la guerre a agi comme un catalyseur pour les futures négociations de paix. Les pertes subies par les deux côtés ont ouvert la voie aux Accords de Camp David en 1978, sous l'égide du président américain Jimmy Carter, aboutissant au premier traité de paix israélo-égyptien en 1979. Ce traité a été un tournant, marquant la première reconnaissance d'Israël par un pays arabe voisin. La guerre a également eu un impact international, notamment en provoquant la crise pétrolière de 1973. Les pays arabes producteurs de pétrole ont utilisé le pétrole comme arme économique pour protester contre le soutien des États-Unis à Israël, ce qui a conduit à des augmentations significatives des prix du pétrole et à des répercussions économiques mondiales. La Guerre du Kippour a donc non seulement redéfini les relations israélo-arabes, mais a également eu des conséquences mondiales, influençant les politiques énergétiques, les relations internationales et le processus de paix au Moyen-Orient. Cette guerre a marqué une étape importante dans la reconnaissance de la complexité du conflit israélo-arabe et de la nécessité d'une approche équilibrée pour sa résolution.
En 1979, un événement historique a marqué une étape majeure dans le processus de paix au Moyen-Orient avec la signature des Accords de Camp David, qui ont débouché sur le premier traité de paix entre Israël et un de ses voisins arabes, l'Égypte. Ces accords, négociés sous l'égide du président américain Jimmy Carter, ont été le fruit de négociations difficiles et audacieuses entre le Premier ministre israélien Menachem Begin et le président égyptien Anwar Sadate. L'initiative de ces négociations a été prise dans le sillage de la Guerre du Kippour de 1973, qui avait mis en évidence la nécessité pressante d'une résolution pacifique au conflit israélo-arabe prolongé. La décision courageuse d'Anwar Sadate de se rendre à Jérusalem en 1977 a brisé de nombreuses barrières politiques et psychologiques, ouvrant ainsi la voie à un dialogue direct entre Israël et l'Égypte.
Les pourparlers de paix, qui se sont tenus à Camp David, la retraite présidentielle dans le Maryland, ont été marqués par des périodes de négociations intenses, reflétant les profondes divisions historiques entre Israël et l'Égypte. L'intervention personnelle de Jimmy Carter a été déterminante pour maintenir les deux parties engagées dans le processus et pour surmonter les impasses. Les accords qui en ont résulté comprenaient deux cadres distincts. Le premier accord posait les bases d'une autonomie palestinienne dans les territoires occupés de Cisjordanie et de la bande de Gaza, tandis que le second accord menait directement à un traité de paix entre l'Égypte et Israël. Signé en mars 1979, ce traité a conduit Israël à se retirer de la péninsule du Sinaï, qu'il occupait depuis 1967, en échange de la reconnaissance par l'Égypte de l'État d'Israël et l'établissement de relations diplomatiques normales.
Le traité de paix israélo-égyptien a été une percée révolutionnaire, modifiant le paysage politique du Moyen-Orient. Il a signifié la fin de l'état de guerre entre les deux nations et a établi un précédent pour les futurs efforts de paix dans la région. Cependant, le traité a également suscité une vive opposition dans le monde arabe, et Sadate a été assassiné en 1981, un acte largement perçu comme une réponse directe à sa politique de rapprochement avec Israël. En définitive, les Accords de Camp David et le traité de paix qui a suivi ont démontré la possibilité de négociations pacifiques dans une région marquée par des conflits prolongés, tout en soulignant les défis inhérents à la réalisation d'une paix durable au Moyen-Orient. Ces événements ont eu un impact profond non seulement sur les relations israélo-égyptiennes, mais aussi sur la dynamique régionale et internationale.
Le Droit de Retour des Réfugiés Palestiniens
Le droit de retour des réfugiés palestiniens demeure un sujet complexe et controversé dans le cadre du conflit israélo-palestinien. Ce droit fait référence à la possibilité pour les réfugiés palestiniens et leurs descendants de retourner dans les terres qu'ils ont quittées ou dont ils ont été déplacés en 1948 lors de la création de l'État d'Israël. La résolution 194 de l'Assemblée générale des Nations-Unies, adoptée le 11 décembre 1948, mentionne que les réfugiés souhaitant rentrer chez eux devraient être autorisés à le faire et vivre en paix avec leurs voisins. Cependant, cette résolution, comme d'autres résolutions de l'Assemblée générale, ne possède pas la capacité de déterminer des lois ou d’établir des droits. Elle est plutôt de nature recommandative. Par conséquent, bien qu'elle ait été confirmée à plusieurs reprises par les Nations-Unies, elle n'a pas été mise en œuvre jusqu'à aujourd'hui.
L'Office de secours et de travaux des Nations Unies pour les réfugiés palestiniens au Proche-Orient (UNRWA), créé en 1949, soutient plus de cinq millions de réfugiés palestiniens enregistrés. Contrairement à la Convention de 1951 sur les réfugiés en général, l'UNRWA inclut également les descendants des réfugiés de 1948, ce qui augmente significativement le nombre de personnes concernées. Les accords de paix tels que ceux négociés à Camp David en 1978 ou les Accords d'Oslo de 1993 reconnaissent la question des réfugiés palestiniens comme un sujet de négociation dans le cadre du processus de paix. Toutefois, ils ne mentionnent pas explicitement un "droit au retour" pour les réfugiés palestiniens. La résolution du problème des réfugiés est généralement considérée comme une question devant être réglée par des accords bilatéraux entre Israël et ses voisins.



