« Teorie della violenza nella scienza politica » : différence entre les versions

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La questione della razionalità dell'azione è un tema centrale in filosofia e nelle scienze sociali. La maggior parte delle teorie dell'azione presuppone che gli individui agiscano razionalmente, cioè che scelgano i mezzi più efficaci per raggiungere i loro obiettivi, tenendo conto delle loro convinzioni e dei loro valori. L'idea che tutte le azioni siano razionali può, tuttavia, essere messa in discussione. Ad esempio, sappiamo che gli individui possono agire sotto l'influenza di emozioni, impulsi o vincoli cognitivi che impediscono loro di fare scelte perfettamente razionali. Inoltre, ciò che consideriamo "razionale" può variare a seconda del contesto culturale o personale. Nel caso della violenza, può essere difficile considerare gli atti violenti come "razionali". Tuttavia, dal punto di vista dell'attore, la violenza può sembrare una risposta razionale a una situazione percepita come una minaccia. Inoltre, in alcune circostanze, la violenza può essere utilizzata come mezzo strategico per raggiungere obiettivi specifici. Nella teoria di Hobbes, ad esempio, la violenza nello stato di natura può essere vista come una risposta razionale a una situazione di insicurezza e di competizione per le risorse. Tuttavia, Hobbes stesso riconosce che questa violenza è dannosa e destabilizzante e sostiene che la soluzione più razionale è quella di creare uno Stato che possa garantire pace e sicurezza.
La questione della razionalità dell'azione è un tema centrale in filosofia e nelle scienze sociali. La maggior parte delle teorie dell'azione presuppone che gli individui agiscano razionalmente, cioè che scelgano i mezzi più efficaci per raggiungere i loro obiettivi, tenendo conto delle loro convinzioni e dei loro valori. L'idea che tutte le azioni siano razionali può, tuttavia, essere messa in discussione. Ad esempio, sappiamo che gli individui possono agire sotto l'influenza di emozioni, impulsi o vincoli cognitivi che impediscono loro di fare scelte perfettamente razionali. Inoltre, ciò che consideriamo "razionale" può variare a seconda del contesto culturale o personale. Nel caso della violenza, può essere difficile considerare gli atti violenti come "razionali". Tuttavia, dal punto di vista dell'attore, la violenza può sembrare una risposta razionale a una situazione percepita come una minaccia. Inoltre, in alcune circostanze, la violenza può essere utilizzata come mezzo strategico per raggiungere obiettivi specifici. Nella teoria di Hobbes, ad esempio, la violenza nello stato di natura può essere vista come una risposta razionale a una situazione di insicurezza e di competizione per le risorse. Tuttavia, Hobbes stesso riconosce che questa violenza è dannosa e destabilizzante e sostiene che la soluzione più razionale è quella di creare uno Stato che possa garantire pace e sicurezza.
   
   
=== Livello della guerra internazionale =====
=== Livello della guerra internazionale ====
Il concetto di Stato di Westfalia si riferisce a un certo tipo di ordine internazionale emerso in seguito ai Trattati di Westfalia del 1648, che posero fine alla Guerra dei Trent'anni in Europa. Questi trattati stabilirono l'idea di sovranità statale, secondo la quale ogni Stato ha un'autorità esclusiva e incontestabile sul proprio territorio e sulla propria popolazione. L'ordine di Westfalia è quindi caratterizzato da un sistema internazionale di Stati sovrani che non riconoscono alcuna autorità superiore alla propria.
Il concetto di Stato di Westfalia si riferisce a un certo tipo di ordine internazionale emerso in seguito ai Trattati di Westfalia del 1648, che posero fine alla Guerra dei Trent'anni in Europa. Questi trattati stabilirono l'idea di sovranità statale, secondo la quale ogni Stato ha un'autorità esclusiva e incontestabile sul proprio territorio e sulla propria popolazione. L'ordine di Westfalia è quindi caratterizzato da un sistema internazionale di Stati sovrani che non riconoscono alcuna autorità superiore alla propria.



Version du 23 juin 2023 à 11:59

La pensée sociale d'Émile Durkheim et Pierre BourdieuAux origines de la chute de la République de WeimarLa pensée sociale de Max Weber et Vilfredo ParetoLa notion de « concept » en sciences-socialesHistoire de la discipline de la science politique : théories et conceptionsMarxisme et StructuralismeFonctionnalisme et SystémismeInteractionnisme et ConstructivismeLes théories de l’anthropologie politiqueLe débat des trois I : intérêts, institutions et idéesLa théorie du choix rationnel et l'analyse des intérêts en science politiqueApproche analytique des institutions en science politiqueL'étude des idées et idéologies dans la science politiqueLes théories de la guerre en science politiqueLa Guerre : conceptions et évolutionsLa raison d’ÉtatÉtat, souveraineté, mondialisation, gouvernance multiniveauxLes théories de la violence en science politiqueWelfare State et biopouvoirAnalyse des régimes démocratiques et des processus de démocratisationSystèmes Électoraux : Mécanismes, Enjeux et ConséquencesLe système de gouvernement des démocratiesMorphologie des contestationsL’action dans la théorie politiqueIntroduction à la politique suisseIntroduction au comportement politiqueAnalyse des Politiques Publiques : définition et cycle d'une politique publiqueAnalyse des Politiques Publiques : mise à l'agenda et formulationAnalyse des Politiques Publiques : mise en œuvre et évaluationIntroduction à la sous-discipline des relations internationales

Lo studio della violenza nella scienza politica è un campo di ricerca che esamina le diverse forme di violenza, le loro origini, le cause e le conseguenze nel contesto politico. La violenza può assumere molte forme, come la violenza fisica, la violenza simbolica, la violenza strutturale, la violenza politica e così via. La comprensione di queste diverse forme di violenza e del loro ruolo nella politica è essenziale per analizzare i conflitti, i movimenti sociali, la governance e le relazioni internazionali.

Le teorie classiche della violenza sono importanti da studiare per diversi motivi. In primo luogo, forniscono le basi teoriche per la comprensione della violenza nelle scienze sociali. Hanno stabilito i concetti e i quadri analitici utilizzati nello studio contemporaneo della violenza. Comprendendo queste teorie classiche, abbiamo una solida base per affrontare i temi della violenza in un contesto più ampio. Inoltre, queste teorie classiche offrono una prospettiva storica sui temi della violenza. Esse sono emerse in periodi diversi della storia del pensiero sociale e politico e ci permettono quindi di capire come le idee sulla violenza si siano evolute nel tempo e abbiano plasmato gli approcci attuali. Anche i concetti e la terminologia introdotti dalle teorie classiche della violenza sono essenziali da studiare. Ad esempio, la distinzione tra violenza diretta e strutturale proposta da Johan Galtung è fondamentale per comprendere le diverse forme di violenza e il loro impatto. Lo studio di queste teorie ci permette di acquisire una conoscenza approfondita di questi concetti e della loro applicazione nell'analisi della violenza contemporanea. È anche importante esaminare criticamente le teorie classiche della violenza. Studiandole, siamo in grado di metterne in discussione i presupposti e i limiti. Questo approccio critico incoraggia lo sviluppo di nuove teorie e nuove prospettive sulla violenza, contribuendo così all'evoluzione della conoscenza in questo campo. Infine, le teorie classiche della violenza rimangono attuali. Sebbene alcune di esse possano sembrare datate, molti dei concetti e delle idee che hanno sviluppato sono ancora utili per comprendere le dinamiche della violenza contemporanea. Studiando queste teorie, possiamo stabilire dei collegamenti tra le idee del passato e le realtà di oggi, permettendoci di comprendere meglio le questioni contemporanee legate alla violenza.

Lo studio delle teorie classiche della violenza è essenziale per comprendere a fondo questo fenomeno complesso. Esse forniscono le basi teoriche, la prospettiva storica, i concetti chiave e i quadri analitici necessari per comprendere la natura e le implicazioni della violenza in diversi contesti. Esse svolgono inoltre un ruolo importante nello sviluppo di nuove conoscenze e di nuovi approcci per prevenire e risolvere i problemi di violenza.

Etimologia della parola "violenza"

L'etimologia, lo studio dell'origine e dell'evoluzione delle parole, può far luce sul pensiero delle scienze politiche riguardo al concetto di violenza. Esaminando le radici etimologiche e i significati dei termini legati alla violenza, possiamo comprendere meglio le diverse concezioni e interpretazioni di questo complesso fenomeno.

Ad esempio, la parola stessa "violenza" deriva dal latino "violentia", che significa "forza eccessiva" o "violenza". Questa radice evidenzia l'idea di un'azione violenta che va oltre i limiti accettabili. L'etimologia di questo termine suggerisce quindi una nozione di costrizione o coercizione esercitata in modo eccessivo. Allo stesso modo, anche l'etimologia di alcune altre parole associate alla violenza può offrire spunti interessanti. Ad esempio, la parola "aggressione" deriva dal latino "aggressio", che significa "attaccare". Ciò sottolinea l'idea di un'azione offensiva o di un attacco contro gli altri. Studiando l'etimologia di questo termine, possiamo comprendere meglio la natura intenzionale e offensiva di alcuni comportamenti violenti. L'etimologia può anche rivelare le sfumature delle diverse forme di violenza. Ad esempio, il termine "violenza simbolica", reso popolare dal sociologo Pierre Bourdieu, evidenzia la dimensione simbolica o non fisica di alcune forme di violenza. L'etimologia della parola "simbolo" si riferisce all'idea di "mettere insieme", sottolineando l'importanza di simboli, rappresentazioni e pratiche culturali nel perpetuare la violenza sociale e politica. Studiando l'etimologia delle parole associate alla violenza, i ricercatori di scienze politiche possono approfondire la loro comprensione delle concezioni e delle implicazioni di questo fenomeno. Ciò può aiutarli ad analizzare i discorsi politici, a decodificare i significati impliciti e a esaminare le diverse dimensioni della violenza, sia essa fisica, simbolica, strutturale o politica. In definitiva, l'etimologia può contribuire a una migliore comprensione della violenza nel campo delle scienze politiche, facendo luce sulle origini e sui significati più profondi dei termini utilizzati per descriverla.

L'etimologia della parola "violenza" risale al termine latino "violentia" che significa "forza eccessiva" o "violenza". Tuttavia, è anche importante notare che la parola francese "violenza" è strettamente legata alla parola "violer", apparsa nell'XI secolo e derivata dal latino "violare". La parola "violer" implica un attacco all'integrità di una persona, sia dal punto di vista fisico, morale o del suo stesso essere. Questa connotazione di violazione dell'integrità rafforza la nozione di violenza come atto che trasgredisce i limiti accettabili e danneggia gli altri. Evidenzia la dimensione profonda della violenza, che va oltre la semplice nozione di forza fisica eccessiva e comprende aspetti morali, psicologici ed esistenziali. Ciò sottolinea l'importanza di considerare la violenza come un attacco all'intera persona, che colpisce la sua dignità, la sua sicurezza e il suo benessere. Esaminando l'etimologia della parola "violenza" e il suo rapporto con la parola "stupro", comprendiamo meglio la gravità e il profondo impatto della violenza sugli individui e sulle società. Inoltre, rafforza l'importanza di analizzare le diverse forme di violenza e le loro conseguenze multidimensionali nel campo delle scienze politiche.

Nel corso del tempo, il significato del termine si è esteso fino a comprendere non solo gli attacchi all'integrità personale, ma anche gli abusi di forza e le azioni contrarie alle norme e alle buone convenzioni. Nel XIII secolo, il termine "violenza" iniziò a essere associato all'abuso della forza. Ciò significa che la violenza non era più limitata all'uso eccessivo della forza, ma comprendeva anche l'uso della forza per scopi contrari alle norme e alle buone convenzioni. Ciò evidenzia l'aspetto normativo della violenza, sottolineando che certe azioni violente sono percepite come in contraddizione con i principi etici, morali o legali della società. Questa estensione del significato della parola "violenza" per includere azioni contrarie alle buone convenzioni sottolinea l'importanza del contesto sociale e culturale nella comprensione della violenza. Le norme e le convenzioni variano da società a società e ciò che può essere considerato violento in una cultura può non esserlo in un'altra. Questa evoluzione del significato di violenza è rilevante. Evidenzia l'importanza di prendere in considerazione le norme, i valori e le convenzioni sociali quando si analizza la violenza politica. Le azioni percepite come violente possono variare in base alle aspettative della società e alle norme politiche stabilite.

L'introduzione del verbo "violare" a partire dal 1342 rafforza l'idea che la violenza implichi un'azione intenzionale. Il verbo "violenter" indica che c'è un'azione in corso, sottolineando così la dimensione attiva della violenza. Sottolinea che la violenza è il risultato di un'intenzione deliberata di agire in modo brusco e immediato verso un'altra persona. Questa nozione di intenzionalità sottolinea che la violenza non è semplicemente il prodotto di circostanze casuali o accidentali, ma che è il risultato di un desiderio deliberato di danneggiare, dominare o costringere gli altri. Implica una certa aggressività nell'azione, con il desiderio di ottenere risultati immediati e spesso coercitivi. La presenza dell'aggettivo "violentemente" e dell'espressione "fare violenza" conferma ulteriormente che la violenza è associata a un'azione specifica. L'aggettivo "violentemente" descrive un'azione compiuta con forza e intensità. Sottolinea l'idea di un'azione brutale, rapida e intensa, caratteristica della violenza. L'uso di questo aggettivo rafforza l'aspetto dinamico e potente della violenza. L'espressione "fare violenza" sottolinea il fatto che la violenza implica un'azione deliberata e intenzionale. L'uso del verbo "fare" sottolinea l'aspetto attivo della violenza, indicando che è il risultato di un'azione intrapresa in modo determinato. Questa espressione sottolinea anche che la violenza è un'azione che viene imposta agli altri, un'azione che va contro la volontà o gli interessi della persona interessata. La comparsa nel linguaggio dell'aggettivo "violentemente" e dell'espressione "fare violenza" rafforza quindi l'idea che la violenza sia un'azione intenzionale e dinamica. Ciò sottolinea la dimensione attiva della violenza, caratterizzata dall'uso deliberato della forza o della coercizione.

Nel campo della scienza politica, questa dimensione intenzionale della violenza è cruciale per comprendere le motivazioni e gli obiettivi degli attori politici che ricorrono alla violenza. Ci permette di distinguere la violenza dagli incidenti o dagli eventi non intenzionali e di analizzarla come una strategia deliberata utilizzata per raggiungere fini politici specifici. Ciò evidenzia la necessità di considerare le motivazioni, le intenzioni e le dinamiche d'azione alla base del comportamento violento nel contesto politico.

La violenza è inseparabile dall'azione e dall'intenzionalità umana. Implica l'intenzione di agire e causare danni o costringere altri. La componente della forza è centrale nella violenza, sia essa fisica, morale, psicologica o di altro tipo. È importante riconoscere che la violenza non si limita solo agli atti di aggressione fisica. Può assumere anche forme non fisiche, come la violenza morale o psicologica. L'abuso emotivo può assumere la forma di intimidazione, svalutazione, manipolazione o abuso emotivo volto a ledere la dignità e il benessere psicologico di una persona. La violenza psicologica comprende forme di abuso o coercizione che agiscono sulla psiche dell'individuo e possono includere atti di manipolazione, ricatti emotivi, minacce, privazioni emotive, ecc. Queste forme di violenza possono avere conseguenze profonde sulla salute mentale, sul benessere emotivo e sulle relazioni sociali di un individuo. È essenziale capire che la violenza non è solo la manifestazione fisica della forza, ma può anche assumere forme sottili e insidiose che minano l'integrità, la dignità e il benessere degli individui. Nel campo della scienza politica, questa comprensione della violenza nelle sue varie dimensioni è fondamentale per analizzare le relazioni di potere, i conflitti politici, le dinamiche sociali e le conseguenze politiche della violenza. Ciò consente di tenere conto delle varie forme di violenza e di sviluppare strategie di prevenzione e risoluzione dei conflitti più olistiche ed efficaci.

La violenza è intrinsecamente legata all'azione e implica intenzionalità. Spesso si manifesta attraverso l'uso della forza e della coercizione, che può portare a un cambiamento della posizione, della situazione o del comportamento di una persona come risultato del danno inflitto. Quando una persona infligge violenza a un'altra persona, cerca di imporre la propria volontà con la forza o la coercizione, inducendo così l'altra persona a cambiare la propria posizione o il proprio comportamento. Questo può accadere in una varietà di contesti, come relazioni interpersonali, rapporti di potere, conflitti politici o sociali. La coercizione imposta dalla violenza può essere fisica, ad esempio quando una persona viene aggredita fisicamente o sottoposta ad atti di forza. Può anche essere psicologica, sociale o politica, quando la persona è costretta o obbligata a conformarsi a determinati standard, requisiti o richieste sotto la minaccia di conseguenze negative. È importante notare che l'uso della forza e della coercizione non sono gli unici modi in cui si esprime la violenza. Come abbiamo detto in precedenza, la violenza può assumere altre forme, come la violenza morale, psicologica, simbolica o strutturale, che possono avere effetti dannosi sugli individui e sulle società.

Hannah Arendt, filosofa politica del XX secolo, ha dato un importante contributo al dibattito su violenza e potere. Ha sostenuto che la violenza dovrebbe essere distinta dal potere e dalla potenza, perché la violenza richiede strumenti specifici, mentre il potere è più direttamente legato alla capacità di agire e influenzare. Arendt sostiene che la violenza è associata all'uso della forza fisica o di mezzi coercitivi per imporre la propria volontà. Spesso è caratterizzata dalla distruzione, dalla sottomissione o dal dominio di altri. Per esercitare la violenza, occorrono strumenti, armi o mezzi tangibili per imporre la propria volontà con la forza. La Arendt, invece, fa una distinzione tra violenza e potere, che descrive come più direttamente strumentale. Il potere, a suo avviso, è la capacità di agire collettivamente, di riunirsi e di prendere decisioni politiche. Si basa sulla cooperazione, sul consenso e sulla partecipazione attiva degli individui. A differenza della violenza, il potere non richiede necessariamente l'uso della forza fisica o di mezzi coercitivi. Arendt sottolinea che il potere è una forza più duratura e legittima della violenza. Il potere si basa sulla capacità degli individui di unirsi e agire di concerto, mentre la violenza è spesso usata per superare gli ostacoli o la resistenza al potere. L'autrice sottolinea anche i pericoli insiti nell'uso della violenza per raggiungere obiettivi politici, in quanto può portare a una spirale di violenza e alla distruzione delle relazioni politiche e sociali. Nella sua opera, la Arendt esamina le diverse forme di espressione della violenza, in particolare nel contesto del totalitarismo, dove la violenza è usata sistematicamente per controllare e opprimere gli individui. L'autrice esplora le implicazioni politiche ed etiche della violenza e del potere, cercando di capire come gli individui possano preservare la propria dignità e libertà di fronte a forze violente e oppressive.

Campi di riflessione scientifica

Il termine "cognitivista" si riferisce generalmente a un tipo di psicologo che si concentra sul modo in cui le persone percepiscono, pensano, ricordano, imparano e risolvono i problemi. I cognitivisti sono interessati principalmente alle informazioni in entrata e a come vengono elaborate dal cervello. Studiano la violenza dal punto di vista di come viene percepita ed elaborata dal cervello. Negli ultimi trent'anni circa, i cognitivisti hanno affrontato la questione della violenza da una prospettiva scientifica. Il loro lavoro ha evidenziato alcuni processi cognitivi che possono portare alla violenza. Ad esempio, hanno studiato come i pregiudizi cognitivi (come il pensiero dicotomico, in cui tutto è percepito come buono o cattivo, senza sfumature) possano portare alla violenza. Hanno anche studiato come i modelli di pensiero disfunzionali (come la ruminazione, in cui una persona rimane bloccata su pensieri negativi) possano aumentare il rischio di comportamenti violenti. La ricerca ha anche dimostrato che le persone con tendenza alla violenza hanno spesso una ridotta capacità di riconoscere e comprendere le emozioni degli altri, un fenomeno noto come alessitimia. Possono anche avere difficoltà a regolare le proprie emozioni, in particolare la rabbia. Questa ricerca ha importanti implicazioni per la prevenzione e il trattamento della violenza. Ad esempio, suggerisce che gli interventi volti a migliorare la regolazione delle emozioni e a modificare i modelli di pensiero disfunzionali possono essere efficaci nel ridurre la violenza. Inoltre, comprendendo i processi cognitivi alla base della violenza, potremmo essere in grado di identificare meglio le persone a rischio e aiutarle prima che diventino violente. Tuttavia, è importante notare che la violenza è un fenomeno complesso, influenzato da molti fattori, tra cui, ma non solo, quelli sociali, economici e ambientali.

Konrad Lorenz è stato un etologo austriaco che ha dato un contributo fondamentale alla comprensione del comportamento animale, compresa l'aggressività. Nel suo libro del 1963, On Aggression, Lorenz ha presentato la teoria secondo cui l'aggressività è un istinto innato negli animali e negli esseri umani. Lorenz definisce l'aggressività come una forza motrice che spinge l'individuo a combattere. Per Lorenz, l'aggressività non è necessariamente distruttiva o antisociale, ma può essere essenziale per la sopravvivenza e l'evoluzione delle specie. Ad esempio, l'aggressività può incoraggiare la competizione, che a sua volta può promuovere l'adattamento e la sopravvivenza. Lorenz ritiene inoltre che l'aggressività sia legata a specifici processi neurobiologici e che sia innescata da stimoli specifici, che chiama "segnali scatenanti fissi". Questi segnali possono variare da specie a specie e nell'uomo possono essere molto complessi. Per quanto riguarda l'umanità, Lorenz suggerisce che la nostra aggressività innata può essere esacerbata da alcuni aspetti della società moderna. Sostiene che le società tradizionali avevano modi per incanalare l'aggressività in modo produttivo e ridurre al minimo i conflitti violenti, ma che questi meccanismi possono essere assenti o disfunzionali nella società moderna.

Alcuni ricercatori, tra cui Lorenz, hanno suggerito che l'aggressività è una caratteristica comune a tutte le specie, forse addirittura un istinto biologico fondamentale. Ciò non significa che tutti gli esseri siano costantemente aggressivi, ma piuttosto che tutti hanno la capacità di esprimere comportamenti aggressivi in determinate circostanze. Nel mondo animale, l'aggressività può svolgere un ruolo importante in diverse situazioni, come la difesa del territorio, l'accesso alle risorse alimentari o l'affermazione del dominio all'interno di un gruppo. Alcuni di questi comportamenti possono essere osservati anche nell'uomo. Tuttavia, va notato che l'aggressività umana ha caratteristiche uniche che la distinguono da quella di altri animali. Per esempio, gli esseri umani sono capaci di aggressioni simboliche e indirette (come l'umiliazione o il rifiuto sociale) e sono anche capaci di violenza su larga scala, come la guerra. Inoltre, sebbene la biologia e l'istinto possano giocare un ruolo nell'aggressività, molti ricercatori sottolineano anche l'importanza dei fattori ambientali e sociali. Ad esempio, fattori come la povertà, lo stress, l'abuso di sostanze, l'esposizione alla violenza nei media e la mancanza di capacità di risoluzione dei conflitti possono aumentare il rischio di comportamenti aggressivi. È inoltre importante sottolineare che, sebbene l'aggressività sia una caratteristica comune a tutte le specie, ciò non significa che sia inevitabile o irreversibile. Molte ricerche dimostrano che l'aggressività può essere modificata con interventi appropriati, come l'educazione, la terapia e i cambiamenti nell'ambiente sociale e fisico.

L'aggressività può anche essere intesa come una modalità di espressione e di azione. Può essere una risposta a un ambiente percepito come minaccioso o stressante e può rappresentare un tentativo di difendere risorse percepite come a rischio, sia fisiche che psicologiche. L'aggressività può anche essere un modo per esprimere sentimenti di frustrazione, rabbia, ansia o paura. Questo non giustifica necessariamente l'aggressività, ma ci aiuta a capire perché può verificarsi. Comprendere l'aggressività come modalità di espressione può anche aiutare a sviluppare modi più efficaci di gestire e prevenire l'aggressività. Ad esempio, può essere utile imparare a esprimere i sentimenti in modo più costruttivo o a risolvere i conflitti in modo non violento. È anche importante notare che l'aggressività non è l'unico modo di esprimere questi sentimenti o di reagire a queste situazioni. Molte persone e culture hanno sviluppato modi non aggressivi di affrontare i conflitti, le avversità e le emozioni negative. Quindi, sebbene l'aggressività possa essere una risposta istintiva a certe situazioni, non è l'unica risposta possibile e spesso può essere modificata o controllata attraverso l'apprendimento e la pratica. Tuttavia, è fondamentale distinguere tra aggressività e assertività. Mentre l'aggressività spesso implica l'intimidazione, il dominio o la violazione dei diritti altrui, l'assertività è un modo di esprimersi che rispetta i diritti e i sentimenti degli altri, difendendo efficacemente i propri diritti e le proprie esigenze.

Le questioni relative alla violenza e all'aggressività trascendono le discipline e coinvolgono un'ampia gamma di fattori, dagli aspetti biologici e cognitivi individuali alle influenze socioculturali e politiche. A livello individuale, la psicologia cognitiva e le neuroscienze hanno contribuito molto alla comprensione del cervello e dei meccanismi cognitivi che possono portare alla violenza o all'aggressività. Ad esempio, la ricerca ha dimostrato che alcuni tipi di pregiudizi cognitivi, disfunzioni nell'elaborazione delle informazioni o difficoltà nella regolazione delle emozioni possono aumentare il rischio di comportamenti aggressivi. Tuttavia, è anche essenziale capire che la violenza e l'aggressività sono profondamente influenzate da fattori socio-culturali e politici. La cultura può influenzare il modo in cui la violenza viene percepita, accettata o sanzionata e può offrire modelli di comportamento violento o non violento. Ad esempio, una cultura che valorizza il dominio o l'aggressività può incoraggiare un comportamento violento, mentre una cultura che valorizza la cooperazione o la risoluzione pacifica dei conflitti può incoraggiare un comportamento non violento. Allo stesso modo, la politica può influenzare la violenza a tutti i livelli, dalle politiche governative che possono promuovere o scoraggiare la violenza (ad esempio, attraverso leggi sul controllo delle armi o politiche educative) al modo in cui i conflitti politici o le disuguaglianze possono portare alla violenza su larga scala, come guerre o rivoluzioni.

La violenza e l'aggressività sono fenomeni multidimensionali, influenzati da una moltitudine di fattori. È quindi necessario adottare un approccio interdisciplinare per comprenderli appieno. Queste discipline includono la biologia, la psicologia, la sociologia, l'antropologia, la criminologia, le scienze politiche e altre ancora.

  • La biologia e la psicologia si concentrano spesso sui fattori individuali che possono portare alla violenza, come i processi neurologici, i pregiudizi cognitivi, i disturbi della personalità, la regolazione delle emozioni, ecc.
  • La sociologia e l'antropologia esaminano spesso come i fattori sociali e culturali possano influenzare la violenza, ad esempio come la struttura sociale, le norme culturali, i ruoli di genere, le disuguaglianze, ecc. possano promuovere o scoraggiare la violenza.
  • La criminologia si concentra sui fattori che possono portare alla violenza criminale, compresi i fattori individuali, sociali, economici e ambientali.
  • La scienza politica spesso esamina la violenza a un livello più macroscopico, ad esempio come i conflitti politici, le politiche governative, il terrorismo, la guerra, ecc. possono portare alla violenza su larga scala.

Queste e altre discipline forniscono prospettive uniche e importanti sulla violenza e sull'aggressività. Pertanto, una piena comprensione di questi fenomeni richiede un approccio interdisciplinare che integri le prospettive di tutte queste discipline.

L'aggressività può certamente essere una forma di espressione e in alcuni casi può essere usata per esprimere la propria individualità. Ad esempio, una persona può ricorrere all'aggressione per affermare la propria autonomia, per resistere a un'autorità percepita come oppressiva o per distinguersi dagli altri. L'espressione dell'individualità è intrinsecamente legata alla comunicazione. Che sia espressa attraverso l'arte, la parola, il comportamento, lo stile di abbigliamento o altri mezzi, questa espressione serve a trasmettere informazioni su di sé agli altri. È un modo per esprimere sentimenti, pensieri, valori, interessi e una personalità unica. Inoltre, l'espressione dell'individualità non è solo una comunicazione unidirezionale: è anche un modo per interagire con gli altri e partecipare alla vita sociale. Ad esempio, quando esprimiamo la nostra individualità, possiamo ispirare gli altri, sfidarli, invitarli a conoscerci meglio o semplicemente condividere con loro una parte di noi stessi. Questo è un aspetto fondamentale della comunicazione umana.

Per comprendere appieno la violenza e l'aggressività, è fondamentale prendere in considerazione diverse dimensioni. Queste dimensioni includono fattori biologici, tratti della personalità individuale e interazione sociale.

  1. Fattori biologici: è assodato che i fattori biologici possono influenzare la propensione alla violenza e all'aggressività. Ad esempio, squilibri chimici nel cervello, anomalie genetiche o danni cerebrali possono aumentare il rischio di comportamenti violenti o aggressivi.
  2. Tratti della personalità: anche i tratti della personalità individuale possono svolgere un ruolo importante. Per esempio, tratti della personalità come l'impulsività, lo scarso autocontrollo o la tendenza all'irritabilità possono aumentare il rischio di aggressività. Allo stesso modo, anche alcune condizioni psicologiche, come il disturbo antisociale di personalità, sono associate a una maggiore propensione alla violenza.
  3. Interazione sociale: la socializzazione gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di comportamenti aggressivi o violenti. I bambini che non sono sufficientemente socializzati o che crescono in ambienti in cui la violenza è comune o accettata, possono essere più inclini a ricorrere all'aggressione. Inoltre, le persone che hanno difficoltà a gestire le relazioni sociali o a comprendere e rispondere ai segnali sociali possono essere più inclini ad agire in modo aggressivo.

Queste tre dimensioni sono interconnesse e si rafforzano a vicenda. Ad esempio, i fattori biologici possono influenzare i tratti della personalità, che a loro volta possono influenzare il modo in cui una persona interagisce con gli altri. Allo stesso modo, le esperienze sociali possono influenzare sia i tratti della personalità sia la biologia di una persona. È quindi necessario prendere in considerazione tutte e tre le dimensioni per comprendere appieno la violenza e l'aggressività e sviluppare interventi efficaci per prevenire o gestire questi comportamenti. Questi interventi possono comprendere strategie biologiche (come i farmaci), psicologiche (come la terapia comportamentale) e sociali (come l'educazione alla risoluzione pacifica dei conflitti o la creazione di ambienti sociali più sicuri e inclusivi).

Il controllo dell'ambiente è un fattore chiave per limitare l'aggressività e la violenza. Ciò può essere inteso in diversi modi. In primo luogo, la capacità di controllare gli aspetti fisici del proprio ambiente può contribuire a ridurre l'aggressività. Per esempio, una persona in grado di creare un ambiente di vita sicuro e confortevole può avere meno probabilità di sperimentare lo stress e la frustrazione che possono portare all'aggressività. In secondo luogo, anche la padronanza dell'ambiente sociale può essere importante. Una persona che ha buone capacità sociali ed è in grado di gestire le relazioni in modo efficace può avere meno probabilità di ricorrere all'aggressione come mezzo per risolvere i conflitti. In terzo luogo, anche la padronanza dell'ambiente emotivo interno è fondamentale. Una persona che ha sviluppato un'efficace capacità di regolazione delle emozioni e di resilienza allo stress può essere meglio equipaggiata per affrontare situazioni che altrimenti potrebbero portare all'aggressività. Infine, la padronanza dell'ambiente può anche significare la capacità di cambiare il proprio ambiente quando necessario. Per esempio, una persona in grado di lasciare un ambiente violento o di evitare di crearne uno può avere meno probabilità di ricorrere alla violenza. Per sviluppare questa padronanza dell'ambiente, può essere utile adottare un approccio olistico che includa la promozione della salute mentale, l'educazione alla risoluzione non violenta dei conflitti, lo sviluppo di abilità sociali, il miglioramento delle condizioni di vita e altre strategie simili.

Le emozioni svolgono un ruolo centrale nell'aggressione e nella violenza. Le emozioni intense, come la rabbia, la frustrazione o la paura, possono spesso scatenare comportamenti aggressivi. Inoltre, anche il modo in cui percepiamo e interpretiamo le nostre emozioni può influenzare la nostra propensione all'aggressività. Per esempio, se interpretiamo le nostre emozioni di rabbia come un'indicazione del fatto che siamo stati trattati ingiustamente, questo può spingerci ad agire in modo aggressivo per ripristinare quello che percepiamo come un giusto equilibrio. Allo stesso modo, se abbiamo difficoltà a gestire o esprimere le nostre emozioni in modo sano, questo può renderci più propensi a ricorrere all'aggressività come mezzo di espressione. Ecco perché la regolazione emotiva - la capacità di comprendere, gestire e rispondere in modo appropriato alle nostre emozioni - è spesso un elemento chiave per prevenire l'aggressività e la violenza. Le strategie di regolazione emotiva possono comprendere la presa di coscienza delle proprie emozioni, l'apprendimento di tecniche di rilassamento o di riduzione dello stress, la pratica di una comunicazione assertiva, lo sviluppo di capacità di risoluzione dei problemi e altre tecniche simili. È inoltre importante notare che la nostra percezione di ciò che costituisce "aggressione" può variare notevolmente da persona a persona e da cultura a cultura. Ciò che viene percepito come aggressione da una persona può essere percepito come un'azione neutra o addirittura positiva da un'altra. Ciò significa che comprendere e tenere conto di queste differenze di percezione può essere fondamentale per prevenire l'aggressione e la violenza.

L'aggressività è un termine che si riferisce alla capacità di una situazione di provocare o incoraggiare un comportamento aggressivo, e questa capacità è spesso determinata dalle tre dimensioni sopra menzionate: fattori biologici, tratti di personalità e interazioni sociali. La percezione gioca un ruolo fondamentale nell'aggressività. Ad esempio, se una persona percepisce una situazione come minacciosa, ingiusta o frustrante, può essere più propensa a rispondere in modo aggressivo. Allo stesso modo, se una persona ha una propensione biologica o personale a percepire le situazioni in modo negativo, o se è stata socializzata in un ambiente in cui l'aggressività è vista come una risposta appropriata, può avere maggiori probabilità di trovare le situazioni aggressive. È anche importante notare che le situazioni aggressive non sono necessariamente intrinsecamente aggressive. Ad esempio, una discussione accesa o un dibattito intenso possono essere percepiti come aggressivi da una persona, ma non da un'altra. Ciò significa che il modo in cui interpretiamo e reagiamo alle situazioni può avere un forte impatto sulla loro aggressività. Per questo è fondamentale sviluppare le capacità di regolazione emotiva, di risoluzione dei conflitti e di comunicazione assertiva. Queste abilità possono aiutarci a gestire le situazioni aggressive in modo più sano ed efficace e a trasformarle in opportunità di crescita e comprensione reciproca.

La scienza politica, come disciplina, è molto interessata alla violenza. La violenza, in particolare quella politica, è un aspetto fondamentale dell'organizzazione delle società umane e la sua comprensione può aiutare a far luce su molti aspetti della politica, come la formazione degli Stati, i conflitti etnici e religiosi, le rivoluzioni, il terrorismo, la guerra e la pace, tra gli altri. Nella scienza politica, la violenza è generalmente considerata una forma di azione politica. Cioè, la violenza è spesso usata come mezzo per raggiungere fini politici, sia per prendere il potere, difendere i diritti, resistere all'oppressione, promuovere il cambiamento sociale o altri obiettivi simili. Tuttavia, è importante notare che, sebbene la violenza sia una forma di azione, non è l'unico modo, né necessariamente il migliore, per raggiungere questi obiettivi. Esistono molte altre forme di azione politica, come l'attivismo, la negoziazione, il dialogo, l'educazione e altre strategie non violente, che spesso possono essere più efficaci e meno distruttive. Per quanto riguarda l'ipotesi che "la violenza è azione", potrebbe servire come punto di partenza per forgiare una teoria sulle condizioni in cui la violenza diventa una forma accettabile o preferita di azione politica. Ad esempio, tale teoria potrebbe esplorare domande come: quali fattori incoraggiano gli individui o i gruppi a scegliere la violenza come mezzo di azione politica? In che modo le strutture politiche, economiche e sociali influenzano questa decisione? Quali sono gli impatti della violenza sulla politica e sulla società e come possono essere gestiti o minimizzati?

La teoria contestuale svolge un ruolo essenziale nella comprensione della violenza, soprattutto nel campo delle scienze politiche. Concentrandoci sulla relazione tra individuo e collettività, possiamo esaminare come il contesto sociale, economico e politico influenzi il comportamento violento. La dimensione collettiva della violenza si manifesta in diversi modi. Ad esempio, gruppi di individui possono impegnarsi insieme nella violenza, come nelle rivolte o nelle guerre. In questi casi, le dinamiche di gruppo possono rafforzare la violenza, poiché gli individui spesso si sentono meno responsabili delle loro azioni quando agiscono in gruppo. Inoltre, la violenza può essere usata come mezzo per affermare l'identità del gruppo o per difendere i suoi interessi. Ad esempio, i gruppi etnici, religiosi o politici possono usare la violenza per combattere la discriminazione o l'oppressione, o per rivendicare il potere. Tuttavia, è importante notare che la dimensione collettiva della violenza non è solo una questione di dinamiche di gruppo. Anche le strutture sociali, economiche e politiche più ampie svolgono un ruolo importante nel facilitare o limitare la violenza. Ad esempio, istituzioni politiche forti ed eque possono aiutare a prevenire la violenza risolvendo i conflitti in modo pacifico, mentre la disuguaglianza economica o la discriminazione sociale possono incoraggiare la violenza creando frustrazioni e tensioni. Pertanto, la comprensione della dimensione collettiva della violenza richiede un'analisi del contesto in cui si verifica la violenza, comprese le norme sociali, le istituzioni politiche, le condizioni economiche e altri fattori simili. È qui che la teoria contestuale può essere particolarmente utile.

Passare da un fatto individuale a un fatto collettivo comporta un'analisi approfondita dei meccanismi di socializzazione e di formazione dei gruppi. I comportamenti individuali diventano fenomeni collettivi solo quando vengono adottati e ripetuti da un gruppo di persone. Questo processo può essere influenzato da una serie di fattori, come le norme sociali, le istituzioni politiche, l'istruzione, i media e altre influenze culturali. Nel caso della violenza, un atto violento può diventare un fenomeno collettivo quando la violenza è percepita come un mezzo accettabile o necessario per risolvere i conflitti, affermare l'identità del gruppo, difendere i diritti o raggiungere altri obiettivi sociali o politici. Ad esempio, se una società è segnata da conflitti armati, la violenza può diventare un comportamento sociale accettato o addirittura atteso. La violenza può essere definita un fatto sociale quando diventa un fenomeno diffuso e accettato all'interno di una società. Ciò può accadere quando la violenza è istituzionalizzata, come nel caso della violenza di Stato, o quando la violenza è culturalmente accettata, come nel caso di alcune forme di violenza domestica o di genere. La gestione politica della violenza è una questione fondamentale in quanto influenza il modo in cui la violenza viene percepita, gestita e prevenuta in una società. Le politiche pubbliche possono aiutare a prevenire la violenza promuovendo l'istruzione, migliorando le condizioni di vita, mettendo in atto misure per prevenire e punire la violenza e promuovendo la risoluzione pacifica dei conflitti.

Le teorie classiche della violenza

Hobbes (1588 - 1979) e la teoria della violenza come utilità sociale

Thomas Hobbes.

Thomas Hobbes, filosofo politico inglese del XVII secolo, è noto per la sua teoria dello stato di natura e del contratto sociale, che ha importanti implicazioni per la nostra comprensione della violenza. Nella sua opera più famosa, "Il Leviatano", Hobbes descrive lo stato di natura come uno stato di "guerra di tutti contro tutti" in cui la violenza è onnipresente. Secondo Hobbes, in assenza di un'autorità centrale (un "Leviatano") che imponga l'ordine, gli individui sono in perenne competizione per le risorse, portando a un costante stato di paura e violenza. Tuttavia, Hobbes ritiene che gli individui siano razionali e cerchino di evitare questa condizione brutale di vita. Decidono quindi di stipulare un contratto sociale, rinunciando a parte della loro libertà in cambio della protezione offerta da uno Stato o da un'autorità centrale. Lo Stato, a sua volta, ha il dovere di mantenere l'ordine e di proteggere i cittadini dalla violenza. Dal punto di vista di Hobbes, quindi, la violenza ha una certa "utilità sociale" in quanto serve a motivare la creazione dello Stato e l'istituzione del contratto sociale. La paura della violenza nello stato di natura incoraggia gli individui a unirsi e a creare una società organizzata per garantire la loro sicurezza collettiva. È importante notare, tuttavia, che sebbene Hobbes riconosca questa "utilità" della violenza nella creazione dello Stato, non promuove la violenza in sé. Al contrario, lo scopo della costituzione dello Stato è proprio quello di eliminare la violenza dalla vita quotidiana degli individui. Per Hobbes, quindi, la violenza non è una caratteristica desiderabile della società, ma piuttosto un male da evitare.

Thomas Hobbes ha descritto nei suoi scritti tre possibili livelli di violenza:

  • Hobbes ha descritto lo stato di natura come un luogo di violenza brutale, dove non esiste un'autorità che protegga gli individui gli uni dagli altri. In questo stato, secondo Hobbes, la vita dell'uomo è "solitaria, povera, brutale e breve". Gli individui sono in costante conflitto per le risorse limitate, portando a uno stato di "guerra di tutti contro tutti".
  • Guerra internazionale: Hobbes vedeva le relazioni internazionali come se esistessero in uno stato di natura simile, in cui ogni Stato è sovrano e non esiste un'autorità globale che regoli le loro interazioni. Questo può portare a guerre internazionali, in cui ogni Stato agisce nel proprio interesse e usa la forza per raggiungere i propri obiettivi.
  • Guerra tra il sovrano e i ribelli: Hobbes ha anche discusso la violenza che può verificarsi all'interno di uno Stato, in particolare tra il sovrano e i ribelli. Per Hobbes, qualsiasi ribellione contro il sovrano è illegittima perché viola il contratto sociale e può riportare la società allo stato di natura. Tuttavia, egli accetta che se il sovrano non adempie ai suoi obblighi (in particolare quello di proteggere i cittadini), allora i cittadini hanno il diritto di difendersi.

Ognuno di questi livelli di violenza illustra un aspetto diverso della teoria politica di Hobbes. Essi evidenziano il suo punto di vista secondo cui la violenza è una conseguenza inevitabile dello stato di natura e che lo Stato e il contratto sociale sono necessari per mantenere la pace e l'ordine.

Nel suo libro Leviathan, Hobbes individua tre cause principali di conflitto nello stato di natura, che portano alla violenza:

  • Rivalità: secondo Hobbes, la rivalità è causata dalla competizione per le risorse limitate. Nello stato di natura, gli individui sono in costante competizione per le risorse di cui hanno bisogno per sopravvivere, come cibo, acqua e riparo. Questa competizione può portare a conflitti e violenza.
  • Diffidenza: anche la diffidenza può portare alla violenza, perché nello stato di natura gli individui non possono fidarsi che gli altri rispettino i loro diritti o la loro proprietà. In questo stato, gli individui possono ricorrere alla violenza per proteggere se stessi o la loro proprietà come precauzione, anche se non c'è una minaccia immediata.
  • Orgoglio (o gloria): Hobbes considerava anche che il desiderio di fama o reputazione può portare alla violenza. Gli individui possono combattere per preservare il proprio onore, per guadagnarsi il rispetto degli altri o per assicurarsi un posto nella gerarchia sociale.

Queste cause di conflitto e violenza dipingono lo stato di natura come un luogo di paura e insicurezza, in cui le persone sono costantemente in guardia e pronte a combattere per la sopravvivenza. Per questo motivo, secondo Hobbes, gli individui hanno un interesse razionale ad abbandonare questo stato di natura e a stabilire un contratto sociale, per creare uno Stato che possa garantire pace e sicurezza.

Secondo la teoria di Hobbes, queste tre principali cause di conflitto (rivalità, diffidenza e orgoglio) possono portare a guerre e conflitti. Senza un'autorità centrale che mantenga l'ordine, imponga regole e regoli il comportamento, è probabile che gli individui combattano per risorse limitate, si proteggano per precauzione a causa della diffidenza e cerchino di affermare la propria reputazione o il proprio posto nella gerarchia sociale. Nello stato di natura descritto da Hobbes, questi conflitti non sono regolati e possono facilmente degenerare in violenza diffusa o in guerra. Per questo Hobbes sosteneva l'idea di creare un "Leviatano", o uno Stato potente, che potesse controllare la violenza e mantenere l'ordine. Inoltre, questi concetti possono essere estrapolati a livello internazionale. Gli Stati, proprio come gli individui nello stato di natura, possono trovarsi in conflitto per le risorse, per sfiducia reciproca o per motivi di orgoglio nazionale. Queste tensioni possono portare alla guerra o al conflitto internazionale. Sebbene Hobbes abbia descritto uno stato di natura potenzialmente violento, il suo obiettivo non era quello di promuovere la violenza, ma piuttosto di sottolineare l'importanza dell'autorità centrale (lo Stato) nel mantenere la pace e l'ordine.

=== Livello delle relazioni inter-individuali nello stato di natura ======. Nella filosofia di Hobbes, la violenza è associata alla mancanza di ragione ed è spesso legata alle passioni sfrenate. Per Hobbes, gli individui razionali cercherebbero di evitare la violenza perché porta all'insicurezza e all'instabilità. Questo è uno degli argomenti principali di Hobbes per cui gli individui decidono di formare uno Stato attraverso un contratto sociale: per sfuggire alla violenza e all'incertezza dello stato di natura. Tuttavia, Hobbes non vede la violenza come totalmente irrazionale. Piuttosto, la vede come il prodotto inevitabile del perseguimento razionale degli interessi in una situazione in cui non esiste un'autorità che regoli il comportamento degli individui. In altre parole, nello stato di natura può essere razionale per un individuo ricorrere alla violenza per garantire la propria sopravvivenza o per proteggere la propria proprietà.

Questo è uno dei paradossi centrali della filosofia politica di Thomas Hobbes: la violenza, sebbene spesso scatenata da passioni irragionevoli, porta ad agire razionalmente per evitare tali conflitti in futuro. Nello stato di natura, dove regnano la diffidenza, la rivalità e la ricerca della gloria, gli individui possono essere spinti ad agire violentemente per garantire la propria sicurezza e i propri interessi. Tuttavia, la vita in questo stato di guerra perpetua è pericolosa e instabile e, secondo Hobbes, gli individui sono razionali e cercano naturalmente di evitare queste condizioni di vita brutali. È quindi la prospettiva di tale violenza che spinge gli individui a stipulare un contratto sociale e a creare uno Stato. Questo passaggio dalla violenza irragionevole all'azione razionale per evitarla illustra il paradosso al centro della filosofia di Hobbes. Il desiderio di evitare la violenza, nonostante la sua natura passionale e irragionevole, motiva la creazione di una struttura politica e sociale razionale e ordinata. Sebbene Hobbes offra questa teoria come spiegazione dello sviluppo della società e dello Stato, non suggerisce che la violenza sia un prerequisito necessario o desiderabile per questo processo. L'obiettivo finale, secondo Hobbes, è quello di creare uno Stato in grado di mantenere la pace e la sicurezza, riducendo così al minimo la possibilità della violenza.

È possibile stabilire una catena concettuale che collega l'"opposizione" all'"irragionevolezza", poi alla "passione" e infine all'"anarchia". Nel contesto della filosofia politica, questa catena può essere interpretata come segue:

  1. Opposizione: potrebbe riferirsi alla competizione o alla lotta per le risorse nello stato di natura, come descritto da Hobbes. Senza un'autorità che imponga l'ordine, gli individui si trovano in opposizione tra loro per garantire la propria sopravvivenza.
  2. Irragionevolezza: la costante opposizione e la lotta per la sopravvivenza possono portare a comportamenti irragionevoli, come la violenza. Senza regolamentazione o protezione, gli individui possono agire in modo impulsivo o irrazionale per garantire la propria sicurezza.
  3. Passioni: Hobbes vedeva nelle passioni umane una delle principali cause di conflitto e violenza. Nello stato di natura, senza regole che moderino queste passioni, esse possono portare all'irragionevolezza e alla violenza.
  4. Anarchia: se le passioni umane non sono regolate da un'autorità, lo stato di natura può trasformarsi in anarchia. Hobbes ha descritto questo stato come una "guerra di tutti contro tutti", in cui non c'è legge o ordine e la violenza è onnipresente.

Hobbes vedeva questa catena di eventi come potenziale, non inevitabile. Egli sosteneva che, riconoscendo la possibilità di questa sequenza di eventi, gli individui potevano scegliere di formare un contratto sociale e creare uno Stato, per prevenire l'irragionevolezza, moderare le passioni ed evitare l'anarchia.

La questione della razionalità dell'azione è un tema centrale in filosofia e nelle scienze sociali. La maggior parte delle teorie dell'azione presuppone che gli individui agiscano razionalmente, cioè che scelgano i mezzi più efficaci per raggiungere i loro obiettivi, tenendo conto delle loro convinzioni e dei loro valori. L'idea che tutte le azioni siano razionali può, tuttavia, essere messa in discussione. Ad esempio, sappiamo che gli individui possono agire sotto l'influenza di emozioni, impulsi o vincoli cognitivi che impediscono loro di fare scelte perfettamente razionali. Inoltre, ciò che consideriamo "razionale" può variare a seconda del contesto culturale o personale. Nel caso della violenza, può essere difficile considerare gli atti violenti come "razionali". Tuttavia, dal punto di vista dell'attore, la violenza può sembrare una risposta razionale a una situazione percepita come una minaccia. Inoltre, in alcune circostanze, la violenza può essere utilizzata come mezzo strategico per raggiungere obiettivi specifici. Nella teoria di Hobbes, ad esempio, la violenza nello stato di natura può essere vista come una risposta razionale a una situazione di insicurezza e di competizione per le risorse. Tuttavia, Hobbes stesso riconosce che questa violenza è dannosa e destabilizzante e sostiene che la soluzione più razionale è quella di creare uno Stato che possa garantire pace e sicurezza.

Livello della guerra internazionale =

Il concetto di Stato di Westfalia si riferisce a un certo tipo di ordine internazionale emerso in seguito ai Trattati di Westfalia del 1648, che posero fine alla Guerra dei Trent'anni in Europa. Questi trattati stabilirono l'idea di sovranità statale, secondo la quale ogni Stato ha un'autorità esclusiva e incontestabile sul proprio territorio e sulla propria popolazione. L'ordine di Westfalia è quindi caratterizzato da un sistema internazionale di Stati sovrani che non riconoscono alcuna autorità superiore alla propria.

In questo sistema, gli Stati possono entrare in conflitto o in guerra per una serie di motivi, come la rivalità per il potere o le risorse, le dispute territoriali o le differenze ideologiche. In questo contesto, la guerra può essere vista come un'estensione della politica con altri mezzi, per usare la famosa frase di Carl von Clausewitz.

La teoria di Hobbes sullo stato di natura e sullo stato di guerra può essere applicata su scala internazionale nel sistema westfaliano. In assenza di un'autorità globale superiore che regoli le relazioni tra gli Stati, questi ultimi possono trovarsi in una situazione simile allo stato di natura descritto da Hobbes, dove il conflitto è costante e la sicurezza è sempre minacciata. Allo stesso modo, come gli individui nello stato di natura, gli Stati possono scegliere di formare alleanze o organizzazioni internazionali per garantire la propria sicurezza e promuovere i propri interessi.

Lo Stato, spinto dal desiderio intrinseco di accumulare potere, si trova spesso in competizione o in conflitto con altri Stati per ottenere risorse aggiuntive. Questo può portare a uno stato di guerra latente, in cui ogni Stato cerca di massimizzare il proprio potere relativo. Tuttavia, affinché lo Stato funzioni efficacemente e garantisca il benessere dei suoi cittadini, deve anche essere in grado di gestire e regolare la propria violenza, sia interna che esterna. Questo compito è generalmente svolto dal sovrano e da varie istituzioni pubbliche, che hanno il compito di mantenere l'ordine e la pace sia all'interno che all'esterno dei confini dello Stato.

Questa ipotesi evoca gli elementi essenziali del sistema internazionale degli Stati e le ragioni per cui gli Stati possono entrare in conflitto.

  1. Desiderio di accumulare: l'idea che gli Stati cerchino di aumentare il proprio potere è fondamentale per le relazioni internazionali. Il potere può assumere la forma di controllo su un maggior numero di territori, risorse, influenza politica o economica e così via. Questa ricerca di accumulazione può portare a tensioni o conflitti con altri Stati.
  2. Stato di guerra: da una prospettiva hobbesiana, la situazione internazionale senza un'autorità sovranazionale può assomigliare a uno "stato di guerra" in cui gli Stati devono costantemente prepararsi a difendersi da eventuali minacce.
  3. Il ruolo del sovrano e delle istituzioni pubbliche: in questo contesto, il sovrano e le istituzioni pubbliche svolgono un ruolo essenziale nel garantire la sicurezza e nel gestire le risorse dello Stato.
  4. Gestione della violenza: un aspetto cruciale del potere statale è la capacità di gestire e controllare la violenza. Ciò include non solo la difesa dalle minacce esterne, ma anche il mantenimento dell'ordine e della pace all'interno dei confini dello Stato. Nel sistema westfaliano, la capacità di controllare la violenza è un attributo essenziale della sovranità.

Questi elementi evidenziano la complessità delle relazioni tra gli Stati e il modo in cui la violenza e la guerra possono essere intese in un contesto internazionale.

Nella teoria di Hobbes, lo Stato ha una duplice funzione. Deve difendersi dalle minacce esterne, ma anche dalla violenza interna. Per Hobbes, lo Stato è un mezzo per contenere la violenza insita nella natura umana. Nella sua opera Leviatano, egli postulava che senza un'autorità centrale che imponesse l'ordine, la società sarebbe caduta in uno "stato di guerra di tutti contro tutti". Quindi lo Stato, come "Leviatano", deve esercitare un potere assoluto per mantenere la pace e prevenire la violenza. Questo compito non comprende solo la difesa dalle minacce esterne, ma anche la prevenzione e la gestione della violenza all'interno dello Stato. Deve essere in grado di far rispettare leggi e regole per evitare conflitti interni e mantenere la coesione sociale. Per Hobbes, questo potere dello Stato non deve essere usato in modo arbitrario, ma deve sempre essere finalizzato al benessere e alla sicurezza dei cittadini.

Per Hobbes, la violenza è una caratteristica intrinseca dello stato di natura dell'uomo. Di conseguenza, sebbene lo Stato, in quanto entità sovrana, possa incanalare e controllare questa violenza, non potrà mai eliminarla completamente. Uno dei ruoli principali dello Stato, secondo Hobbes, è quello di prevenire la potenziale autodistruzione della società regolando la violenza interna. Tuttavia, egli riconosce anche che la violenza può derivare dal conflitto tra gli Stati stessi, spesso guidato da desideri contrastanti di potere e risorse. Questa tensione tra il desiderio di accumulare potere (e potenzialmente generare violenza) e la necessità di mantenere la pace e la stabilità è una dinamica centrale nella sua teoria. Così, anche se lo Stato è in grado di contenere in qualche misura la violenza interna, la possibilità della violenza - a livello individuale, collettivo o interstatale - persiste sempre nel pensiero di Hobbes.

Livello di guerra tra sovrano e ribelle

Nella teoria di Hobbes, la guerra tra il sovrano e i ribelli rappresenta una grave minaccia alla stabilità dello Stato. Questa forma di violenza è particolarmente preoccupante perché destabilizza l'autorità del sovrano e può potenzialmente portare all'anarchia e alla disintegrazione dello Stato. Secondo Hobbes, la società si basa su un "contratto sociale" in cui gli individui accettano di sottomettersi all'autorità di un sovrano in cambio di protezione e sicurezza. Tuttavia, se alcuni individui o gruppi ("ribelli") scelgono di rifiutare l'autorità del sovrano e di prendere le armi contro di lui, ciò mette a rischio l'ordine sociale e lo stato di pace che il sovrano dovrebbe mantenere. La ribellione può essere motivata da diversi fattori, come l'insoddisfazione per le politiche del sovrano, le disuguaglianze socio-economiche, le differenze ideologiche o religiose e così via. Per Hobbes, la ribellione è una forma di "ritorno allo stato di natura" che deve essere evitata a tutti i costi, perché può portare a uno stato di guerra di tutti contro tutti.

Hobbes non vede la violenza come qualcosa che può essere completamente eliminata dalla società o dalla natura umana. Al contrario, vede la violenza come una costante, un aspetto fondamentale della condizione umana. Per Hobbes, la violenza è una parte intrinseca dello stato di natura umano e, sebbene la creazione dello Stato e l'istituzione di un'autorità sovrana possano aiutare a controllare e regolare questa violenza, essa non scompare mai del tutto.

Questa prospettiva può essere interpretata come piuttosto cupa, ma ha anche una dimensione realistica. Hobbes riconosce che la violenza, in una forma o nell'altra, è sempre presente nelle interazioni umane e politiche. Per questo motivo, nella sua teoria, lo scopo principale dello Stato è quello di controllare e minimizzare il più possibile questa violenza per preservare l'ordine sociale, piuttosto che cercare di eliminarla del tutto.

George Sorel (1847 - 1922) et la violence contestataire

Georges Sorel.

Georges Sorel, philosophe et sociologue français, a une perspective très différente de celle de Hobbes sur la violence. Pour Sorel, la violence n'est pas seulement une menace pour l'ordre social, mais peut aussi être un outil puissant de transformation sociale et politique. Dans son œuvre la plus célèbre, "Réflexions sur la violence" (1908), Sorel développe une théorie de la violence contestataire. Selon Sorel, la violence peut être une expression légitime de la lutte des classes et un moyen nécessaire pour les travailleurs de renverser l'ordre capitaliste. Il rejette l'idée que la violence est toujours destructrice ou néfaste, et soutient que la violence révolutionnaire peut être créative et libératrice. La violence, selon Sorel, est nécessaire pour secouer l'inertie sociale et provoquer des changements radicaux. Il soutient que les grèves générales, un exemple de violence contestataire, ne sont pas simplement des tactiques de négociation, mais peuvent être des actes révolutionnaires qui perturbent l'ordre établi et ouvrent la voie à une nouvelle société. Sorel n'approuve pas toutes les formes de violence. Il distingue la violence proletarienne, qui sert un but révolutionnaire, de la violence criminelle, qu'il considère comme contre-productive et antisociale.

En effet, la pensée politique de Georges Sorel est complexe et a traversé de nombreuses phases et transformations au fil du temps. Initialement, Sorel était un socialiste et un marxiste qui croyait en la lutte des classes et en la nécessité d'une révolution pour établir une société socialiste. Il a également été un fervent syndicaliste, croyant que les syndicats étaient l'instrument par lequel les travailleurs pourraient se libérer de l'oppression capitaliste. Cependant, au fil du temps, Sorel s'est de plus en plus éloigné du marxisme traditionnel et a développé ses propres idées, parfois controversées, sur le rôle de la violence et de la mythologie dans la politique. Certaines de ces idées ont été récupérées par des mouvements d'extrême droite, ce qui a conduit certains à associer Sorel à l'extrême droite. Il est important de noter, cependant, que Sorel lui-même n'a jamais adhéré à l'idéologie d'extrême droite. Vers la fin de sa vie, il a même exprimé des critiques envers certains mouvements d'extrême droite de son époque. Néanmoins, l'interprétation de ses idées par certains groupes d'extrême droite a contribué à créer une certaine ambiguïté autour de sa figure. Bien que Sorel ait commencé sa carrière en tant que socialiste et marxiste, sa pensée a évolué de manière complexe et parfois contradictoire, et a été utilisée et interprétée de différentes manières par divers mouvements politiques après sa mort.

Dans "Réflexions sur la violence" (1906), Sorel défend l'idée que la violence n'est pas seulement un acte individuel, mais peut aussi être une force collective. Pour Sorel, la violence peut être un moyen pour un groupe, notamment la classe ouvrière, de s'affirmer face à l'oppression et d'initier un changement social. Il met en avant la notion de la grève générale, qui, dans sa vision, est une forme de violence contestataire collective. Une grève générale, pour Sorel, n'est pas seulement un outil de négociation pour améliorer les conditions de travail, mais est un moyen par lequel les travailleurs peuvent démontrer leur pouvoir, perturber l'ordre social et éventuellement catalyser une transformation sociale révolutionnaire. Ainsi, Sorel place la violence dans un contexte social et politique plus large, la considérant comme un acte qui peut avoir une signification et un impact au-delà de l'acte individuel. Il fait valoir que la violence peut servir à révéler et à défi les structures de pouvoir existantes, et peut être un outil efficace pour le changement social lorsque elle est utilisée collectivement.

La structure des chapitres de "Réflexions sur la violence" illustre bien les idées principales de Sorel et sa compréhension de la violence comme un phénomène social et politique complexe. Voici un aperçu de chaque chapitre :

  1. Lutte de classe et violence : Sorel examine comment la violence joue un rôle dans la lutte des classes. Il soutient que la violence est une part inévitable de cette lutte et que, loin d'être une menace à l'ordre social, elle peut être un outil de libération pour la classe ouvrière.
  2. La décadence bourgeoise et la violence : Sorel critique la bourgeoisie et affirme que sa décadence morale et spirituelle a contribué à la violence sociale.
  3. Les préjugés contre la violence : Sorel examine et conteste certains des préjugés courants contre la violence, notamment l'idée qu'elle est toujours destructrice ou néfaste.
  4. La grève prolétarienne : Sorel défend l'idée que les grèves peuvent être un acte révolutionnaire et pas seulement une tactique de négociation.
  5. La grève générale productive : Sorel développe sa vision de la grève générale, qu'il considère comme un outil puissant de changement social.
  6. La moralité de la violence : Sorel explore les aspects moraux de la violence. Il soutient que la violence n'est pas nécessairement immorale et peut être justifiée dans certaines circonstances.
  7. La morale des producteurs : Sorel explore l'idée de la morale des producteurs, ou la classe ouvrière, et comment cette morale peut influencer leur utilisation de la violence.

Dans l'ensemble, Sorel présente une vision de la violence qui déconstruit les préjugés courants et examine comment la violence peut être utilisée de manière productive et morale pour apporter des changements sociaux et politiques.

L'idée de Sorel est que la violence, lorsqu'elle est utilisée par la classe ouvrière pour lutter contre l'oppression et l'exploitation, peut être considérée comme moralement justifiée. Selon lui, la violence peut servir de moyen pour remettre en question et transformer les rapports de pouvoir injustes et inégaux qui existent dans une société capitaliste. Il voit la violence comme un outil que la classe ouvrière peut utiliser pour se libérer de l'exploitation et de l'oppression bourgeoises. C'est dans ce contexte qu'il parle de la "moralité de la violence". Il faut cependant souligner que ces vues sont controversées et ont été critiquées pour leur potentialisation de la violence. Bien que Sorel voit la violence comme un moyen potentiel de réaliser des changements sociaux, il est important de considérer les implications éthiques et les conséquences possibles de l'utilisation de la violence à ces fins.

Dans la perspective de Sorel, la lutte des classes est un moyen de perturber et de contester les structures de pouvoir existantes dans la société. Il voit la violence comme une force potentiellement émancipatrice que la classe ouvrière peut utiliser pour s'affirmer et faire pression pour un changement social et économique. Il considère la grève générale comme un exemple clé de ce type de violence "positive". Pour Sorel, une grève générale n'est pas seulement un moyen de négocier de meilleures conditions de travail, mais aussi une façon pour les travailleurs de démontrer leur pouvoir, de perturber l'ordre social et économique existant, et de forcer les classes dirigeantes à reconnaître et à répondre à leurs demandes.

Dans le contexte de mouvements politiques radicaux ou extrémistes, la théorisation de la violence comme outil légitime et moral peut mener à des abus, à une escalade de la violence, et même à des actes de terrorisme. Cette logique a été utilisée par certains mouvements anarchistes, révolutionnaires ou extrémistes pour justifier des actions violentes contre ceux qu'ils perçoivent comme leurs oppresseurs. Cela souligne le danger inhérent à la conception de la violence comme un outil légitime de changement social. Même si cette idée peut sembler séduisante dans le contexte de la lutte contre l'oppression et l'injustice, il est important de garder à l'esprit les conséquences potentiellement dévastatrices de la violence. Elle peut entraîner une escalade des tensions et des conflits, causer des souffrances et des dommages importants, et, dans les cas extrêmes, mener à des actes de terrorisme.

Certains mouvements extrémistes peuvent justifier leur recours à la violence en arguant qu'elle est nécessaire pour lutter contre l'oppression, ce qui peut mener à une escalade de la violence et à des situations extrêmement dangereuses. Cette logique peut être retrouvée dans certains courants de l'anarchisme, mais aussi dans divers autres mouvements radicaux ou extrémistes. L'anarchisme, en tant que philosophie politique, est en réalité assez diversifié et tous les anarchistes ne prônent pas l'usage de la violence. Certains courants, comme l'anarcho-pacifisme, rejettent explicitement la violence. D'autres peuvent voir la violence comme un mal nécessaire ou comme un outil de légitime défense contre l'oppression. Néanmoins, lorsque des individus ou des groupes adoptent la violence comme stratégie principale de résistance ou de révolte, cela peut mener à des actes de terrorisme ou à des situations de conflit violent et prolongé. Ces situations sont souvent contre-productives, provoquant des souffrances et des destructions massives, sans nécessairement apporter de réels progrès vers la justice ou l'égalité.

Le débat sur la morale et la violence est indissociable des discussions politiques et de notre compréhension de ce qu'est la politique. La politique est souvent considérée comme l'art de la négociation et du compromis, où l'objectif est de parvenir à une solution qui, bien qu'elle ne soit pas nécessairement parfaite pour tous les participants, est acceptable pour la majorité. Cependant, dans les situations où une partie se sent systématiquement exclue ou opprimée, ou quand les mécanismes politiques traditionnels semblent incapables de résoudre les problèmes, certains peuvent se tourner vers la violence en la considérant comme une forme de communication politique ou comme le seul moyen de faire entendre leur voix. Le débat sur la moralité de la violence dans de tels contextes est complexe et souvent polarisé. Certains affirment que la violence est toujours immorale, quelles que soient les circonstances, tandis que d'autres peuvent la considérer comme un mal nécessaire ou même comme un acte moral dans certaines situations d'oppression.

René Girard (1923 - 2015) et la violence sacrificielle

René Girard.

René Girard était un philosophe, anthropologue, historien et critique littéraire français. Ses travaux ont principalement porté sur la violence, le désir mimétique et le sacrifice dans la culture humaine. Il a développé une théorie selon laquelle le désir humain est fondamentalement mimétique, c'est-à-dire que les gens désirent ce que les autres désirent, ce qui crée de la rivalité et peut mener à la violence. Selon Girard, cette violence mimétique est si destructrice qu'elle menace la survie de la communauté. Pour éviter l'autodestruction, les communautés trouvent un bouc émissaire à blâmer et à punir. Cette victime, qui est souvent choisie parce qu'elle est différente ou marginalisée, est ensuite sacrifiée pour restaurer l'harmonie au sein de la communauté. Cette théorie du bouc émissaire est une des contributions majeures de Girard à la compréhension de la violence dans les sociétés humaines. Girard a également développé la théorie du désir mimétique pour expliquer le rôle de la violence dans la religion. Selon lui, les religions sont des systèmes qui ont évolué pour canaliser et contrôler la violence mimétique. Le rôle central du sacrifice dans de nombreuses religions est, selon Girard, une manifestation de cette fonction de contrôle de la violence. Les idées de René Girard ont eu une grande influence dans de nombreux domaines, y compris la littérature, la philosophie, la théologie, la psychologie, l'anthropologie et les études de genre. Cependant, comme pour toutes les théories, elles ont aussi été critiquées et débattues.

René Girard a consacré une grande partie de sa vie à explorer des questions de philosophie, de religion et d'éthique. Ses contributions ont largement influencé ces domaines, notamment par le biais de ses idées sur la violence, le désir mimétique et le sacrifice. Il a été professeur dans plusieurs universités prestigieuses aux États-Unis, dont l'Université Johns Hopkins, l'Université de Buffalo, et l'Université de Stanford. Il a été élu à l'Académie française en 2005, un honneur qui reconnaît son apport considérable à la pensée française. Il a écrit de nombreux livres influents, dont "La violence et le sacré" (1972), "Des choses cachées depuis la fondation du monde" (1978), et "Le bouc émissaire" (1982). Ces ouvrages présentent des perspectives innovantes sur la façon dont la violence est générée et gérée au sein des sociétés humaines. Girard s'est également intéressé à la manière dont les mécanismes de la violence et du sacrifice sont reflétés dans la littérature, analysant les œuvres de grands écrivains comme Dostoïevski, Proust, et Shakespeare pour illustrer ses théories. Son œuvre, bien que profonde et souvent complexe, offre des idées précieuses pour comprendre la nature de la violence et les moyens par lesquels les sociétés tentent de la contenir et de la gérer.

Les œuvres de René Girard, "La Violence et le sacré" (1972), "Le Bouc émissaire" (1982), et "Je vois Satan tomber comme l'éclair" (1999), où il traite du sacrifice, sont essentielles pour comprendre sa pensée. Dans "La Violence et le sacré", Girard développe sa théorie du désir mimétique. Selon lui, le désir humain n'est pas inné mais acquis. Les hommes désirent des objets, des statuts, des idées, non pour leur valeur intrinsèque, mais parce qu'ils sont désirés par d'autres. Ce mécanisme crée de l'envie, de la rivalité, et finalement de la violence au sein des sociétés. Pour prévenir l'escalade de la violence, les sociétés développent alors le mécanisme du bouc émissaire : la communauté se débarrasse de ses tensions internes en les projetant sur une personne ou un groupe, qui est ensuite sacrifié. Ce mécanisme est à la fois violent et sacré car il rétablit la paix sociale, et est donc considéré comme sacré par la communauté. Dans "Le Bouc émissaire", Girard pousse plus loin son analyse en montrant comment ce mécanisme est présent dans de nombreux mythes et textes religieux, et comment il structure les sociétés humaines. Girard ne justifie ni n'idéalise la violence ; il cherche à l'expliquer. En comprenant mieux les mécanismes qui génèrent la violence, il espère que nous pourrons trouver des moyens de la prévenir.

Pour René Girard, la violence doit être comprise comme un phénomène sociétal et non seulement individuel. Il a introduit le concept de "violence mimétique" pour expliquer comment la violence se propage dans une société. Selon lui, les êtres humains ont tendance à copier ou à "imiter" le comportement des autres, y compris le comportement violent. Ainsi, un acte violent peut en provoquer d'autres, créant une spirale de violence. Ce n'est donc pas simplement une question d'individus violents, mais d'un processus social de propagation de la violence. De plus, Girard a également théorisé le mécanisme du "bouc émissaire", selon lequel une société peut tenter de résoudre ses tensions internes en s'en prenant à un individu ou à un groupe, qui est alors persécuté. C'est une autre manière dont la violence peut se manifester de manière collective, et non seulement individuelle.

Le mimétisme se réfère à une tendance inhérente à l'être humain de copier les désirs, les comportements et les attitudes des autres. C'est un processus à la fois inconscient et automatique qui joue un rôle crucial dans l'apprentissage social et la formation de notre identité. Selon Girard, le mimétisme conduit à la rivalité et à la violence parce que les individus commencent à se disputer les mêmes désirs et objectifs. Par exemple, si deux personnes désirent la même chose, elles deviennent des rivaux et entrent en conflit. Dans la théorie du bouc émissaire de Girard, la violence mimétique est également importante. Lorsqu'un groupe est confronté à une escalade de violence mimétique, il cherche souvent un moyen de décharger cette violence sur un bouc émissaire - une personne ou un groupe qui est ensuite persécuté ou éliminé, rétablissant temporairement la paix dans la communauté. Cependant, puisque le mimétisme et le désir sont encore présents, le cycle de la violence est susceptible de recommencer. C'est une théorie qui offre un aperçu fascinant de la façon dont la violence peut se propager et se perpétuer dans une société, et comment les sociétés cherchent à gérer cette violence.

La théorie de Girard soutient que toutes les cultures sont fondées sur un acte de violence originel, qui est souvent mythologisé et ritualisé à travers des pratiques sacrificielles. La violence, dans ce sens, n'est pas seulement une aberration ou une déviation de la norme sociale, mais elle est centrale dans la formation et le maintien des sociétés humaines. C'est cette violence qui, selon Girard, mène à l'émergence de la culture, des normes sociales et de l'ordre moral. En outre, Girard souligne l'importance du sacrifice comme moyen de canaliser et de contrôler la violence au sein de la société. Le sacrifice agit comme un mécanisme de défense contre l'escalade de la violence en dirigeant la violence collective vers un bouc émissaire, qui est souvent une figure marginale ou un étranger. Le bouc émissaire absorbe la violence collective, permettant à la société de maintenir la paix et l'ordre, du moins temporairement. Cette vision de la violence met en évidence la tension inhérente entre notre désir de vivre dans des sociétés pacifiques et notre dépendance historique envers la violence comme moyen de maintenir l'ordre social. C'est une tension qui, selon Girard, continue de se jouer dans les sociétés modernes.

Girard soutient que la violence, en tant que partie intégrante de la structure sociale, est incorporée dans les mythes, les rituels et les pratiques sacrificielles de toutes les sociétés. Les mythes sont les histoires que les sociétés se racontent sur elles-mêmes, leurs origines et leurs valeurs. Ils servent souvent à légitimer l'ordre social existant et à expliquer pourquoi les choses sont comme elles sont. Dans de nombreux mythes, la violence joue un rôle crucial, souvent en tant que force destructive qui doit être maîtrisée pour le bien de la société. Les rituels, d'autre part, sont des actions symboliques répétitives qui servent à renforcer les normes et les valeurs sociales. Les rituels peuvent souvent impliquer des actes de violence symbolique, comme le sacrifice d'animaux ou, dans certaines sociétés, d'humains. Enfin, la pratique du sacrifice, comme mentionné précédemment, est un moyen de canaliser la violence collective. En se concentrant sur le bouc émissaire, la société est capable de libérer sa violence de manière contrôlée, évitant ainsi l'escalade de la violence non contrôlée. Dans toutes ces instances, la violence est non seulement acceptée, mais elle est même considérée comme nécessaire au maintien de l'ordre social. C'est une idée troublante, mais qui est essentielle pour comprendre comment les sociétés gèrent la violence inhérente à la condition humaine.

La théorie du bouc émissaire de René Girard est un mécanisme par lequel une société canalise et gère sa violence inhérente. Selon cette théorie, lorsque les tensions et les conflits au sein d'une communauté atteignent un certain niveau, la communauté se tourne vers un individu ou un groupe spécifique (le bouc émissaire) sur lequel elle projette toute sa violence collective. Ce bouc émissaire est souvent quelqu'un qui est déjà marginalisé ou vu comme différent. L'acte d'accuser le bouc émissaire et de diriger la violence collective vers lui sert à restaurer l'équilibre et l'unité dans la communauté. Après l'acte, la paix est rétablie, mais cette paix est précaire car elle repose sur la violence dirigée vers le bouc émissaire. Girard a soutenu que cette pratique du bouc émissaire est au cœur de nombreuses cultures et religions, et qu'elle a joué un rôle clé dans la formation des sociétés humaines. Cependant, il a également noté que cette méthode de gestion de la violence a des limites, car elle n'aborde pas les causes profondes de la violence et peut en fait perpétuer le cycle de violence si les conditions sous-jacentes qui génèrent la violence ne sont pas résolues.

René Girard a beaucoup travaillé sur les mythes pour comprendre comment la violence est intégrée dans nos sociétés. Selon lui, les mythes ne sont pas simplement des récits, mais des représentations de la violence sociale et de la façon dont elle est gérée par les sociétés. Pour Girard, le mythe fonctionne en dissimulant la violence réelle qui se produit dans la société. Il réinterprète cette violence comme quelque chose de nécessaire, voire de sacré. En ce sens, le mythe opère comme une sorte de mécanisme de défense qui aide la société à gérer la réalité de sa propre violence. Prenons l'exemple du mythe sacrificiel, qui est commun à de nombreuses cultures. Dans ces mythes, un individu ou un animal est souvent sacrifié pour apaiser les dieux ou pour le bien de la communauté. Ce sacrifice est perçu comme nécessaire pour maintenir l'ordre social et prévenir une plus grande violence ou le chaos. La théorie du sacrifice de Girard suggère que ce type de mythe a une fonction importante dans la canalisation de la violence collective et la réintégration de cette violence dans l'ordre social. En d'autres termes, le mythe du sacrifice fournit un moyen d'exprimer la violence d'une manière contrôlée et symbolique qui maintient l'ordre social et prévient une escalade de violence. Cependant, Girard a également souligné que cette façon de gérer la violence a ses limites et peut perpétuer la violence en la justifiant et en la rendant acceptable. Par conséquent, il a plaidé pour une prise de conscience de la nature de la violence et de son rôle dans nos sociétés.

Selon Girard, chaque société doit gérer sa propre violence inhérente, et cela se fait souvent par le biais de rituels et de mythes. Ces rituels et mythes servent de soupapes de sécurité pour la société, permettant une expression contrôlée de la violence qui pourrait autrement menacer de déchirer la structure sociale. Un des concepts clés dans la pensée de Girard est le "mécanisme du bouc émissaire". Dans de nombreuses sociétés, lorsqu'une tension ou un conflit atteint un certain niveau, la société se tourne vers un individu ou un groupe (le bouc émissaire) pour porter la faute. En persécutant le bouc émissaire, la société décharge sa tension violente d'une manière qui préserve l'ordre social. Cependant, bien que cette "violence contrôlée" puisse temporairement apaiser les tensions, elle ne résout pas les conflits sous-jacents. Au contraire, elle peut perpétuer un cycle de violence en justifiant l'agression contre le bouc émissaire. Cette tension non résolue peut ressurgir plus tard, nécessitant un autre bouc émissaire pour rétablir temporairement la paix. Pour Girard, comprendre ce processus est crucial pour rompre le cycle de la violence et chercher des moyens plus pacifiques de résoudre les conflits.

René Girard propose une compréhension révolutionnaire du sacrifice en tant que mécanisme social et rituel religieux. Dans cette vision, le sacrifice est une sorte de technique de gestion de la violence communautaire. Dans le cadre de la théorie du bouc émissaire de Girard, le sacrifice est un moyen de diriger la violence inhérente à la communauté vers une cible spécifique (la victime sacrificielle) afin d'éviter que cette violence ne se propage et n'engendre un conflit généralisé. L'acte de sacrifice est souvent enveloppé dans le langage et la symbolique religieuse, donnant l'impression que c'est un acte demandé par les dieux pour maintenir l'ordre du monde. En réalité, c'est un acte sociétal visant à maintenir l'ordre interne de la communauté. Les individus de la communauté peuvent ne pas être conscients du véritable rôle joué par la violence dans ce processus.

La théorie de Girard propose que la violence sacrificielle est une forme de violence substitutive. Elle est mise en œuvre pour apaiser les tensions et la violence latente au sein d'une communauté, en dirigeant cette violence vers une victime sacrifiée, souvent appelée le "bouc émissaire". Dans ce processus, la violence intrinsèque de la communauté est transférée à cette victime, qui en porte la charge et est ultimement détruite ou exclue de la communauté. Cette violence sacrifiée est souvent présentée comme un acte nécessaire et juste, exigé par une divinité ou pour le bien de la communauté. Cette pratique permet d'évacuer la violence collective sans déclencher de conflit interne plus large. En identifiant un bouc émissaire, la communauté redirige sa violence et ses tensions internes, prévenant ainsi l'émergence de conflits destructeurs.

Selon la théorie de René Girard, le sacrifice joue un rôle fondamental dans la gestion des tensions et des conflits internes à une société. Par le biais du sacrifice, la violence et les frustrations accumulées au sein du groupe sont transférées vers une victime substitutive, le bouc émissaire, qui est alors sacrifiée pour rétablir l'harmonie et la paix. La désignation du bouc émissaire est un processus collectif qui permet d'éviter que la violence ne se déchaîne à l'intérieur du groupe, ce qui pourrait menacer sa cohésion et même sa survie. Le sacrifice devient ainsi un rituel structurant qui permet de gérer la violence intrinsèque à la société. Ce rituel de sacrifice revêt une symbolique puissante. Il représente l'expiation collective des fautes, des tensions et des conflits, et la restauration de l'ordre social. Cependant, il est important de noter que ce processus repose sur une certaine forme d'injustice, puisque le bouc émissaire est souvent choisi arbitrairement et est sacrifié pour des fautes qu'il n'a pas nécessairement commises.

La théorie du bouc émissaire de René Girard se base sur cette idée de transfert de la violence collective vers un individu ou un groupe spécifique, choisi comme victime sacrificielle. Ce bouc émissaire est chargé symboliquement de tous les péchés, les tensions et les frustrations de la communauté, et son sacrifice permet de restaurer la paix et l'harmonie au sein du groupe. Ce processus permet d'éviter l'escalade de la violence au sein de la société. En effet, si la violence collective n'était pas canalisée de cette manière, elle pourrait conduire à des conflits plus graves, voire à l'autodestruction du groupe. C'est ce qui donne au sacrifice sa fonction régulatrice et apaisante.

Selon la théorie de René Girard, le bouc émissaire est une figure fondamentale dans toutes les sociétés, dans la mesure où il joue un rôle essentiel dans la régulation de la violence collective. En transférant cette violence sur le bouc émissaire, la société peut éviter une escalade de la violence qui pourrait menacer sa survie. Le bouc émissaire est donc sacrifié pour le bien de la collectivité. Cependant, ce mécanisme repose sur un paradoxe : pour contrôler la violence, la société doit elle-même recourir à la violence, sous une forme ritualisée et symbolique. Cette violence est justifiée par le mythe du bouc émissaire, qui est accusé de tous les maux de la société et sacrifié pour apaiser les tensions collectives. En outre, la désignation du bouc émissaire ne repose pas sur une rationalité objective. L'individu ou le groupe choisi comme bouc émissaire est souvent désigné de manière arbitraire, sans véritable preuve de sa culpabilité. Cette désignation sert avant tout à canaliser la violence collective, plutôt qu'à rendre justice. Cette théorie a des implications importantes pour notre compréhension des phénomènes sociaux tels que la stigmatisation, l'exclusion et la violence collective. Elle suggère également que toute tentative de créer une société totalement non-violente pourrait être vouée à l'échec, car la violence joue un rôle fondamental dans la régulation des relations sociales.

Selon Girard, le rite du bouc émissaire permet à la société de maintenir ou de restaurer sa cohésion. Dans les moments de crise, quand la tension et la violence augmentent, la désignation et le sacrifice d'un bouc émissaire fournissent une forme de résolution collective. La violence est canalisée sur une cible précise, évitant ainsi son étalement anarchique dans la société, ce qui pourrait menacer son unité et sa stabilité. Par le sacrifice du bouc émissaire, la société espère rétablir l'ordre et l'harmonie, réduire la tension et mettre fin au conflit. En fait, la société espère un retour à la normale, à un état antérieur à la crise. Le sacrifice du bouc émissaire est alors perçu comme un moyen d'apaiser les dieux, de purifier la communauté et d'effacer la faute qui a provoqué la crise. La violence est ainsi ritualisée et contrôlée, transformée en un acte bénéfique pour la communauté.

État et violence politique

L'État et la violence politique entretiennent une relation complexe. En général, l'État détient le monopole de la violence légitime dans une société, une notion introduite par le sociologue Max Weber. Cela signifie que seul l'État a le droit d'utiliser la force physique pour maintenir l'ordre, appliquer la loi et défendre la nation contre les menaces extérieures. Cependant, la violence politique va au-delà de l'usage légitime de la force par l'État. Elle englobe également les actes de violence perpétrés par des acteurs non étatiques, comme les groupes terroristes ou rebelles, qui cherchent à atteindre leurs objectifs politiques.

La violence politique peut également comprendre la violence étatique illégitime, comme la répression, la torture, les disparitions forcées ou les exécutions extrajudiciaires. Ces actes sont généralement commis par des régimes autoritaires pour maintenir leur pouvoir, mais peuvent également se produire dans des démocraties, généralement lors de situations de crise. De plus, l'État peut également être le cible de la violence politique, comme dans les cas de coups d'État, de révolutions ou d'insurrections. Dans ces situations, des groupes d'individus tentent de renverser le gouvernement en place par la force.

Enfin, il est important de mentionner que la violence politique n'est pas toujours physique. Elle peut également être structurelle, comme lorsque certaines personnes ou groupes sont systématiquement exclus du pouvoir politique, économique ou social. De même, la violence symbolique, telle que la propagande ou le discours de haine, peut également être considérée comme une forme de violence politique.

Violence politique et violence extrême

Il existe divers concepts pour explorer la question de la violence, notamment en ce qui concerne la violence dans un contexte politique. Les quatre principaux concepts sont :

  • La violence politique classique se réfère à l'utilisation de la force pour atteindre un objectif politique. Il peut s'agir de violence étatique, comme la répression ou la guerre, ou de violence non étatique, comme le terrorisme ou la rébellion armée.
  • La violence infrapolitique concerne les actes de violence qui sont politiques par nature, mais qui ne sont pas nécessairement reconnus comme tels. Cela peut inclure des formes de violence structurelle, comme l'exclusion systématique de certains groupes de la vie politique, économique ou sociale.
  • La violence métapolitique est une notion plus complexe qui se réfère à la violence qui dépasse le domaine politique traditionnel. Il peut s'agir d'actes de violence qui sont motivés par des croyances ou des idéologies qui transcendent la politique traditionnelle, comme le fondamentalisme religieux ou le fanatisme idéologique.
  • La violence extrême, enfin, fait référence à des actes de violence qui sont si atroces et dévastateurs qu'ils dépassent notre compréhension habituelle de ce que constitue la violence. Cela peut inclure des actes tels que le génocide, les crimes contre l'humanité ou les formes les plus brutales de terrorisme. Le terme "barbare" est souvent utilisé pour désigner ceux qui commettent de tels actes, suggérant qu'ils ont transgressé les limites de ce qui est considéré comme un comportement acceptable ou civilisé.

Ces concepts ne sont pas mutuellement exclusifs et peuvent se chevaucher dans de nombreux cas. Par exemple, un acte de violence politique peut aussi être une forme de violence métapolitique s'il est motivé par une idéologie extrémiste.

Concept classique de violence politique

La violence politique en tant que concept classique est intrinsèquement liée à la notion de pouvoir et d'autorité. Elle peut être employée soit par un État ou une puissance publique dans le but d'exercer, de maintenir ou d'étendre leur pouvoir, soit par des groupes ou des individus cherchant à contester ce pouvoir. Dans ce contexte, la violence peut prendre plusieurs formes, allant de la violence physique directe, telle que la guerre ou la répression, à la violence structurelle ou systémique, telle que la discrimination institutionnalisée ou l'oppression économique. La question de la légitimité de la violence politique est complexe et peut varier considérablement en fonction du contexte et de la perspective. Par exemple, une action qui peut être considérée comme une violence politique illégitime par certains (comme le terrorisme ou la rébellion armée) peut être vue par d'autres comme une résistance légitime à l'oppression. La violence politique est donc une forme complexe de violence qui implique une multitude de facteurs, y compris le pouvoir, l'autorité, la résistance, l'oppression et la légitimité.

Les deux arguments suivants sont deux justifications courantes de l'utilisation de la violence, souvent articulées dans le cadre de la politique ou des conflits armés :

  1. La violence comme principe d'action défensive : Cet argument soutient que l'usage de la violence est justifiable s'il sert à protéger un individu, un groupe ou un État contre une menace imminente ou réelle. On peut retrouver cette notion dans le principe de légitime défense. Cela peut également s'appliquer à l'usage de la force par l'État pour maintenir l'ordre public, prévenir la criminalité ou protéger la sécurité nationale. Dans ce cas, la question clé est souvent de déterminer jusqu'à quel point l'utilisation de la violence est proportionnée à la menace, et si d'autres moyens moins violents auraient pu être utilisés à la place.
  2. La violence au service d'une cause juste: Cet argument justifie l'utilisation de la violence en tant que moyen d'atteindre un objectif plus large ou plus noble. Cela peut inclure la lutte pour l'égalité sociale, la libération nationale, ou la défense de certaines valeurs ou croyances. Dans ce cas, la violence est souvent perçue comme un mal nécessaire, justifiée par la gravité de l'injustice à combattre ou l'importance de l'objectif à atteindre. Cette approche peut mener à des situations où les moyens (la violence) sont justifiés par la fin (la cause juste).

La violence politique dans le but de défendre l'état de droit est une question complexe qui suscite de nombreux débats. L'utilisation de la force par l'État, par exemple à travers la police ou l'armée, est généralement justifiée par la nécessité de maintenir l'ordre public et la sécurité. Cependant, cette force doit toujours être utilisée de manière proportionnée et conforme aux principes de l'état de droit. L'un des défis majeurs auxquels sont confrontés les acteurs publics est de trouver le juste équilibre entre l'utilisation de la force pour maintenir l'ordre et le respect des libertés et droits fondamentaux des citoyens. Une utilisation excessive de la force peut non seulement violer ces droits, mais aussi provoquer davantage de mécontentement et de résistance de la part de la population. Par ailleurs, la violence de l'État peut également générer un cycle de violence : des actes de violence commis par l'État peuvent entraîner des représailles ou des actes de résistance violents de la part de ceux qui se sentent oppressés, ce qui peut à son tour conduire à une escalade de la violence. Ainsi, même si la violence peut sembler être un outil efficace pour maintenir l'ordre à court terme, elle peut aussi s'avérer contre-productive et déstabilisante à long terme. C'est pourquoi il est crucial que les acteurs publics cherchent toujours à utiliser des moyens non violents pour résoudre les conflits et les tensions chaque fois que cela est possible.

La question symbolique et de savoir jusqu’où il est possible d’aller. L'impact de la "bavure" - une action excessive, illégitime ou cruelle, généralement menée par les forces de l'ordre - qui peut entraîner de graves conséquences non seulement pour la personne directement concernée, mais aussi sur le plan symbolique et sociopolitique.

La notion de "bavure" souligne la frontière entre l'usage justifié de la force par l'État dans l'exercice de ses fonctions et ce qui est perçu comme une transgression de cette légitimité. Les conséquences d'une telle transgression peuvent être profondes et multiples :

  1. Sur le plan individuel, les victimes de bavures peuvent subir des préjudices physiques et psychologiques graves, et dans les cas les plus extrêmes, ces incidents peuvent entraîner la mort.
  2. Sur le plan symbolique, une bavure peut éroder la confiance du public envers les institutions de l'État et sa perception de leur légitimité. Cela peut engendrer des sentiments de méfiance et de peur, mais aussi de colère et de révolte, potentiellement menant à des mouvements de protestation ou des troubles civils.
  3. Sur le plan sociopolitique, les bavures peuvent susciter des débats publics intenses sur la gouvernance, les droits de l'homme, l'État de droit, et la responsabilité des institutions et des individus. Cela peut aussi engendrer des appels à des réformes structurelles.

Par conséquent, les "bavures" sont loin d'être des incidents isolés : elles sont profondément imbriquées dans le tissu sociopolitique et peuvent avoir des implications importantes pour la stabilité et la légitimité de l'État.

L'usage de la violence par le pouvoir politique nécessite une justification, souvent formulée à travers un discours public. Cette rationalisation est essentielle pour maintenir la légitimité de l'État aux yeux de la population. Elle est généralement basée sur des principes de légalité, de nécessité et de proportionnalité.

  1. Légalité : L'action violente doit être conforme à la loi en vigueur. Il s'agit du principe de base pour justifier l'usage de la violence par l'État. Toutefois, il convient de noter que la légalité seule n'est pas toujours suffisante pour assurer la légitimité, en particulier si les lois en question sont perçues comme injustes ou abusives.
  2. Nécessité : L'usage de la violence doit être présenté comme nécessaire pour atteindre un certain objectif, généralement lié à la préservation de l'ordre public, de la sécurité nationale, ou du bien-être général de la population. Le concept de nécessité est souvent invoqué dans les situations de crise ou de menace imminente.
  3. Proportionnalité : La violence utilisée doit être proportionnelle à la menace ou à l'infraction. Ce principe vise à éviter une répression excessive et arbitraire.

En plus de ces principes, l'État doit également faire preuve de transparence et d'accountabilité en matière d'usage de la violence. Cela implique une communication claire sur les raisons de l'usage de la violence, ainsi qu'une mise en place de mécanismes de contrôle et de responsabilisation pour prévenir les abus. Cela étant dit, il est important de rappeler que même avec une rationalisation bien construite, l'usage de la violence par l'État peut toujours susciter des contestations et des débats, en particulier si elle est perçue comme étant disproportionnée, injuste, ou discriminatoire.

Dans certains cas, la violence peut être considérée comme étant au service d'une cause juste, en particulier quand elle est utilisée pour résister à l'oppression, défendre les droits de l'homme, ou protéger les plus vulnérables. C'est ce que l'on appelle souvent la théorie de la "guerre juste" ou de la "violence justifiée". Cette approche se fonde sur l'idée que la violence peut être moralement acceptable si elle vise à atteindre un objectif plus important, comme la justice sociale, la liberté, ou la paix. Par exemple, beaucoup considèrent que l'utilisation de la violence par les mouvements de résistance pendant la Seconde Guerre mondiale était justifiée face à l'oppression nazie. Cependant, cette perspective est aussi sujette à controverse. D'une part, il y a le risque que le concept de "violence justifiée" soit utilisé pour légitimer des actes de violence abusifs ou disproportionnés. D'autre part, certains philosophes et penseurs politiques soutiennent que la violence, même au service d'une cause juste, reste fondamentalement immorale et destructrice.

Le "droit d'ingérence" est une notion qui a émergé dans les années 1980 et qui fait référence à l'idée que la communauté internationale a le droit - voire le devoir - d'intervenir dans les affaires internes d'un État pour protéger les droits de l'homme et prévenir les catastrophes humanitaires. Cela constitue une dérogation au principe traditionnel de non-ingérence, qui fait de la souveraineté de l'État une norme absolue du droit international. Cette évolution est principalement due à une prise de conscience croissante des souffrances humaines causées par les conflits internes et les régimes oppressifs. Cependant, comme la notion de "violence juste", le droit d'ingérence est aussi une notion controversée. Certains affirment qu'il peut être utilisé comme prétexte pour des interventions militaires motivées par des intérêts géopolitiques plutôt que par des considérations humanitaires. D'autres soutiennent que l'intervention internationale peut parfois aggraver les conflits qu'elle cherche à résoudre. Malgré ces débats, le droit d'ingérence a influencé la manière dont la communauté internationale aborde les crises humanitaires et a contribué à la création de la notion de "responsabilité de protéger", adoptée par les Nations Unies en 2005, qui stipule que si un État ne peut pas ou ne veut pas protéger sa population contre des atrocités de masse, il revient à la communauté internationale de le faire.

Le droit d'ingérence humanitaire représente un changement significatif dans la philosophie du droit international. Traditionnellement, le droit international est fondé sur le respect de la souveraineté des États, ce qui signifie que chaque État a le droit de contrôler ses propres affaires intérieures sans ingérence extérieure. Cependant, le droit d'ingérence humanitaire remet en question cette idée, affirmant que la communauté internationale a le droit et même le devoir d'intervenir dans les affaires intérieures d'un État lorsque les droits de l'homme sont gravement violés, comme dans les cas de génocide, de crimes de guerre ou de crimes contre l'humanité. C'est donc une notion controversée. D'un côté, elle est louée pour sa capacité à protéger les individus des violations massives des droits de l'homme. De l'autre, elle est critiquée pour son potentiel à être utilisée comme prétexte pour des interventions militaires motivées par des intérêts géopolitiques plutôt que par de véritables préoccupations humanitaires. De plus, il existe une crainte que l'ingérence humanitaire puisse aggraver les conflits qu'elle cherche à résoudre. Enfin, l'application du droit d'ingérence humanitaire pose des défis pratiques. Qui décide quand une intervention est nécessaire? Comment s'assurer que l'intervention est menée de manière éthique et efficace? Ces questions continuent d'être débattues par les juristes, les politologues et les acteurs internationaux.

Le concept de violence infrapolitique

La violence infrapolitique se réfère généralement à la violence qui est exercée en dehors des structures traditionnelles du pouvoir étatique. Elle est souvent liée à des acteurs non étatiques, tels que des groupes armés, des organisations criminelles ou des milices privées, qui exercent leur propre forme de pouvoir et de contrôle, parfois à l'intérieur des frontières d'un État-nation, mais en dehors du contrôle direct de ce dernier. Cette forme de violence peut se manifester de différentes façons, allant du crime organisé et du trafic de drogues à la violence politique et ethnique. Elle est souvent liée à des situations de faiblesse ou de défaillance de l'État, où le pouvoir étatique est insuffisant pour maintenir l'ordre et garantir la sécurité. La violence infrapolitique est un phénomène complexe et multiforme qui pose de nombreux défis en termes de sécurité, de gouvernance et de droits de l'homme. Sa prise en compte est essentielle pour comprendre les dynamiques contemporaines de la violence et du pouvoir. Dans les années 1980 et au-delà, avec la mondialisation et les changements économiques et politiques, on a vu une augmentation de la violence infrapolitique dans de nombreux contextes, alors que des acteurs non étatiques ont acquis une influence croissante. Cette tendance a soulevé de nouvelles questions sur la façon dont nous comprenons la violence, le pouvoir et le rôle de l'État.

La violence infrapolitique peut brouiller les frontières entre ce qui est considéré comme politique et ce qui est considéré comme criminel. Dans de nombreux cas, les acteurs qui exercent cette violence peuvent naviguer entre la légalité et l'illégalité, utilisant parfois des mécanismes politiques pour renforcer leur pouvoir tout en se livrant à des activités illégales. Ces acteurs peuvent, par exemple, participer à des élections ou à des processus politiques formels tout en utilisant la violence pour consolider leur pouvoir. Ils peuvent également s'engager dans des activités économiques légales tout en profitant de marchés illicites. De plus, ils peuvent utiliser des tactiques de violence et d'intimidation pour contrôler les populations locales, tout en prétendant offrir une forme de "gouvernance" ou de protection. Cette complexité rend souvent difficile la distinction entre la violence politique et la criminalité organisée. Cela peut également rendre plus difficile pour les États et les institutions internationales de répondre efficacement à ces formes de violence, car les approches traditionnelles de maintien de l'ordre ou de résolution de conflits peuvent ne pas être suffisamment adaptées à ces défis.

Dans certaines régions où l'État-nation est faible ou absent, divers groupes peuvent se livrer à des formes de violence infrapolitique pour contrôler les ressources et établir leur propre autorité. Ces groupes peuvent se livrer à diverses activités, allant du contrôle du trafic de drogues ou d'autres marchés illégaux à la fourniture de services sociaux dans les zones négligées par l'État. Parfois, ces groupes peuvent même créer des formes de gouvernance parallèles, remplissant des fonctions normalement assumées par l'État, comme l'application de la loi et l'arbitrage des litiges. Ces formes de gouvernance peuvent être basées sur une combinaison de force, de corruption, d'intimidation, de contrôle économique et parfois de légitimité sociale. Bien que ces groupes puissent parfois offrir une certaine stabilité ou des services dans les régions où ils opèrent, ils contribuent souvent à l'instabilité à long terme en sapant l'État-nation et en perpétuant des cycles de violence et de criminalité. De plus, ils peuvent exploiter et opprimer les populations locales, créant des conditions de vie difficiles pour de nombreuses personnes.

Concept de violence métapolitique

Le concept de violence métapolitique désigne la violence qui dépasse les limites traditionnelles du politique, qui n'est plus uniquement (ou principalement) liée à l'État-nation, mais qui est inscrite dans des dynamiques globales, transnationales et transculturelles. Ces formes de violence peuvent être motivées par diverses causes, allant des idéologies religieuses ou politiques radicales aux réactions à la mondialisation, en passant par le désir d'établir une nouvelle forme d'ordre social ou politique. Il s'agit souvent d'actes de violence extrêmes commis au nom d'une cause plus large, telle que la défense de l'identité religieuse ou culturelle, la lutte contre l'injustice perçue ou la promotion d'une vision particulière de la justice sociale ou politique. Les groupes terroristes internationaux, par exemple, pourraient être considérés comme des acteurs de violence métapolitique. Cela pose des défis majeurs en termes de gouvernance et de sécurité, car ces formes de violence échappent souvent au contrôle des États-nations et nécessitent une réponse coordonnée à l'échelle internationale.

Plusieurs facteurs ont été identifiés comme sources possibles de violence métapolitique.

  1. Critique de la surmodernité des sociétés avancées : Cela peut inclure des réactions à la vitesse du changement technologique, à l'aliénation et à la désillusion causées par la mondialisation et à la rupture des liens sociaux traditionnels. La violence métapolitique peut être un moyen pour certains groupes de s'opposer à ce qu'ils considèrent comme les aspects négatifs de la modernité et d'affirmer leur propre identité culturelle, sociale ou religieuse.
  2. Critique de la laïcisation politique et de la perte de lien avec le spirituel : La sécularisation et l'érosion de la foi religieuse dans de nombreuses sociétés modernes peuvent être perçues par certains comme une menace pour leur identité et leurs valeurs. Dans ce contexte, la violence métapolitique peut être utilisée comme un moyen de défendre et de réaffirmer l'importance de la religion et du spirituel dans la vie publique et personnelle.
  3. Ensemble des frustrations nées de la modernité : Cela peut inclure des sentiments d'insécurité économique, d'injustice sociale, d'exclusion politique ou de marginalisation culturelle. Ces frustrations peuvent être exacerbées par la perception que les bénéfices de la modernité sont inégalement répartis, ce qui peut conduire à des formes de violence métapolitique visant à attirer l'attention sur ces inégalités et à les combattre.

Ces facteurs sont souvent interconnectés et peuvent se renforcer mutuellement, créant un terreau fertile pour les formes de violence qui vont au-delà des frontières traditionnelles de l'État-nation et du politique.

Violence extrême vs barbarie

La violence extrême est une forme de violence qui échappe à tout contrôle, normes sociales, lois ou principes moraux généralement acceptés. Elle est souvent perçue comme étant de nature "gratuite", c'est-à-dire commise sans raison apparente, sans provocation préalable, et dépassant largement ce qui serait nécessaire pour atteindre un objectif donné. C'est une violence qui semble aller au-delà de toute justification ou explication rationnelle. La "barbarie" est un terme qui est souvent utilisé pour décrire de telles formes de violence extrême. C'est un terme qui a une connotation négative forte, et qui est souvent utilisé pour décrire des actes de violence qui sont perçus comme étant d'une cruauté, d'une brutalité ou d'une inhumanité exceptionnelles. Il est souvent utilisé pour décrire des actes de violence qui sont commis en violation flagrante des normes sociales, morales ou juridiques généralement acceptées. Les termes "violence extrême" et "barbarie" sont souvent chargés d'une grande émotion et peuvent être utilisés de manière polémique ou partisane. Il est également important de noter que la perception de ce qui constitue une "violence extrême" ou une "barbarie" peut varier en fonction du contexte culturel, historique ou individuel.

La violence extrême et la barbarie sont souvent manifestes dans des conflits armés et des guerres. Elles peuvent prendre plusieurs formes, notamment des violences sexuelles, le génocide ou l'épuration ethnique, et les massacres de civils, entre autres. Les violences sexuelles, dont le viol, sont souvent utilisées comme armes de guerre pour humilier, terrifier et dominer la population ennemie. Elles ont des conséquences dévastatrices pour les victimes et pour la société dans son ensemble, provoquant une stigmatisation durable et un traumatisme profond. L'épuration ethnique ou les guerres de purification ethnique sont une autre forme de violence extrême. Elles se caractérisent par des actes commis dans le but d'éliminer complètement un groupe ethnique, religieux ou racial spécifique d'une zone géographique. Ces actes peuvent comprendre le meurtre, le déplacement forcé, la destruction de biens et d'autres formes de violence physique. Ces formes de violence extrême ne sont pas seulement des violations flagrantes des droits de l'homme, elles constituent aussi des crimes de guerre et/ou des crimes contre l'humanité selon le droit international. Ces comportements sont condamnés par la communauté internationale et peuvent faire l'objet de poursuites par les tribunaux internationaux, comme la Cour pénale internationale.

Cela signifie le dérèglement des formes classique de la violence. Cette violence est qualifiée d’extrême parce qu’elle est qualifiée de violence au-delà de la violence, c’est une violence qui n’aurait plus aucun rituel et qui est une cruauté extrême.

  • L'exponentialité des violences physiques sur les personnes signifie une escalade sans précédent de la violence à l'encontre des individus. Cela peut inclure une augmentation drastique des meurtres, des violences sexuelles, des tortures, entre autres actes de violence physique.
  • Le processus de régression par rapport au processus civilisationnel est un retour à des comportements et des attitudes brutaux et primitifs, en contraste avec les normes et les valeurs qui sous-tendent une société civilisée. Cela peut se manifester par l'abandon de principes tels que le respect des droits de l'homme, la justice et l'équité.
  • La dérégulation des lois et principes de la guerre signifie l'abandon des règles qui ont été établies pour limiter les effets destructeurs de la guerre. Cela comprend le non-respect des conventions de Genève, qui établissent des normes minimales pour le traitement des personnes prises dans des conflits armés.
  • La désinstitutionnalisation de la violence est l'absence de tout cadre institutionnel ou légal pour contrôler ou réguler la violence. Cela signifie que la violence n'est plus limitée ou contrôlée par les structures institutionnelles, telles que le gouvernement ou la justice, et qu'elle peut se manifester de manière anarchique et imprévisible.

Tous ces éléments contribuent à la nature dévastatrice de la violence extrême et à son impact sur les individus et les sociétés.

La détermination du seuil à partir duquel la violence devient "extrême" est subjective et peut varier en fonction des différentes perspectives. Cependant, on peut généralement convenir que la violence devient "extrême" lorsqu'elle dépasse certaines limites acceptées par la société. Dans le contexte de la violence extrême, le passage de la rationalité à l'irrationalité peut être considéré comme un facteur clé. La violence est généralement considérée comme rationnelle lorsqu'elle a un but précis, comme l'auto-défense ou la réalisation d'un objectif politique. Lorsque la violence devient gratuite, démesurée ou disproportionnée par rapport à son objectif initial, on peut alors parler d'irrationalité. Lorsqu'il s'agit de violence extrême, les actes de violence ne sont plus liés à des objectifs tangibles, mais sont souvent motivés par la haine, le désir de destruction ou d'autres motivations irrationnelles. Cette violence peut être chaotique, imprévisible et souvent sans aucun respect pour la vie humaine ou la dignité. C'est dans ces circonstances que la violence est généralement qualifiée d'extrême. C'est un sujet de recherche en cours dans plusieurs disciplines, y compris la philosophie, la sociologie, la psychologie et les études de conflits, entre autres.

La violence extrême diffère significativement des conceptions classiques de la violence et de la guerre que nous retrouvons dans les œuvres de Machiavel et de Clausewitz. Machiavel et Clausewitz voyaient la guerre et la violence comme des outils de la politique, utilisés pour atteindre des objectifs politiques spécifiques. Ils présentaient la guerre comme un acte rationnel qui sert les intérêts d'un État ou d'un leader. Dans leurs théories, la guerre est encadrée par des règles et des conventions, comme le respect des non-combattants ou la proportionnalité de l'usage de la force. La violence extrême, en revanche, représente une rupture avec ces idées. Elle est souvent dépourvue de tout objectif politique clair, sans respect pour les conventions de la guerre ou les droits de l'homme. Elle se caractérise par sa gratuité, sa démesure, et son manque de discernement entre combattants et non-combattants. Dans ces circonstances, la violence est utilisée de manière irrationnelle et indiscriminée, souvent pour inspirer la terreur ou pour détruire l'adversaire. Il est donc vrai que la violence extrême remet en question les théories classiques de la guerre et de la violence politique, en montrant que la violence peut aller au-delà de la rationalité et devenir une fin en soi, un acte de barbarie pure. Cela représente un défi majeur pour les chercheurs, les décideurs politiques et les acteurs humanitaires qui cherchent à comprendre et à prévenir ce type de violence.

Michel Henry, un philosophe français, a écrit un ouvrage intitulé "La Barbarie" en 1987. Il s'est concentré dans cet ouvrage sur le concept de la barbarie, ce qu'elle signifie et comment elle se manifeste dans la société moderne. Pour Henry, la barbarie n'est pas simplement un acte de violence extrême, mais un système qui nie et déshumanise l'individu. Il perçoit la barbarie comme une conséquence de la modernité et de la rationalisation de la société, ce qui mène à une dépersonnalisation et à une déshumanisation. Il distingue deux formes de barbarie. La première est la "barbarie extérieure", caractérisée par des actes de violence et de brutalité physique. La deuxième, plus subtile mais tout aussi dévastatrice selon lui, est la "barbarie intérieure", qui se manifeste par une déshumanisation et une aliénation de l'individu dans la société moderne. Pour Henry, le système moderne, avec son insistance sur la technologie, la science et la rationalité, tend à négliger et à mépriser les aspects subjectifs et émotionnels de l'existence humaine. Cela mène à une "barbarie intérieure" où l'individu est réduit à un objet, un rouage dans une machine plus grande. Dans son œuvre, il met donc en avant l'importance de reconnaître et de valoriser la subjectivité et l'expérience intérieure de l'individu pour contrecarrer cette tendance barbare de la modernité.

Hannah Arendt (1906 - 1975) : Le Mal radical et la violence politique

Extrait d'un timbre allemand imprimé en 1988 à l'effigie de Hannah Arendt.

Hannah Arendt est une figure de proue de la philosophie politique du XXème siècle. Elle est née en Allemagne en 1906 et a été fortement influencée par son professeur et amant, Martin Heidegger. Juive, elle a dû fuir l'Allemagne en 1933 pour la France à cause de la montée du nazisme. Puis, en 1941, elle s'installe aux États-Unis où elle reste jusqu'à sa mort en 1975. Arendt a apporté des contributions significatives à notre compréhension de la politique, de l'autorité, du totalitarisme et de la violence. Parmi ses œuvres les plus connues, on trouve "Les Origines du totalitarisme" (1951), "La Condition de l'homme moderne" (1958) et "Eichmann à Jérusalem : Un rapport sur la banalité du mal" (1963). Dans "Les Origines du totalitarisme", elle cherche à comprendre comment des régimes totalitaires tels que ceux de l'Allemagne nazie et de l'Union soviétique ont pu émerger. Elle y analyse les éléments qui ont contribué à l'avènement de ces régimes, notamment l'antisémitisme, l'impérialisme et le totalitarisme lui-même. Dans "Eichmann à Jérusalem", elle examine le procès d'Adolf Eichmann, un fonctionnaire nazi responsable de l'organisation de la logistique de l'Holocauste. Elle y introduit le concept controversé de "la banalité du mal", suggérant que des actes atroces peuvent être commis par des personnes ordinaires qui ne font que suivre des ordres sans se questionner. Son œuvre a eu une influence significative sur une variété de disciplines, de la philosophie politique à la théorie critique en passant par les études de genre. Sa pensée continue d'être pertinente pour de nombreuses questions contemporaines, y compris les questions de pouvoir, d'autorité et de violence.

L'œuvre de Hannah Arendt est largement informée par les événements tragiques et turbulents du XXème siècle, notamment les deux guerres mondiales et l'émergence des régimes totalitaires. Son concept du "mal radical", développé en partie en réponse à sa réflexion sur le nazisme et l'Holocauste, est une notion particulièrement importante de sa pensée. Selon Arendt, le mal radical ne se manifeste pas nécessairement par des actes de cruauté exceptionnellement violents ou haineux, mais peut se présenter de manière banale et routinière, une idée qu'elle développe dans son compte rendu du procès d'Adolf Eichmann, "Eichmann à Jérusalem : Un rapport sur la banalité du mal". Pour Arendt, le "mal radical" est un mal qui dépasse la compréhension humaine traditionnelle du bien et du mal, dans le sens où il est commis par des personnes qui ne se perçoivent pas elles-mêmes comme maléfiques et qui, en fait, peuvent considérer leurs actions comme normales ou même nécessaires. C'est un mal qui, selon elle, a été rendu possible par les structures et les systèmes de la modernité, et qui constitue une rupture avec les modèles traditionnels de moralité et de responsabilité.

La conception de Hannah Arendt du "mal radical" est en partie influencée par la pensée du philosophe Immanuel Kant. Cependant, l'approche d'Arendt est distincte de celle de Kant à des égards importants. Kant introduit la notion de "mal radical" dans sa Religion au-delà du seul domaine de la raison. Pour Kant, le mal radical est un potentiel inhérent à la nature humaine, c'est-à-dire une propension naturelle à prioriser nos propres désirs et intérêts au-dessus des exigences de la loi morale. Toutefois, il souligne aussi la capacité de l'être humain à surmonter cette propension par l'exercice de la liberté et de la rationalité. D'un autre côté, Arendt reprend la notion de mal radical dans un contexte complètement différent, celui des crimes de masse et du totalitarisme du XXe siècle. Pour Arendt, le mal radical devient manifeste lorsque des actions inhumaines et destructrices deviennent normalisées au point de perdre leur caractère exceptionnel. Ce mal radical se manifeste dans la banalité de ses exécuteurs, qui commettent des actes horribles non pas par une volonté maléfique mais par indifférence, par conformité ou par incapacité à penser par eux-mêmes. Ces deux conceptions, bien que liées, diffèrent dans leur compréhension de la nature et de la manifestation du mal radical. Kant voit le mal comme une potentialité inhérente à l'humain qui peut être surmontée, tandis qu'Arendt voit le mal comme une manifestation d'un système social et politique, qui dépasse l'individualité et se manifeste dans des structures et des comportements normalisés.

Pour Hannah Arendt, le concept de "mal radical" représente un changement fondamental dans notre compréhension traditionnelle du mal. C'est une tentative de conceptualiser les atrocités de masse perpétrées pendant la Seconde Guerre mondiale et le totalitarisme. Ces événements représentaient, pour elle, un type de mal qui était différent de ce que la philosophie et la morale traditionnelles étaient équipées pour comprendre. Selon Arendt, le mal radical était lié à la banalité du mal, une phrase qu'elle a utilisée pour décrire le fait que des personnes ordinaires pouvaient commettre des actes terribles sous l'influence d'un régime totalitaire ou lorsqu'elles se conformaient à l'autorité. Elle a notamment développé cette idée dans son livre "Eichmann à Jérusalem : un rapport sur la banalité du mal", où elle a étudié le cas d'Adolf Eichmann, un bureaucrate nazi qui a joué un rôle clé dans la mise en œuvre de l'Holocauste. Arendt a souligné que Eichmann n'était pas un monstre, mais un individu ordinaire qui ne pensait pas par lui-même et qui a simplement suivi les ordres. Ainsi, pour Arendt, le mal radical du XXe siècle était profondément lié à la déshumanisation, à la normalisation de l'inhumanité et à l'abdication de la pensée personnelle et de la responsabilité morale.

Arendt a examiné l'Holocauste et la persécution des Juifs sous le régime nazi non pas comme un exemple de mécanisme de bouc émissaire, mais plutôt comme une manifestation de ce qu'elle a appelé la "banalité du mal". L'antisémitisme nazi, selon Arendt, n'était pas simplement une question de rejeter la culpabilité ou le mal sur un autre groupe. Au lieu de cela, il était profondément enraciné dans l'idéologie nazie et a été mené par des individus ordinaires qui ont commis des actes terribles non pas par haine personnelle ou par désir de faire du mal, mais simplement parce qu'ils suivaient les ordres et la logique du système totalitaire. Selon Arendt, l'Holocauste était le produit d'une structure de pouvoir totalitaire qui dépouillait les individus de leur capacité à penser par eux-mêmes et à exercer un jugement moral. Les Juifs ont été ciblés non pas parce qu'ils étaient des boucs émissaires portant la culpabilité des autres, mais plutôt parce qu'ils étaient considérés par le régime nazi comme une menace pour leur vision d'une société homogène et racialement pure.

La théorie du bouc émissaire de René Girard repose sur l'idée que la violence collective est générée par des tensions mimétiques au sein d'une communauté, qui sont ensuite déplacées sur une victime sacrificielle - le "bouc émissaire". Cette victime est accusée de causer le désordre et est punie ou expulsée pour rétablir l'harmonie au sein de la communauté. Cependant, Hannah Arendt remet en question cette idée dans le contexte de l'Holocauste. Pour Arendt, les Juifs n'étaient pas simplement des boucs émissaires portant le poids de la faute ou de la violence collective. Au contraire, ils étaient les victimes d'une idéologie haineuse et d'un système totalitaire qui les ciblait spécifiquement pour leur extermination. Leur persécution et leur meurtre n'étaient pas le résultat de tensions mimétiques au sein de la communauté allemande, mais plutôt d'un plan systématique d'extermination mené par le régime nazi. En ce sens, Arendt conteste l'idée que le mal puisse simplement être déplacé ou projeté sur une victime sacrificielle. Au lieu de cela, elle soutient que le mal est une manifestation de l'action humaine et des structures de pouvoir, et peut être perpétré par des individus ordinaires dans certaines conditions. C'est ce qu'elle a appelé la "banalité du mal".

Hannah Arendt, dans sa réflexion sur le totalitarisme et spécifiquement sur le génocide perpétré par le régime nazi, a introduit l'idée de "superfluité" humaine. Pour Arendt, la "superfluité" se réfère à la condition d'être en trop, de n'avoir aucune place ou utilité dans une société ou un système donné. Dans le contexte de l'Holocauste, cette idée de superfluité était manifeste dans la façon dont les Juifs étaient considérés par le régime nazi. Ils étaient vus comme des êtres sans valeur, qui pouvaient être exterminés sans conséquence. Cette idée de superfluité est un élément essentiel du mal radical d'Arendt, dans le sens où elle suggère que la capacité de traiter les autres comme superflus, de les déshumaniser à un tel point qu'ils peuvent être massivement exterminés, est une forme de mal qui dépasse nos conceptions traditionnelles de ce qu'est le mal. Arendt suggère que cette forme de mal radical n'est pas seulement le fait de psychopathes ou de monstres, mais peut être perpétrée par des gens ordinaires qui sont intégrés dans des systèmes totalitaires et qui, pour diverses raisons, n'ont pas la capacité ou la volonté de remettre en question les ordres qu'ils reçoivent ou les idéologies qu'on leur présente. C'est ce qu'elle appelle la "banalité du mal".

Dans son analyse du totalitarisme et des camps de concentration, Hannah Arendt a distingué trois types de camps, qui correspondent à trois fonctions différentes du système totalitaire.

  1. Les camps de type "Hadès" étaient destinés à la gestion des apatrides, des asociaux, et de tous ceux qui étaient considérés comme indésirables ou superflus dans la société. Ces camps étaient destinés à contenir, contrôler et isoler ces personnes, plutôt qu'à les rééduquer ou les exterminer.
  2. Les camps de type "Purgatoire" étaient des camps de rééducation destinés à ceux qui étaient considérés comme des menaces potentielles pour le régime, mais qui étaient aussi considérés comme réformables. L'objectif dans ces camps était de contraindre les individus à adopter l'idéologie et les comportements approuvés par le régime.
  3. Enfin, les camps de type "Enfer" étaient des camps d'extermination, où les personnes jugées indésirables étaient systématiquement tuées. Ces camps représentaient la forme la plus extrême et la plus effroyable de la violence totalitaire, où la vie humaine était systématiquement détruite à une échelle industrielle.

Dans les camps de type "Enfer", comme ceux des camps de concentration et d'extermination nazis, Hannah Arendt a décrit un processus de déshumanisation et de dépersonnalisation systématique.

  1. Dépossession juridique : Les détenus des camps étaient dépossédés de leurs droits juridiques, réduits à un état d'extrême vulnérabilité en étant exclus de la protection des lois. Ils n'étaient plus considérés comme des sujets de droit, mais comme des objets à disposer à la volonté du régime.
  2. Abandon à toute régulation : Les camps étaient des espaces de non-droit où la loi n'était pas appliquée, et où la violence et la brutalité étaient la norme. C'est ici que les détenus étaient souvent livrés à la merci des "kapos" ou des gardes du camp, qui étaient souvent des criminels.
  3. Destruction de la personnalité et de l'individualité : Les détenus étaient systématiquement dépouillés de leur identité personnelle et réduits à un numéro ou à une catégorie. Les nazis cherchaient à anéantir tout ce qui faisait de chaque détenu une personne unique, y compris leur nom, leur histoire personnelle, leurs croyances et leurs aspirations.
  4. Réduction à l'état animal : Les conditions de vie extrêmement dures dans les camps, marquées par la faim, la soif, le froid, le travail forcé, la maladie et la violence omniprésente, réduisaient souvent les détenus à un état proche de l'animalité. Le régime nazi a intentionnellement créé des conditions dans lesquelles les détenus étaient contraints de se battre pour leur survie de la manière la plus basique, souvent aux dépens de leur humanité.

Ce processus de déshumanisation avait pour but ultime de faciliter et de rationaliser le meurtre de masse. En réduisant les détenus à un état moins qu'humain, les auteurs de la Shoah ont cherché à justifier et à dissimuler leurs crimes.

Jorge Semprún était un écrivain et homme politique espagnol qui a survécu à l'horreur du camp de concentration de Buchenwald pendant la Seconde Guerre mondiale. Il a relaté son expérience de survivant de l'Holocauste dans plusieurs de ses œuvres, notamment dans son livre "L'Écriture ou la Vie". Dans ses mémoires, il décrit comment il a trouvé une certaine forme de réconfort et d'espoir en regardant un arbre depuis l'enceinte du camp. Cet arbre, qu'il pouvait voir mais auquel il ne pouvait pas accéder, est devenu pour lui un symbole de liberté, de résistance et de vie face à l'horreur et à la mort omniprésentes dans le camp. Il a utilisé cette image comme une évasion mentale et une source d'espoir, lui permettant de maintenir une certaine forme d'humanité et de résilience face à l'inhumanité de sa situation. C'est un exemple de la façon dont, même dans les situations les plus désespérées, les êtres humains peuvent trouver des moyens de résister et de préserver leur humanité. La force de l'esprit humain peut être extraordinaire et c'est ce genre d'histoires qui nous le rappellent.

Les tactiques utilisées dans les camps de concentration visaient non seulement à infliger des souffrances physiques, mais aussi à détruire l'humanité de ceux qui y étaient enfermés. En plus des traitements cruels et inhumains, les détenus étaient également privés de leur identité personnelle et de leur individualité. Cette dégradation psychologique faisait partie intégrante de la stratégie de terreur et de contrôle. L'idée de réduire les détenus à un état "d'animalité" était clairement manifeste dans de nombreux aspects de la vie du camp. Les conditions de vie sordides, le manque de nourriture, l'absence d'hygiène, et la violence constante étaient conçus pour déshumaniser les détenus et les priver de leur dignité. Par ailleurs, l'absence de perspective temporelle, l'incertitude constante et le manque d'information sur le monde extérieur contribuaient également à cet effet de déshumanisation. En privant les détenus de la possibilité de planifier ou même d'imaginer un avenir, les bourreaux cherchaient à les maintenir dans un état d'angoisse et de désespoir constant. Enfin, la destruction de la solidarité et de la conscience morale était également une partie essentielle de cette stratégie. En créant un environnement où la survie individuelle devenait l'objectif principal, les bourreaux cherchaient à briser les liens de solidarité et d'empathie qui pourraient aider les détenus à résister ou à maintenir leur humanité. Toutes ces tactiques visaient à déshumaniser complètement les détenus et à les transformer en "êtres inférieurs", afin de justifier et de faciliter leur extermination. Cette déshumanisation était une composante essentielle de l'horreur des camps de concentration, et elle est aujourd'hui largement reconnue comme une caractéristique des génocides et des crimes contre l'humanité.

Hannah Arendt et la banalité du mal

Adolf Eichmann en avril 1961 lors de son procès à Jérusalem.

Hannah Arendt, dans son rapport sur le procès d'Adolf Eichmann à Jérusalem en 1961, a introduit le concept de "banalité du mal". Eichmann, un bureaucrate de haut rang du régime nazi, était l'un des principaux organisateurs de l'Holocauste. Pourtant, au cours de son procès, il a affirmé qu'il n'avait fait que suivre les ordres et qu'il n'avait pas agi par haine ou par malveillance personnelle.

Pour Arendt, le cas d'Eichmann incarnait une forme de mal qui n'était pas enracinée dans la monstruosité personnelle ou la perversité, mais qui découlait plutôt de la pensée superficielle et de l'adhésion aveugle à un système de commandement. Elle l'a décrit comme "terriblement et effroyablement normal", insinuant que n'importe qui, dans certaines conditions, pourrait devenir un acteur du mal. La "banalité du mal", pour Arendt, ne minimise pas l'horreur des actions commises, mais plutôt souligne la façon dont des structures systémiques et des pressions sociales peuvent amener des individus ordinaires à participer à des actes de violence extrême. Cette théorie a suscité une grande controverse et un débat philosophique intense, et elle reste aujourd'hui l'un des aspects les plus discutés de la pensée d'Arendt.

Adolf Eichmann n'était pas seulement un "petit fonctionnaire" mais un haut fonctionnaire nazi chargé de l'organisation logistique de la déportation et de l'extermination des Juifs pendant la Seconde Guerre mondiale. Eichmann a été capturé en Argentine par les services secrets israéliens (Mossad) en 1960, puis emmené en Israël pour être jugé. Ce qui a particulièrement intéressé Hannah Arendt dans le procès d'Eichmann, c'est la déclaration de celui-ci selon laquelle il n'avait fait que "suivre les ordres" et qu'il n'était donc pas directement responsable des atrocités commises. C'est cette position, alliée à son apparente normalité, qui a conduit Arendt à formuler sa théorie de la "banalité du mal". Selon Arendt, Eichmann n'était pas un monstre au sens traditionnel du terme, mais plutôt un individu ordinaire qui s'était laissé entraîner dans le système bureaucratique nazi et qui s'était abstrait de la réalité et de l'humanité des victimes. Arendt a souligné que ce genre de mal, commis par des gens ordinaires qui se dissocient de leurs actions, est peut-être le plus terrifiant de tous.

La Conférence de Wannsee, qui s'est tenue le 20 janvier 1942 à Berlin, est généralement considérée comme le moment où la "solution finale de la question juive", c'est-à-dire l'extermination systématique des Juifs, a été formellement décidée par les dirigeants nazis. Bien que la majorité des documents de la conférence aient été détruits par les nazis à la fin de la Seconde Guerre mondiale, un exemplaire du procès-verbal de la réunion a été découvert en 1947. Ce document a fourni une preuve concrète de l'intention des nazis d'exterminer les Juifs.

Dans le cas d'Eichmann, sa culpabilité n'était pas vraiment en question lors de son procès. Il avait déjà reconnu son rôle dans l'organisation de la déportation des Juifs vers les camps de concentration et d'extermination. La question était plutôt de savoir dans quelle mesure il était responsable de ses actions, compte tenu de sa revendication de n'avoir fait que suivre les ordres. C'est là que la théorie de la "banalité du mal" d'Arendt est entrée en jeu. Eichmann a été reconnu coupable de crimes contre l'humanité, de crimes de guerre et d'autres charges, et il a été exécuté en 1962. Son procès a mis en évidence la responsabilité personnelle des individus pour leurs actions, même lorsqu'ils agissent dans le cadre d'un système bureaucratique ou en suivant des ordres.

Hannah Arendt a été frappée par l'apparente normalité d'Eichmann, ce qu'elle a appelé la "banalité du mal". Selon elle, Eichmann n'était pas un monstre assoiffé de sang ou un fanatique idéologique, mais plutôt un bureaucrate moyen qui se contentait de faire son travail sans questionner la moralité de ses actions. Pour Arendt, cela représentait un nouveau type de mal, un mal commis par des personnes ordinaires qui se conformaient simplement au système en place sans réfléchir aux conséquences de leurs actes. Elle a soutenu que cela était en partie possible parce que la bureaucratie nazie avait déshumanisé l'acte d'extermination, le transformant en une simple tâche administrative. Cela ne signifie pas qu'Eichmann n'était pas coupable de ses crimes. Au contraire, Arendt a souligné que, même dans un système bureaucratique, les individus ont toujours la responsabilité morale de leurs actions. Cependant, cela montre que le mal peut se produire dans des circonstances ordinaires et être perpétré par des personnes ordinaires. C'est cette idée qui a donné lieu au concept de "banalité du mal".

Le terme "banalité du mal" qu'Hannah Arendt a inventé pour décrire Adolf Eichmann et les criminels de guerre nazis similaires se réfère précisément à ce paradoxe. Eichmann n'était pas un psychopathe démoniaque ou un sadique dérangé, mais plutôt un fonctionnaire obsédé par l'efficacité de son travail. Arendt a avancé que le mal, loin d'être l'apanage de monstres inhumains, peut être perpétré par des personnes tout à fait ordinaires qui acceptent le système tel qu'il est et ne remettent pas en question les ordres qu'on leur donne. Elle a décrit Eichmann comme un homme qui, pour reprendre ses termes, était "terriblement et terrifiantement normal". Cette "banalité du mal" repose sur l'idée que les individus peuvent commettre des actes atroces non pas parce qu'ils sont intrinsèquement mauvais ou haineux, mais simplement parce qu'ils ne pensent pas aux conséquences de leurs actions. Il est important de noter qu'Arendt n'excuse pas les actes d'Eichmann, mais cherche plutôt à comprendre comment de tels crimes peuvent se produire. C'est une invitation à la vigilance et à l'éveil moral de tous pour empêcher que de tels actes ne se reproduisent.

« Nous nous attendions à rencontrer un monstre humain, nous avons eu à faire un homme ordinaire soit moins un monstre qu’un clown ». Cette citation d'Hannah Arendt reflète bien la conception de la "banalité du mal" qu'elle a développée. Pour elle, Eichmann et d'autres responsables de crimes de masse n'étaient pas des figures monstrueuses et inhumaines, mais des personnes ordinaires, qui dans le cas d'Eichmann, semblaient parfois dérisoires, voire ridicules ("un clown"). Arendt suggère ici que la vraie nature de l'horreur ne réside pas tant dans la monstruosité exceptionnelle que dans l'ordinaire, le quotidien, l'habitude, la routine. Dans le cas d'Eichmann, il n'était pas motivé par une haine raciale fervente, mais il exécutait simplement ses fonctions bureaucratiques de manière efficace et zélée, sans remettre en question les conséquences dévastatrices de ses actions. Cette conception de la "banalité du mal" remet en question notre perception traditionnelle du mal et de la responsabilité individuelle dans les crimes de masse, soulignant le rôle de la pensée critique et de l'éthique personnelle dans la prévention de tels actes.

La théorie de la "banalité du mal" développée par Hannah Arendt nous met face à l'ordinaire et à l'habitude qui peuvent conduire à l'extrême dans certaines conditions. Arendt met en évidence la capacité d'un individu apparemment "normal" à commettre des actes inimaginables de cruauté et d'injustice lorsqu'il est inséré dans un système qui non seulement permet, mais encourage de telles actions. En déshumanisant leurs victimes et en refusant de reconnaître leur propre rôle dans le mal commis, des individus comme Eichmann étaient capables de se détacher de la réalité de leurs actions et de les justifier comme étant simplement l'exécution des ordres ou le respect de la loi. Cela révèle une vérité troublante et profondément inquiétante : le mal n'est pas toujours commis par des individus profondément perturbés ou intrinsèquement mauvais. Parfois, il peut être perpétré par des personnes ordinaires qui, dans certaines circonstances, sont capables d'actes extraordinairement horribles. Cela souligne l'importance de la vigilance morale, de l'éducation et de la capacité de jugement individuel pour prévenir la répétition de tels événements dans l'avenir.

La théorie de la "banalité du mal" de Hannah Arendt tire sa signification précisément de cette constatation : l'individu, comme Adolf Eichmann, peut participer à des actes de mal extrême sans pleinement intégrer ou reconnaître la réalité de ce qu'ils font. Dans le cas d'Eichmann, il s'est considéré comme un simple fonctionnaire qui "faisait son travail". Arendt souligne qu'Eichmann n'était pas un psychopathe ou un fanatique, mais plutôt quelqu'un qui s'était déconnecté de sa capacité de jugement moral, permettant ainsi à son sens de la moralité d'être défini entièrement par le système au sein duquel il travaillait. Il a suivi les ordres et les règlements sans jamais remettre en question l'éthique ou les conséquences de ses actions. Pour lui, les victimes de l'Holocauste n'étaient pas des individus réels avec leurs propres vies et expériences, mais plutôt des numéros et des statistiques dans son système de logistique. Par conséquent, Eichmann n'a pas reconnu la réalité de ses actions et leur impact dévastateur sur les personnes réelles. C'est cette déconnexion de la réalité, cette incapacité à voir les implications morales et humaines de ses actions, qui incarne la "banalité du mal" d'Arendt. Elle nous rappelle qu'il est possible pour des individus ordinaires de commettre des actes de mal extrême lorsqu'ils sont coupés de leur empathie et de leur compréhension de la réalité de leurs actions.

Selon Arendt, la capacité de penser est essentielle pour le jugement moral. Penser, dans ce contexte, signifie plus que simplement réfléchir ou avoir des pensées - c'est une activité qui nécessite de la réflexion, de la remise en question, de la prise en compte de différentes perspectives et de l'empathie. C'est une sorte de conversation interne où l'on examine les implications morales de ses actions et où l'on prend des décisions informées et éthiques. Dans le cas d'Eichmann et de nombreux autres qui ont participé à des actes de grande envergure, Arendt suggère que leur incapacité à penser de cette manière a rendu possible leur participation. Ils ont simplement suivi des ordres, sans prendre le temps de réfléchir aux implications morales ou aux conséquences humaines de leurs actions. Par conséquent, l'absence de pensée - dans le sens de la réflexion morale et de l'empathie - peut conduire à des actions immorales. Les individus peuvent alors se dissocier de la réalité de leurs actions et éviter toute responsabilité morale. C'est ce qui rend le mal si "banal" ou ordinaire, selon Arendt - il ne nécessite pas une méchanceté inhérente, mais simplement une absence de pensée réfléchie.

"Nous nous attendions à rencontrer un monstre humain, mais nous avons affaire à un homme ordinaire… soit moins un monstre qu’un clown… L’homme mauvais serait donc chacun d’entre nous… S’il se laisse glisser et entraîner insensiblement il parvient dans des circonstances historiques et politiques à commettre les plus grands crimes. Il n’y a pas plus de génie dans le mal que dans le bien, mais seulement des hommes ordinaires, en qui l’esprit du mal veille et n’attend que le moment favorable pour souffler et les pousser au mal radical, de sorte qu’il y a disproportion entre le mal commis et l’apparence tout ordinaire de l’être humain qui l’a accompli".

C'est une citation puissante qui résume bien la thèse de Hannah Arendt sur la "banalité du mal". Cette citation fait référence à sa couverture du procès d'Adolf Eichmann, un fonctionnaire nazi qui avait joué un rôle clé dans l'organisation de l'Holocauste. Eichmann n'était pas un homme particulièrement cruel ou sadique par nature, mais un fonctionnaire zélé qui se contentait d'exécuter les ordres de ses supérieurs sans réfléchir aux conséquences morales de ses actions. C'est cette absence de pensée, cette incapacité à considérer les implications éthiques de ses actions, que Arendt qualifie de "banalité du mal". La citation souligne l'idée que le mal n'est pas nécessairement l'oeuvre de "monstres", mais peut être commis par des personnes ordinaires qui se détachent de leur propre responsabilité morale. Il s'agit d'un rappel important que l'éthique et la responsabilité personnelle sont essentielles, même (et surtout) dans des situations où l'on est poussé à agir contrairement à sa conscience.

Le professeur Rémi Baudoui affirme qu'il n'y a pas d'action sans pensée. Cette affirmation souligne une conclusion fondamentale de la philosophie d'Hannah Arendt : l'action et la pensée sont intimement liées. Pour Arendt, la capacité de penser est fondamentale pour la moralité humaine et la responsabilité éthique. Dans le cas d'Eichmann, Arendt soutient qu'il a pu participer à des actes d'une cruauté indicible précisément parce qu'il n'a pas réfléchi aux implications morales de ses actions. Il a simplement "suivi les ordres", se détachant de sa responsabilité personnelle. Cette absence de pensée est, pour Arendt, ce qui rend le mal "banal" et effrayant, car elle suggère que n'importe qui peut devenir capable de commettre des actes terribles s'il renonce à penser et à faire preuve de jugement moral. C'est pourquoi l'affirmation de Baudoui est si importante : elle souligne la nécessité de la réflexion et de l'engagement éthique dans tout ce que nous faisons. Sans la pensée, nous risquons de nous laisser entraîner dans des actions que nous pourrions autrement reconnaître comme immorales ou injustes.

Reconsidérer le concept de violence

La vision de la violence par Hannah Arendt est complexe. Elle distingue entre la violence, le pouvoir, l'autorité et la force, et soutient qu'il s'agit de concepts distincts qui sont souvent confondus. Selon Arendt, le pouvoir est une capacité collective qui émerge lorsque les gens se réunissent et agissent en concert. Il est fondé sur le consentement mutuel et la coopération, et c'est la base de tout gouvernement politique. La violence, d'autre part, est une action qui détruit, blesse ou tue. Elle peut être utilisée pour défendre le pouvoir, ou pour le détruire, mais elle ne peut pas le créer. C'est une forme d'action instrumentale, souvent utilisée comme un moyen de parvenir à une fin, comme la domination ou la coercition. L'autorité est un type particulier de pouvoir qui découle du respect ou de l'estime pour une personne ou une institution. Elle est fondée sur la légitimité et le consentement. La force, quant à elle, est une capacité physique ou matérielle qui peut être utilisée pour exercer une contrainte ou une domination. Pour Arendt, donc, la violence et le pouvoir sont en réalité opposés. Le pouvoir vient du peuple et de leur consentement à être gouverné, tandis que la violence est un acte de destruction ou de contrainte. Elle est utilisée lorsque le pouvoir est absent ou a échoué. En cela, Arendt nous rappelle que la violence peut renverser le pouvoir, mais elle ne peut pas le remplacer ou le créer. C'est une distinction cruciale dans sa philosophie politique.

Hannah Arendt a contesté le concept de violence légitime formulé par Max Weber. Selon Weber, l'État détient le monopole de la violence légitime, c'est-à-dire le droit exclusif d'utiliser la force physique pour maintenir l'ordre et appliquer la loi. Cette notion est fondamentale pour la définition de Weber de l'État et pour sa théorie plus générale du pouvoir politique. Cependant, Arendt a remis en question cette idée. Selon elle, la violence et le pouvoir sont des concepts distincts et souvent opposés. Le pouvoir, comme elle l'a défini, découle du consentement et de l'action collective, tandis que la violence est une forme d'action coercitive et destructrice. Elle soutient que la violence peut être utilisée pour défendre ou détruire le pouvoir, mais qu'elle ne peut pas le créer. Arendt remet en question la légitimité de l'utilisation de la violence par l'État, soutenant que toute utilisation de la violence est potentiellement illégitime parce qu'elle contredit la nature du pouvoir politique, qui est basé sur le consentement et l'action collective. Elle met en garde contre les dangers de l'usage de la violence par l'État, en particulier dans les situations où l'État utilise la violence pour maintenir son pouvoir en l'absence de consentement ou de soutien populaire. Cela ne veut pas dire qu'Arendt ne reconnaisse aucune légitimité à l'usage de la violence par l'État - par exemple, pour maintenir l'ordre ou défendre la communauté contre une agression externe. Cependant, elle souligne que cette violence doit être justifiée par des principes éthiques et moraux, et non simplement par le fait que l'État possède le monopole de la force.

Hannah Arendt suggère que la violence peut être utilisée comme un instrument par les gouvernements, mais qu'aucun gouvernement ne peut se baser exclusivement sur la violence pour maintenir son pouvoir. L'idée ici est que la violence peut être une méthode utilisée par le gouvernement pour atteindre certains objectifs, mais elle n'est pas la source du pouvoir elle-même. Dans son livre "Sur la violence", Arendt explore cette idée plus en détail. Elle soutient que la violence et le pouvoir sont des concepts distincts et souvent opposés. Le pouvoir, selon elle, provient du consensus et de la coopération entre les personnes ; c'est un attribut collectif qui émane de l'adhésion et du soutien des gens. La violence, par contre, est coercitive et destructrice. Elle peut être utilisée pour défendre ou détruire le pouvoir, mais elle ne peut pas le créer. Un régime qui dépend uniquement de la violence pour maintenir son contrôle est intrinsèquement instable, car la violence provoque souvent une résistance et une opposition. L'idée de "violence instrumentale" se réfère à l'utilisation de la violence comme un moyen d'atteindre certains objectifs. Par exemple, un gouvernement peut utiliser la violence pour faire respecter les lois ou pour réprimer la dissidence. Cependant, Arendt soutient que l'usage de la violence de cette manière est fondamentalement différent de l'exercice du pouvoir, qui repose sur le consentement et la coopération des citoyens.

Dans la perspective de Hannah Arendt, l'utilisation répétée de la violence par un gouvernement peut être vue comme un signe de faiblesse plutôt que de force. Si un gouvernement doit recourir constamment à la violence pour faire respecter ses directives, cela indique que ce gouvernement a du mal à obtenir le consentement et le soutien de ses citoyens, et qu'il est donc en position de faiblesse. La violence est un outil de coercition, pas de persuasion. Elle peut forcer les gens à se conformer par peur des conséquences, mais elle ne gagne pas leur consentement ou leur soutien volontaire. Un gouvernement qui peut persuader ses citoyens de soutenir volontairement ses politiques est beaucoup plus fort et stable qu'un gouvernement qui doit recourir à la violence pour faire respecter ses décisions. C'est pourquoi Arendt a souligné que le pouvoir et la violence sont des concepts distincts. Le pouvoir, selon elle, provient du consentement et de la coopération entre les individus. La violence, d'autre part, est une méthode de coercition qui peut être utilisée pour défendre ou détruire le pouvoir, mais ne peut pas le créer. Dans ce contexte, l'usage répété de la violence est donc un indicateur d'une faiblesse politique. Cela suggère que le gouvernement est incapable de persuader ses citoyens de soutenir volontairement ses politiques et doit donc recourir à la force pour faire respecter ses directives.

Lorsqu'un gouvernement ou un régime ne recourt qu'à la violence pour maintenir l'ordre, on peut dire qu'il a cessé de faire de la politique au sens véritable du terme. Pour Arendt, la politique implique le dialogue, la persuasion et le consensus. Lorsque la violence devient l'outil principal du gouvernement, il ne s'agit plus de politique mais de tyrannie ou de dictature. La Terreur pendant la Révolution française est un exemple de ce concept. Robespierre et les Jacobins ont utilisé la violence et la peur pour supprimer l'opposition et maintenir le contrôle, justifiant leurs actions au nom de la Révolution et de la "vertu" républicaine. Ils ont recours à des exécutions massives, notamment par la guillotine, pour éliminer ceux qu'ils considéraient comme des ennemis de la Révolution. Cependant, ce régime de terreur n'était pas durable. Il a engendré une peur et une instabilité généralisées, et a finalement mené à la chute de Robespierre et à la fin de la Terreur. Cet exemple illustre le point d'Arendt selon lequel la violence peut détruire le pouvoir, mais elle ne peut pas le créer ou le maintenir de manière durable.

Arendt croyait que la violence était un outil de contrôle inefficace à long terme et qu'elle ne pouvait pas engendrer un véritable pouvoir. Pour Arendt, le pouvoir est basé sur la légitimité et le consentement mutuel, ce qui est totalement absent dans les régimes qui utilisent la violence comme moyen de contrôle. En effet, elle affirme que la violence peut détruire le pouvoir existant, mais elle n'a pas la capacité de le créer. La violence peut effrayer et contraindre les gens à obéir, mais elle ne peut pas établir la véritable légitimité ou le respect nécessaire pour le fonctionnement à long terme d'un gouvernement. De plus, elle met en garde contre le danger que la violence puisse devenir une fin en soi. Cela se produit lorsque les régimes deviennent de plus en plus dépendants de la violence pour maintenir leur contrôle, la violence devient alors non seulement un moyen, mais aussi un objectif en soi. Cette situation, selon Arendt, marque la fin de la véritable politique, qui devrait être basée sur le dialogue, la persuasion et le consensus plutôt que sur la contrainte et la force.

"En résumé, il ne suffit pas de dire que, dans le domaine politique, il ne faut pas confondre pouvoir et violence. Le pouvoir et la violence s’opposent pas leur nature même ; lorsque l’un des deux prédomine de façon absolue, l’autre est éliminé. La violence se manifeste lorsque le pouvoir est menacé, mais si on la laisse se développer, elle provoquera finalement la disparition du pouvoir. Il en résulte que la non-violence ne devrait pas être considérée comme le contraire de la violence. Parler d’un pouvoir non violent est en fait une tautologie. La violence peut détruire le pouvoir, elle est parfaitement incapable de le créer."

C'est une citation puissante qui résume les vues d'Hannah Arendt sur le pouvoir, la violence et la non-violence. Selon Arendt, le pouvoir est intrinsèquement non violent. Lorsqu'on parle de pouvoir, on parle en fait de la capacité de travailler ensemble, d'atteindre des objectifs communs et de créer des conditions mutuellement bénéfiques. Dans cette optique, la violence est contraire à la nature du pouvoir car elle divise, détruit et force plutôt que de rassembler, créer et persuader. L'importance de cette vision d'Arendt est claire, en particulier lorsqu'on considère des contextes politiques ou sociaux dans lesquels la violence est souvent considérée comme un outil nécessaire pour obtenir ou maintenir le pouvoir. Arendt rejette cette idée, affirmant que la violence peut détruire le pouvoir, mais elle ne peut pas le créer. Sa référence à la non-violence en tant que tautologie pour le pouvoir renforce cette idée. En d'autres termes, le pouvoir, par nature, est non violent - il nécessite le consentement, l'engagement et la coopération, et ne peut pas être maintenu par la force ou la contrainte. Cette perspective a des implications importantes pour la façon dont nous concevons la politique, le leadership et les relations sociales.

Appendici

Riferimenti